Le organizzazioni umanitarie si schierano contro la vendita di armi a Israele

Speciale per Africa ExPress
-Federica Iezzi-

Più di 250 organizzazioni della società civile in tutto il mondo hanno aderito all’appello, rivolto a tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite, affinché si cessi di alimentare il trasferimento di armi al governo israeliano.

La scorsa settimana gli uffici legali di otto Organizzazioni Non Governative francesi (ASER – Action Sécurité Ethique Républicaines, Attac, FTCR – Fédération des Tunisiens pour une Citoyenneté des deux Rives, AFPS – Association France Palestine Solidarité, AMF – Association des Marocains de France, CRLDHT – Comité pour le Respect des Libertés et des Droits de l’Homme en Tunisie, Union Syndicale Solidaires, Amnesty International France) hanno rispettivamente depositato, tre procedimenti sommari, dinanzi al Tribunale amministrativo di Parigi, relativi alle autorizzazioni di esportazioni di armi dalle autorità francesi verso Israele.

I tre distinti approcci giuridici mirano a garantire il rispetto degli impegni internazionali della Francia. L’azione portata avanti mira ad ottenere la sospensione delle licenze di esportazione di materiale bellico per le categorie ML5 (attrezzature antincendio) e ML15 (equipaggiamento militare per la ripresa di immagini) con destinazione Israele.

Esiste infatti il rischio evidente che le armi esportate vengano utilizzate per commettere crimini contro la popolazione civile nella Striscia di Gaza occupata. In tal modo, la Francia viola le norme internazionali, in particolare il Trattato sul commercio delle armi (2013) e le norme comuni dell’Unione Europea per il controllo delle esportazioni di tecnologia e attrezzature militari (2008), e rischia di diventare complice di violazioni del diritto internazionale – compresi crimini di guerra.

Il Trattato sul commercio delle armi proibisce qualsiasi trasferimento di armi se lo Stato esportatore è a conoscenza, al momento dell’autorizzazione, che tali armi potrebbero essere utilizzate per commettere genocidi, crimini contro l’umanità, gravi violazioni delle Convenzioni di Ginevra, attacchi diretti contro civili o beni di natura civile e dunque protetti come tali, o altri crimini di guerra, come definito dagli accordi internazionali.

Sono già stati avviati contenziosi in Danimarca e nei Paesi Bassi. Oxfam Danimarca, Amnesty International Danimarca, Mellemfolkeligt Samvirke (ActionAid Denmark) e l’organizzazione palestinese per i diritti umani Al-Haq hanno intentato una causa alla polizia nazionale danese e al ministero degli affari esteri, per fermare le esportazioni di armi verso Israele. A febbraio, la Corte olandese ha ordinato l’interruzione della fornitura di parti di caccia F35 a Israele.

A febbraio, il Belgio ha annunciato la sospensione temporanea di due licenze di esportazione di polvere da sparo verso Israele.

In Italia, è stata solo sospesa la concessione di nuove autorizzazioni all’esportazione di armamenti. Non sono stati invece adottati provvedimenti di sospensione o revoca delle esportazioni, verso Israele, autorizzate prima dello scorso ottobre.

Spagna e Canada hanno temporaneamente e parzialmente sospeso i trasferimenti di armi verso lo stato israeliano.

Di fronte al rischio plausibile di genocidio a Gaza, denunciato dalla Corte Internazionale di Giustizia, tutti gli Stati parti della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio (1948) hanno l’obbligo di impedire e di astenersi dal contribuire alla realizzazione di atti di genocidio.

All’inizio del mese, il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha approvato una risoluzione (A/HRC/55/L.30) per cessare la vendita, il trasferimento e il dirottamento di armi, munizioni e altro equipaggiamento militare verso Israele.

Standard

Rwanda 1994 e Gaza 2024. Il seme del razzismo germoglia e cresce ancora

Speciale per Africa ExPress
-Federica Iezzi-

Durante il secolo scorso, il flagello dei genocidi è tornato come un’epidemia. Lo sterminio dimenticato dei Moriori, delle Isole Chatham, in Nuova Zelanda, ricorda che decine di popoli, nel corso della storia, sono stati metodicamente cancellati dalle carte geografiche.

Si comincia con l’Impero Ottomano che giustiziò 1.200.000 armeni, secondo un piano ideato dalle autorità ed eseguito da migliaia di carnefici civili e militari. Questa natura sistematica lo rende un genocidio indiscutibile. Nel 1975, a Timor Est, 200.000 abitanti furono massacrati dalle forze armate indonesiane.

Nello stesso anno e fino al gennaio 1979, il regime dei Khmer rossi in Cambogia, in nome del fuoco del razzismo sociale, uccise circa due milioni di persone. Poi le orribili pulizie etniche nei Balcani. E il secolo si conclude con un crepuscolo sanguinoso, con la “stagione dei machete”, nel 1994, in Rwanda. Quasi un milione di persone uccise. Uccise mentre le grandi potenze guardavano altrove.

Si potrebbe per un momento pensare che con l’evoluzione della morale e il progresso del diritto, con l’essenza dell’habeas corpus, con la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, con le Convenzioni di Ginevra e i Protocolli Aggiuntivi, le pratiche di sterminio sarebbero cessate. E no. Non è successo.

E a Gaza oggi ritorna l’onda sterminatrice. Il conflitto tra Israele e Palestina è iniziato con una terribile ingiustizia, commessa in Palestina, per ripararne un’altra, nata nell’orrore dei campi nazisti.

Sono passati 30 anni dal genocidio in Rwanda. Il percorso di onde e frequenze di Radio Télévision Libre des Mille Collines è ancora vivo nella carne dei sopravvissuti. Come si disegna un genocidio? La radio ha avuto un potere unico, incomparabile e terrificante, perché è stata capace di penetrare, senza alcun controllo, nell’intimità profonda degli individui. 1000 colline, come la chiamavano, era una emittente “trendy”, che aveva fatto della sua libertà di tono con espressioni insidiose, un marchio di fabbrica, da diffondere.

Il linguaggio disumanizzante che fuoriesce da Israele e da alcuni dei suoi sostenitori esteri, non è nuovo. Già sentito in altri tempi e in altri luoghi, ha contribuito a creare un clima in cui hanno avuto vita crimini terribili.

Coloro che hanno guidato e portato avanti il genocidio rwandese, definivano l’omicidio come un atto di autodifesa – se non lo facciamo noi a loro, lo faranno loro a noi.
I tutsi furono degradati a “scarafaggi”. Leader politici, militari e religiosi israeliani hanno in tempi diversi descritto i palestinesi come un “cancro”, come “parassiti”, e hanno chiesto che fossero “annientati”. Generazioni di studenti israeliani sono stati imbevuti dell’idea che gli arabi siano degli intrusi e siano semplicemente tollerati grazie alla beneficenza di Israele.

In Rwanda non c’è stata alcuna mobilitazione per fermare e prevenire ciò che stava accadendo. Ci si è illusi che fosse stata lasciata l’opportunità di imparare dalle atrocità viste. Non è necessaria una laurea in Letterature e Culture Comparate per interpretare segnali e dichiarazioni, nei discorsi mediatici e politici in Israele, che richiamano un uso esplicito della retorica genocida.

Trent’anni dopo, Emmanuel Macron rompe un tabù riconoscendo che la Francia non ha fatto nulla per impedire il genocidio in Rwanda. François Mitterrand, ex presidente francese, all’epoca ha sostenuto consapevolmente il genocidio contro tutsi e hutu moderati e ha offerto rifugio sicuro agli esecutori. La spada di damocle del genocidio rwandese, sospesa sopra le teste dei banyarwanda nella Repubblica Democratica del Congo, sotto forma di minaccia, oggi è reale.

Quale lezione ha lasciato la storia? Dal processo di Norimberga del 1945 l’opinione pubblica reclama la punizione dei colpevoli. Ecco non sfuggire alla giustizia.

Standard

‘Dov’è papà’ – un software di intelligenza artificiale con cui Israele ha sterminato intere famiglie

Speciale per Africa ExPress
-Federica Iezzi-

Secondo le dichiarazioni di sei ufficiali dell’intelligence israeliana, raccolte in un’esplosiva inchiesta dei canali di informazione di Tel Aviv +972 Magazine e Local Call (Sikha Mekomit, in ebraico), pubblicati da Just Vision, l’esercito israeliano sta utilizzando un programma avanzato di intelligenza artificiale, per guidare gli spietati bombardamenti sulla Striscia di Gaza. Si chiama Lavender.

Arrivata l’immediata smentita da parte del portavoce militare israeliano, tenente colonnello riservista Peter Lerner, scandendo che le Forze di Difesa Israeliane non hanno designato target umani con un algoritmo di intelligenza artificiale, che viene invece impiegata solo come strumento ausiliario.

‘Dov’è papà’ è uno dei software di Lavender, sviluppato dall’oscura Unità 8200 – unità militare, delle forze armate israeliane, incaricata dello spionaggio di segnali elettromagnetici ed elettronici e decrittazione di informazioni e codici cifrati.

‘Dov’è papà’ ha risolto il collo di bottiglia umano sia per l’individuazione di nuovi obiettivi, sia per il processo decisionale militare che porta a approvazione e successivo abbattimento. La crudeltà del nome spiega esattamente cosa le Forze di Difesa Israeliane intendano per ‘obiettivi’.

Formalmente, il sistema Lavender è stato progettato per contrassegnare tutti i sospetti elementi dell’ala militare di Hamas e della Jihad Islamica Palestinese – compresi quelli di basso rango – come potenziali obiettivi di bombardamento. L’esercito israeliano si è affidato quasi completamente a Lavender, che ha individuato fino a 37.000 palestinesi come sospetti militanti. E con essi le loro case. E le loro famiglie.

E’ noto che spesso il sistema contrassegna individui che hanno semplicemente un legame debole con gruppi militanti, o nessun legame. Quanto vicina deve essere una persona ad Hamas per essere considerata, da un freddo, spietato, sterile algoritmo, affiliata all’organizzazione?

Soprattutto durante le prime fasi della guerra, l’élite dell’esercito israeliano diede ampia approvazione agli ufficiali affinché adottassero le liste di uccisione di Lavender, senza alcun obbligo di esaminare e verificare i dati grezzi di intelligence su cui si basavano.

Venivano dedicati solo 20 secondi a ciascun obiettivo prima di puntare il mirino e autorizzare un bombardamento. Per l’uccisione di ogni militante di basso rango era consentito considerare come danno collaterale l’uccisione di 15-20 civili. Nel caso in cui l’obiettivo fosse un alto funzionario di Hamas, con il grado di comandante di battaglione o di brigata, ecco che veniva autorizzata l’uccisione di più di 100 civili. In questo orrore, si rientrava nella definizione di ‘danni collaterali’.

E’ altrettanto noto che l’esercito israeliano ha preso di mira sistematicamente i presunti militanti mentre si trovavano nelle proprie case – con le proprie famiglie – piuttosto che nel corso di un’attività militare. Agghiacciante è scoprire che spesso l’obiettivo individuale, il soldato del gradino più basso della gerarchia militare, non si trovava nemmeno all’interno della casa colpita, visto che gli ufficiali militari israeliani non verificavano l’informazione in tempo reale. Nel frattempo però lo sterminio della famiglia era compiuto. L’abbattimento dell’edificio, solo per causare distruzione, era compiuto.

E proprio ‘Dov’è papà’ localizza il presunto militante al rientro a casa dalla sua famiglia, dai suoi figli. Alla distruzione poi ci pensa l’assetto degli armamenti ricevuti da Israele dall’Occidente. In testa Stati Uniti, a seguire Germania e Italia, secondo i dati più recenti pubblicati dallo Stockholm International Peace Research Institute.

Cosa ci si attende da un attacco simile? Ci si attende che provochi morti e feriti fra la popolazione civile, danni ai beni di carattere civile che risultano eccessivi rispetto al vantaggio militare concreto.

Per chiudere il cerchio, si aggiunge l’utilizzo di missili non guidati, invece di bombe di precisione assistite da GPS, capaci di massacrare interi edifici senza alcuna distinzione, né proporzionalità. Ecco, siamo di fronte all’intenzionale derisione del Diritto Internazionale Umanitario.

Le Forze di Difesa Israeliane non sono affatto interessate a demolire l’ala militare di Hamas all’interno di strutture militari o mentre impegnata in un’attività militare. Al contrario, sono interessate a sterminare, senza esitazione, l’intera famiglia di ciascun membro, come prima opzione. Nessun codice morale di condotta. L’intelligenza artificiale di Lavender è stata la scappatoia giusta.

Standard

La CIA avvisa gli alleati “Entro 48 ore l’Iran attaccherà Israele”

Speciale per Africa ExPress
-Federica Iezzi-

Diventa di giorno in giorno più reale e preoccupante l’estensione di una guerra nella regione mediorientale. Israele appare impegnato con l’Iran in uno scontro ormai aperto, in una guerra all’interno della Striscia di Gaza e in un’escalation significativa in Libano.

Il recente attacco lanciato da un F-35 israeliano sull’ambasciata iraniana a Damasco ha spalancato il capitolo.

Il bombardamento ha provocato la morte di sette membri del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica (IRGC – Islamic Revolutionary Guard Corps), tra cui il comandante della forza Quds d’élite – unità specializzata nell’intelligence militare all’estero – in Siria e Libano, il generale di brigata Mohammad Reza Zahedi, e il suo secondo uomo, il generale Mohammed Hadi Haj Rahimi, basilari figure di collegamento tra Iran e miliziani di Hezbollah.

Non tarda ad arrivare la risposta iraniana, per voce dell’intelligence americana. La CIA ha diffuso agli alleati occidentali e a Israele un avviso molto chiara: entro 48 ore l’Iran potrebbe lanciare un’operazione militare contro Israele.

Intanto, già a inizio settimana, l’esercito di occupazione israeliano ha annunciato la mobilitazione di riservisti per rafforzare le formazioni di difesa aerea, a causa dell’accresciuto stato di allerta e come parte di una strategia di maggiore prontezza di risposta ad eventuali attacchi.

“Con l’aiuto di Dio, faremo in modo che i sionisti si pentano del loro crimine di aggressione contro il consolato iraniano a Damasco”, queste le parole, ben scandite in ebraico, indirizzate a Tel Aviv, dell’Imam Sayyid Ali Khamenei, leader supremo dell’Iran.

Quello sull’ambasciata iraniana in Siria, non è il primo attacco israeliano contro l’Iran. A fine dicembre, l’esercito israeliano aveva ucciso il generale dell’IRGC, figura chiave e consigliere esperto, Sayyed Razi Mousavi, nel quartiere di Sayyida Zeinab, a sud di Damasco.

Israele concentra da anni la sua attenzione militare su obiettivi iraniani in Siria e Libano, come parte della sua strategia di “campagna tra le guerre” (MABAM – m’aracha bein ha-milchamot, nell’acronimo ebraico), per deprimere e distruggere le minacce emergenti alla sua sicurezza. L’autodifesa preventiva israeliana ha indotto Teheran a sviluppare una deterrenza offensiva per scoraggiare Gerusalemme dal colpire per prima.

Il portavoce delle Forze di Difesa Israeliane, il contrammiraglio Daniel Hagari, ha giustificato l’attacco sostenendo che l’obiettivo non era un’ambasciata, ma una sede militare delle forze Quds. Una ritorsione sotto forma di un attacco iraniano diretto a Israele è improbabile in quanto potrebbe trascinare gli Stati Uniti in una guerra regionale.

Quali sono dunque le opzioni dell’Iran?

E’ probabile che l’Iran utilizzi le sue forze per procura, insieme agli sforzi diplomatici, per isolare Israele. In questo momento di condanna internazionale per la condotta di Israele sulla Striscia di Gaza, Teheran alimenterà i timori internazionali di una guerra regionale più ampia e isolerà ulteriormente il Paese.

L’asse della resistenza guidato dalla rete di milizie filo-iraniane nella regione può essere attivato. È improbabile che reagiscano con attacchi massicci ma piuttosto con una cascata di risposte.

Per contro, la mancanza di un’azione militare diretta crea il rischio di uno smantellamento dell’asse della resistenza, da parte di Israele, con il sostegno diretto e persino con la partecipazione della prossima amministrazione statunitense. Un simile cambiamento potrebbe avere un serio impatto sulle capacità dell’Iran nella regione.

Standard

Sudafrica. Arresto per i militari con doppia cittadinanza che si uniscono a Israele

Speciale per Africa ExPress
-Federica Iezzi-

Il messaggio del Sudafrica è stato inequivocabile: coloro che hanno la doppia cittadinanza sudafricana-israeliana e che attualmente combattono nelle Forze di Difesa Israeliane, contro la Palestina, saranno perseguiti e arrestati e avranno l’immediata revoca della cittadinanza sudafricana.

A scandirlo a chiare lettere è stata Naledi Pandor, ministro delle relazioni internazionali e della cooperazione in Sudafrica, dal 2019, e membro del Parlamento per l’African National Congress, dal 1994, in uno dei meeting del partito politico a Pretoria [https://www.youtube.com/watch?v=87fyilgnwng].

Continua ad approfondirsi dunque la spaccatura tra le due nazioni, iniziata con il procedimento avviato dal Sudafrica contro lo Stato di Israele, presso la Corte Internazionale di Giustizia, per atti di genocidio contro i palestinesi della Striscia di Gaza, e proseguita con la completa sospensione dei rapporti diplomatici bilaterali.

Già lo scorso dicembre, il ministero degli Esteri sudafricano aveva avvertito i suoi cittadini, residenti permanenti in Israele, che se, senza permesso di Pretoria, si fossero uniti all’esercito israeliano per combattere sulla Striscia di Gaza o nei Territori Palestinesi Occupati, avrebbero potuto essere perseguiti. Lo stretto monitoraggio di questi cittadini, da parte delle autorità sudafricane, si motiva nel fatto che l’arruolamento nelle Forze di Difesa Israeliane può potenzialmente contribuire alla violazione del Diritto Internazionale Umanitario e alla commissione di ulteriori crimini di guerra, rendendoli quindi esplicitamente perseguibili in Sudafrica.

La legge sulla cittadinanza sudafricana (Act 88/1995) prevede che chiunque la abbia ottenuta per naturalizzazione, se dovesse esercitare la propria attività sotto la bandiera di un altro Paese in una guerra che il Sudafrica non sostiene, gli verrà revocata la nazionalità.

E’ evidente che la storia tra Sudafrica e Palestina non inizia lo scorso 7 ottobre. Per anni il governo sudafricano ha paragonato le politiche di Israele, contro i palestinesi a Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, al trattamento riservato ai non-bianchi in Sudafrica, durante l’era dell’apartheid, quando erano in vigore segregazione razziale forzata e oppressione.

Ma a quando risale il legame di Pretoria con il popolo palestinese? Il Sudafrica aveva espresso solidarietà alla Palestina già negli anni ’50 e ’60, così come avevano scelto molte nazioni africane, colonie europee fino all’inizio degli anni ’60. L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina ha collaborato con numerosi movimenti rivoluzionari africani, nel sostegno reciproco alla lotta anticoloniale.

La narrativa palestinese, con repressione, crudeltà, brutalità della polizia israeliana, restrizioni ai movimenti, arresti, detenzioni arbitrarie, coloni illegali, evoca esperienze della storia di discriminazione e oppressione del Sudafrica.

Il regime di apartheid in Sudafrica, guidato dal Partito Nazionale, aveva uno stretto rapporto con Tel Aviv. Negli anni ’70, il governo israeliano, guidato dal primo ministro Yitzhak Rabin, strinse forti legami con il regime nazionalista di estrema destra sudafricano. L’allora ministro della difesa israeliano, Shimon Peres, ha avuto un ruolo determinante nella creazione di un’alleanza che ha contribuito a mantenere a galla l’apartheid.

Vale fortemente la pena ricordare che alla lotta del Sudafrica contro l’apartheid, hanno attivamente partecipato migliaia di ebrei, sopravvissuti all’olocausto o discendenti delle vittime dell’olocausto.

La voce di Cyril Ramaphosa, presidente sudafricano, sigilla in Parlamento il sostegno alla lotta del popolo palestinese “Non è semplicemente un prodotto della storia. È un rifiuto di accettare che a un popolo venga continuamente negato il diritto all’autodeterminazione, in violazione del diritto internazionale”.

E il popolo sudafricano risponde attivamente con decine di movimenti internazionali per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni, che mirano ad aumentare la pressione economica e politica su Israele, con l’obiettivo di porre fine all’occupazione della Palestina.

Standard

Miti da sfatare. Israele è veramente una democrazia, l’unica del Medio Oriente?

Speciale per Africa ExPress
-Federica Iezzi-

Il sistema politico e sociale di Israele è davvero quello di una democrazia? Sulla base di un concetto minimalista di democrazia, che si limita a pochi criteri fondamentali come la libertà di espressione e il diritto di voto, Israele è una democrazia entro i confini del 1949.

Infatti il Paese non è cambiato molto da allora. Né nella definizione di sé, né nel modo in cui tratta i palestinesi. Non comprendere questo equivale ad approvare tacitamente le politiche violente e coloniali nella Palestina occupata, negli ultimi 75 anni. Se dobbiamo credere che oggi la “democrazia” esclusivista di Israele sia in qualche modo una democrazia, allora siamo giustificati anche nel credere che il governo Netanyahu non sia né meno né più democratico dei precedenti governi dello Stato.
Alle nostre latitudini non è difficile sentir definire Israele come “l’unica democrazia del Medio Oriente”. Eppure l’opinione pubblica lo descrive, sempre più spesso e a gran voce, come una “democrazia imperfetta” o come “uno Stato con segregazione simile all’apartheid”.

In un rapido excursus storico, prima del 1967, Israele sicuramente non avrebbe potuto essere definito come una democrazia. Lo Stato sottoponeva un quinto della sua cittadinanza a un governo militare basato sulle rigorose norme del mandato britannico, che negavano ai palestinesi qualsiasi diritto umano o civile. Solo alla fine degli anni Cinquanta emerse una forte opposizione ebraica agli abusi obiettivi, allentando in parte la pressione sui cittadini palestinesi.

I governatori militari israeliani, nella Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, possono ancora oggi elaborare leggi speciali, distruggere case e mezzi di sostentamento, recludere in prigione senza processo.

La prova decisiva di ogni democrazia è il livello di tolleranza che è disposta ad estendere verso le minoranze che la abitano. Appare dunque evidente come la sottomissione delle minoranze in Israele non è democratica.

Israele assicura una posizione di superiorità alla maggioranza ebraica, ad esempio attraverso le leggi sulla cittadinanza, le leggi sulla proprietà fondiaria e la legge sul ritorno.

Quest’ultima garantisce automaticamente la cittadinanza a ogni ebreo nel mondo, ovunque sia nato. Pratica palesemente antidemocratica, visto che la legge è stata accompagnata al totale rifiuto del diritto al ritorno dei palestinesi, al contrario riconosciuto a livello internazionale dalla risoluzione 194 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1948.

La pretesa di essere una democrazia è discutibile anche quando si esamina la politica di bilancio, relativa alla questione fondiaria. Dal 1948 i comuni palestinesi hanno ricevuto finanziamenti molto inferiori rispetto ai loro omologhi israeliani.

Oggi più del 90 per cento della terra è di proprietà del Fondo Nazionale Ebraico. Ai proprietari terrieri non è consentito effettuare transazioni con cittadini non israeliani, e il terreno pubblico ha la priorità d’uso in progetti nazionali, il che significa aprire le porte alle illecite espropriazioni palestinesi e ai continui insediamenti israeliani, con un conseguente vero e proprio cambiamento demografico. La Corte Suprema israeliana è riuscita a mettere in discussione la legalità di questa politica solo in alcuni casi individuali, ma non come linea di principio.

I politici israeliani sono determinati a mantenere in vita l’occupazione militare finché lo Stato rimane intatto. Fa parte di ciò che il sistema politico israeliano considera lo status quo.

L’occupazione non è democrazia. Quando si guarda al dibattito tra i partiti di destra e di sinistra in Israele su questo tema, i loro disaccordi riguardano come raggiungere questo obiettivo, non sulla sua validità.

Ma quali sono stati i metodi adottati dal governo israeliano per gestire i territori occupati? Inizialmente l’area era divisa in spazi arabi e spazi ebraici. Le aree densamente popolate da palestinesi vennero definite “autonome”, di fatto sono rimaste sotto il controllo del governo militare israeliano. Gli spazi ebraici invece furono colonizzati con insediamenti e basi militari. Questa politica aveva il chiaro scopo di lasciare la popolazione palestinese, sia in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, sia nella Striscia di Gaza, in enclavi sconnesse, senza alcuna possibilità di espansione urbana.

Le élite politiche occidentali continuano a trattare Israele come un membro del club esclusivo degli stati democratici. I palestinesi e i loro alleati arabi sono stati in gran parte coerenti nel riconoscere l’estremismo nei successivi governi israeliani, ma quale scusa ha la Comunità Internazionale per non riconoscere che l’ultimo governo guidato da Netanyahu è il più grande Stato di occupazione?

Standard

Gli Stati Uniti bloccano all’ONU ancora una volta la mozione in aiuto della Palestina

Speciale per Africa ExPress
-Federica Iezzi-

Su richiesta dell’Algeria, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha discusso la recente ordinanza della Corte Internazionale di Giustizia, che obbliga Israele a prendere tutte le misure necessarie per evitare atti di genocidio a Gaza.

Secondo la sentenza provvisoria, inoltre, Israele deve adottare misure per prevenire e punire l’incitamento al genocidio, consentire immediatamente aiuti umanitari nella Striscia di Gaza e riferire entro un mese sulle sue azioni.

L’Algeria, membro non permanente del Consiglio di Sicurezza, attraverso il suo ambasciatore Amar Bendjama, ha condiviso la bozza di risoluzione con i 15 membri del Consiglio, chiedendo un cessate il fuoco immediato. Richiede inoltre l’attuazione delle due precedenti risoluzioni 2712 (2023) e 2720 (2023), per consentire un accesso umanitario immediato e sicuro, e per creare le condizioni per una cessazione sostenibile delle ostilità.

Nel Consiglio di Sicurezza, per essere adottata, una risoluzione necessita di almeno nove voti a favore e nessun veto da parte di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Cina o Russia, membri permanenti dell’organismo.

Senza farsi attendere, è arrivata presto l’opposizione degli Stati Uniti. Linda Thomas-Greenfield, rappresentante permanente degli Stati Uniti presso le Nazioni Unite, ha giustificato l’atteggiamento del suo Paese affermando che il progetto algerino potrebbe compromettere i negoziati in corso, mediati dal Qatar e proposti da Stati Uniti, Israele ed Egitto, e interrompere gli sforzi diplomatici in corso per garantire il rilascio degli ostaggi.

Succede ancora una volta, dunque. Lo scorso dicembre, il Consiglio di Sicurezza ha approvato una risoluzione volta ad aumentare gli aiuti umanitari sulla Striscia di Gaza. Però nessun cessate il fuoco, a causa del veto da parte degli Stati Uniti. Solo “pause umanitarie nei combattimenti”, per proteggere i civili e liberare gli ostaggi.

Linda Thomas-Greenfield inverte così i ruoli e cerca di impedire qualsiasi decisione che costringa l’entità israeliana a fermare i suoi crimini contro la popolazione palestinese di Gaza e della Cisgiordania, sostenendo che qualsiasi misura sfavorevole a Israele costituirebbe una minaccia ad un presunto progetto di tregua che sarebbe in discussione.

L’ultima ordinanza della Corte Internazionale di Giustizia è stata oggetto di interpretazioni divergenti. All’inizio del procedimento, l’Algeria, seguendo il filo sudafricano, ha appoggiato le misure provvisorie imposte a Israele, le cui azioni costituiscono potenzialmente un genocidio.

Secondo la Cina, le misure provvisorie della Corte rappresentano un appello alla protezione della popolazione civile, mentre Mozambico e Guyana ritengono che la sentenza spinga per una pausa umanitaria immediata e duratura. Gli Stati Uniti hanno ritenuto che, nelle sue conclusioni preliminari, la Corte non avesse raccomandato un cessate il fuoco immediato, né affermato che Israele avrebbe potuto violare la Convenzione sul Genocidio. Israele ha invece denunciato un “processo politicizzato”.

Standard

Chi è la giudice ugandese Julia Sebutinde, l’unica pro Israele alla Corte di Giustizia

Speciale per Africa ExPress
-Federica Iezzi-

All’Aja i riflettori rimangono ancora puntati sulla controversa posizione della giudice ugandese Julia Sebutinde. Ha espresso il suo voto dissenziente contro le sei misure provvisorie, proposte dalla Corte Internazionale di Giustizia, contro Israele per “prevenire possibili atti genocidari” nella Striscia di Gaza.

Nella tempesta legale in corso, la mossa di Sebutinde, in evidente e non giustificabile antitesi ad un collegio di 17 giudici, ha subito suscitato indignazione, polemiche e provocato una rapida dissociazione da parte del suo Paese d’origine, l’Uganda.

Lo scorso dicembre, il Sudafrica ha avviato un procedimento contro lo Stato di Israele presso il più alto organo giudiziario delle Nazioni Unite, per atti di genocidio contro i palestinesi della Striscia di Gaza.

In questo arazzo giudiziario, Sebutinde ha affermato che la disputa israelo-palestinese è una questione politica con radici storiche, non adatta ad una soluzione giudiziaria. Inoltre, a suo avviso, “il Sud Africa non ha dimostrato, nemmeno prima facie, che gli atti presumibilmente commessi da Israele siano stati commessi con il necessario intento genocida e che, di conseguenza, possano rientrare nell’ambito di applicazione della Convenzione sul Genocidio” [https://www.icj-cij.org/node/203449].

Julia Sebutinde, giudice ugandese di formazione britannica, è la prima donna africana a sedere nella Corte Internazionale di Giustizia. La carriera non è stata priva di controversie. E la sua voce, che fa eco al suo precedente dissenso sul caso dell’Uganda riguardante la Repubblica Democratica del Congo e sul caso Charles Taylor, ex presidente liberiano, riguardante i crimini di guerra in Sierra Leone, aggiunge complessità alla narrazione che circonda le azioni di Israele a Gaza.

Il modello di voto unanime di Sebutinde, contro tutte le misure provvisorie, è degno di profonde riflessioni, data la sua specializzazione in crimini di guerra e l’apparente forza della tesi del Sudafrica.

Considerata la gravità delle accuse e le potenziali implicazioni per la giustizia internazionale, crescono le richieste di un’indagine approfondita e trasparente sul voto del giudice Sebutinde.

Nel campo del diritto internazionale e della giustizia, l’integrità e l’imparzialità dei giudici sono intoccabili. La Corte Internazionale di Giustizia, in quanto organo critico delle Nazioni Unite, sostiene i principi di un giudizio legittimo e imparziale. Pertanto, qualsiasi accusa o percezione di parzialità, coercizione o corruzione deve essere affrontata con la massima serietà, per preservare la credibilità della Corte stessa e la fiducia della comunità internazionale in questa istituzione.

Sebbene sia essenziale rispettare l’indipendenza della magistratura e l’integrità personale e professionale del giudice Sebutinde, queste circostanze insolite meritano un esame più attento.

Con l’ultima sentenza, la Corte ha tuonato che non è implausibile che le operazioni militari di Israele sulla Striscia di Gaza e il suo assedio violino la Convenzione sul Genocidio (UN, 1948). Né la Corte ha ritenuto inverosimile che le dichiarazioni pubbliche di politici israeliani costituiscano un incitamento al genocidio. Questo rappresenta una disapprovazione significativa nei confronti di un Paese definito democratico e nei confronti della Comunità Internazionale che sostiene che il rispetto del diritto internazionale da parte di Israele, può essere dato per scontato perché è una democrazia.

Standard

GAZA. Dopo le bombe il Wafa Hospital si ricostruisce

Nena News Agency – 03/08/2016

A due anni dall’operazione Margine Protettivo, nel quale fu distrutto dai raid israeliani, l’ospedale di Shujaiyyah prova a tornare alla normalità. Intervista al direttore sanitario, dottor Alashi

°Nuova sede el-Wafa a al-Zahara

Al-Zahara (Gaza City) – Nuova sede dell’el-Wafa Rehabilitation Hospital

di Federica Iezzi

Gaza City (Striscia di Gaza), 03 agosto 2016, Nena News – Unico ospedale riabilitativo nella Striscia di Gaza, l’el-Wafa Rehabilitation Hospital ha accolto senza sosta anziani, lungodegenti, malati, pazienti con gravi disabilità mentali e neurologiche, paraplegici e paralitici, per più di vent’anni, nel quartiere di Shujaiyya‬, a est di Gaza City.

Colpito duramente in passato da un’ostinata serie di pesanti attacchi aerei e di terra, durante le operazioni militari israeliane Piombo Fuso (2008-2009), Pilastro di Difesa (2012) e Margine Protettivo (2014), l’el-Wafa soffre ancora una grossa carenza di materiale medico e chirurgico. L’assedio nella Striscia di Gaza non permette l’ingresso di farmaci per terapie croniche, gas medicali, strumentazione sanitaria e pezzi di ricambio per equipaggiamenti danneggiati.

Durante l’ultima offensiva israeliana, a seguito di tre diversi attacchi, la struttura sanitaria è stata totalmente rasa al suolo. I raid aerei israeliani sull’ospedale sono stati mirati e precisi. Alle ufficiali e reiterate richieste di spiegazione‬, da parte dell’amministrazione della struttura sanitaria, non sono mai arrivate risposte dalle autorità israeliane.

Ancora oggi, dopo due anni, del decennale lavoro dell’el-Wafa a Shujaiyya non rimangono che vecchi fogli di terapie, coperti dalle macerie. All’ospedale è stata affidata dal Ministero della Sanità palestinese una nuova sede, nell’area di al-Zahara, alla periferia di Gaza City.

Abbiamo incontrato e intervistato il direttore generale dell’el-Wafa hospital, dr Basman Alashi.

°Fig.1 - Dr Basman Alashi nell'el-Wafa hospital

Il dr Basman Alashi nell’el-Wafa Hospital

In che modo le autorità israeliane giustificano gli attacchi e la distruzione completa dell’el-Wafa hospital?

Le autorità israeliane hanno usato due storie diverse per giustificare la totale demolizione della struttura ospedaliera.

Primo, l’esercito israeliano ha coperto l’attacco, pubblicando immagini satellitari dell’aerea del bombardamento e contrassegnando come el-Wafa, un edificio che di fatto era la sede del Right to Life Society. Nelle stesse foto satellitari le autorità israeliane hanno etichettato, senza alcun riscontro, aree adiacenti l’el-Wafa, come siti di partenza di razzi M75, da parte del braccio armato di Hamas.

°Fig.2 - Errore IDF

Il target erroneo dell’aviazione militare israeliana

Secondo, un video distribuito dall’esercito ha cercato di raccontare i bombardamenti, ma le riprese comprendevano immagini di un attacco simile all’el-Wafa, avvenuto nel 2008-2009, durante l’operazione militare israeliana sulla Striscia di Gaza ‘Piombo Fuso’.

°Fig.4 Bombardamenti dell'IDF.jpg

Bombardamenti dell’IDF sull’el-Wafa Hospital

Il 17 luglio 2014 durante la notte, l’esercito israeliano ha costretto il personale ospedaliero e i pazienti ad evacuare l’ospedale mentre era sotto attacco. Abbiamo evacuato e bloccato l’intero ospedale per proteggere gli edifici e le attrezzature. Da quel momento l’ospedale è rimasto sotto la completa sorveglianza e il totale controllo dell’esercito israeliano. La sicurezza e la salvaguardia di di edifici e materiale erano nelle loro mani. Nonostante le affermazioni fuorvianti e le infondate accuse della presenza di militanti palestinesi in aree adiacenti, l’esercito israeliano ha continuato a colpire l’ospedale e, infine, ha raso al suolo tutti e quattro gli edifici il 23 luglio 2014.

L’el-Wafa hospital, nel quartiere di Shujaiyya, era in una posizione strategica. A soli pochi chilometri dalla linea di confine tra Striscia di Gaza e Territori Palestinesi Occupati. E’ facile pensare che l’eliminazione fisica della costruzione avrebbe potuto aprire, nel corso dell’operazione Margine Protettivo, una via di passaggio delle truppe israeliane di terra. Qual è la sua opinione?

Credo che sia stato l’obiettivo principale dell’esercito. Hanno progettato meticolosamente l’attacco per impedire qualsiasi protesta da parte dei media. Hanno messo in piedi le storie del lancio dei razzi e dei colpi di arma da fuoco a partire dall’edificio ospedaliero, che hanno trasformato senza scrupolo in un centro di commando di Hamas. Sapevano bene che sarebbe stato difficile giustificare la distruzione di un ospedale noto, funzionante, con ottimi risultati clinici, esistente dal 1990.

Tutte false le giustificazioni e le ragioni raccontate, ma i media internazionali hanno rivolto lo sguardo altrove e hanno regalato a Israele per l’ennesima volta la licenza di uccidere. Il mondo dei media ha dato così il lasciapassare all’esercito israeliano: bombardare ospedali, uccidere civili innocenti e spezzare la vita di bambini nei Territori Palestinesi è consentito. E’ stato dato loro immunità e impunità.

Il periodo subito dopo il primo attacco aereo è stato un momento molto difficile: la paura e la preoccupazione dei pazienti, l’incerta evacuazione dell’ospedale. Quali sono i suoi ricordi di quei giorni?

Sono rimasto assolutamente scioccato durante il primo attacco, l’11 luglio 2014, alle 02:00 della notte. In quelle ore, abbiamo parlato con molte organizzazioni internazionali. Tutti ci hanno assicurato che il bombardamento dell’ospedale era stato un errore e non si sarebbe verificato di nuovo.

Durante la guerra, ho continuato a visitare e curare pazienti e fragili anziani. Ogni giorno e ogni notte ero profondamente preoccupato per la loro incolumità, così abbiamo deciso di spostare tutto il nostro lavoro sul primo piano dell’ospedale, per proteggere sia i pazienti sia il personale sanitario dai bombardamenti israeliani delle aree circostanti.

Non riuscivo né a capire né a credere come “l’esercito più morale del mondo” avesse potuto indirizzare bombe, granate, missili e razzi su malati, anziani e indifesi. Non riuscivo proprio a capire come una situazione del genere potesse ancora verificarsi lecitamente nel 2014.

Qual è stato il ruolo della Croce Rossa e Mezzaluna Rossa durante il delicato intervento di evacuazione dei pazienti?

Abbiamo avuto continui contatti con la Croce Rossa durante il bombardamento dell’ospedale, contatti in cui è stato ribadito l’errore da parte dell’esercito israeliano di considerare come obiettivo militare l’el-Wafa. Tuttavia, gli attacchi aerei sull’ospedale non si sono fermati. Durante la giornata designata di evacuazione forzata, ho ricevuto chiamate da parte dello staff della Croce Rossa sul mio telefono personale. Queste le parole al telefono di Gail Corbett, delegata della Croce Rossa (nda infermiera inserita nei programmi di supporto della Croce Rossa neozelandese, nella Striscia di Gaza e nei Territori Palestinesi Occupati): “Mr. Alashi, ho un messaggio per lei da parte dell’esercito israeliano. Quanto tempo è necessario per l’evacuazione completa dell’ospedale?”. La mia risposta ferma è stata che avevo bisogno di almeno due ore.

Dopo alcuni minuti, ho ricevuto una seconda chiamata con un secondo messaggio, sempre dalla stessa persona. Ha detto: “La massima autorità dell’esercito israeliano ha dato l’ordine di non sparare sull’el-Wafa, ma l’ordine non ha raggiunto in tempo il livello più basso dell’esercito”. Le ho chiesto “State aiutando Israele?”. Stavano ancora bombardando l’ospedale mentre parlavamo al telefono.

Il giorno successivo, abbiamo chiesto alla Croce Rossa di darci il permesso di portare via dall’ospedale alcuni farmaci e alcune attrezzature innovative e costose. La dura risposta è stata che non potevano aiutarci ad ottenere il permesso dall’esercito israeliano. La MezzaLuna Rossa gazawi è stata disponibile nella fornitura di farmaci di emergenza durante l’offensiva. Hanno contattato diverse organizzazioni internazionali e hanno contribuito alla campagna di sensibilizzazione con l’obiettivo di porre fine agli attacchi contro strutture sanitarie. Il loro sostegno comunque è stato limitato al funzionamento di quello che era rimasto dell’ospedale.

La sede temporanea dell’ospedale è attualmente nella zona di al-Zahara, nella periferia di Gaza City. Molti strumenti, attrezzature mediche e materiali sono stati persi. Cos’è cambiato nella vita dei vostri pazienti?

Durante i primi 12 mesi dalla distruzione dell’el-Wafa, tutto il nostro personale ospedaliero ha continuato il proprio lavoro con grande esperienza e profonda conoscenza delle sfide da combattere nel post-trauma. Uno dei miei operatori sanitari mi ha detto “Ci sentiamo come negli anni ’30. Possiamo usare solo le mani per trattare il post-trauma. Senza attrezzature mediche per la diagnosi e senza medicina per ridurre il dolore”. Oggi, con l’aiuto di organizzazioni donatrici, siamo stati in grado di riportare nell’ospedale molta dell’attrezzatura perduta.

Ci può dare una descrizione dello stato d’animo dei pazienti in quelle ore? C’è una storia speciale di un paziente che vuole condividere con noi?

La storia di una paziente potrebbe descrivere tutto. E’ quella di Ayah Abadan, una ragazza di 20 anni, con emiplegia. Ricorda il giorno in cui è stato evacuato l’ospedale: lei è stata portata via su un lenzuolo. Da allora, ogni notte, sente ancora i rumori delle esplosioni, i vetri rotti, le urla e la confusione. Ricorda tutti questi eventi. E il ricordo più terrificante è il vedere quello che accade intorno a te, ma non avere la capacità di muoverti. I suoi piedi avrebbero potuto bruciare nel fuoco dell’esplosione, mentre lei sarebbe rimasta seduta e incapace di allontanarsi. Tutte queste immagini sono oggi ferme e indelebili nella sua memoria.

Ayah guarda l’ospedale distrutto dietro di sé e chiede “E ora come faccio? Come può l’esercito israeliano colpire proprio noi, pazienti e anziani paralizzati?”. L’aggressione israeliana ha creato circostanze molto complesse e difficili da risolvere per pazienti legati ad una terapia cronica, per pazienti legati ad una cura insostituibile, per pazienti la cui sola speranza, non avendo la libertà di muoversi, era legata all’unico ospedale riabilitativo presente nella Striscia di Gaza. Ayah dice che Israele deve essere ritenuto responsabile davanti al Tribunale Penale Internazionale per i crimini commessi contro i palestinesi.

°Fig.5 - La paziente Ayah Abadan all'el-Wafa

La paziente Ayah Abadan all’el-Wafa Hospital

Qual è la situazione dei servizi periferici di fisioterapia? L’ultima guerra ha causato almeno 11.000 feriti e la metà di loro ha bisogno di cure riabilitative particolari. Come riuscite a gestire tutti loro come unico ospedale di riabilitazione nella Striscia di Gaza?

Dal momento in cui Israele ha distrutto l’unico ospedale riabilitativo a Gaza, nessuno era in grado di ottenere e seguire un percorso di fisioterapia e rieducazione medica adeguato. Molti pazienti sono stati costretti a rimanere semplicemente a casa. In più, alcune delle loro case erano invivibili a causa di estesi danneggiamenti, elemento che ha sicuramente determinato un peggioramento della prognosi. Subito dopo la guerra, abbiamo iniziato un intenso programma di riabilitazione medica a Rafah e Khan Younis e seguito oltre 11.000 pazienti a domicilio. A Gaza City, ci siamo trasferiti nella nostra posizione temporanea a al-Zahra, continuando a ricevere pazienti.

E per il futuro dell’el-Wafa? La vostra idea è quella di tornare a Gaza City. I fondi e le donazioni saranno sufficienti per ricostruire un nuovo ospedale con tutti i servizi medici?

Abbiamo deciso di non ricostruire l’ospedale nella stessa posizione a Gaza City, cioè vicino al confine con Israele o nella zona di Shujaiyya.
Molte organizzazioni internazionali ci stanno aiutando nei lenti processi di ricostruzione dell’ospedale. Abbiamo ricevuto un terreno di 4.000 metri quadrati nel centro di Gaza come sede del nuovo ospedale. L’Islamic Bank di Jeddah ha stanziato 1,4 milioni di dollari per la prima fase della ricostruzione e ha promesso di aggiungere più fondi alla seconda fase. Anche i medici europei hanno promesso finanziamenti per apparecchiature medicali da destinare al nostro nuovo ospedale.

Il futuro è pieno di speranza finché ci saranno persone come lei che permettono al mondo di conoscere, passando attraverso disagi e sopraffazioni. La distruzione dell’ospedale non sarà dimenticata e la giustizia alla fine avrà la sua vittoria. Nena News

Nena News Agency “GAZA. Dopo le bombe il Wafa Hospital si ricostruisce” di Federica Iezzi

Standard

Il dramma dei malati gravi, uscire da Gaza è un inferno

Nena News Agency – 02/o6/2016

Le procedure per lasciare la Striscia per motivi di salute,  passando per il valico di Erez con Israele, sono lunghe e complesse, possono bloccarsi in qualsiasi momento, quasi sempre per “ragioni di sicurezza”. E altrettanto difficili sono sull’altro valico, Rafah, verso l’Egitto, ormai chiuso per gran parte dell’anno 

fb2c5b9e6723443e8fd527d1d27c489e_18

di Federica Iezzi

Khan Younis (Striscia di Gaza), 2 giugno 2016, Nena News  – Nel solo mese di marzo, le richieste di permessi alle autorità israeliane di uscita dalla Striscia di Gaza, attraverso il valico di Erez, per cure mediche sono state 2.205. Di queste ne sono state approvate solo il 69%. Rifiutata l’uscita a 121 pazienti tra cui 5 bambini. Nessuna risposta per 564 pazienti. Quasi impossibile ottenere permessi di uscita nell’età compresa tra 16 e 55 anni.

Il maggior numero di richieste è quello per cure oncologiche, seguono pediatria, ortopedia, cardiologia, ematologia, oftalmologia, neurochirurgia, medicina nucleare, urologia e chirurgia generale.

In Cisgiordania, Israele e Giordania. E’ qui che vengono curati i pazienti di Gaza. I principali ospedali che accolgono i malati della Striscia sono il Makassed hospital, l’Augusta Victoria hospital, il St John Eye hospital e l’Hadassah Ein Karem hospital di Gerusalemme Est, la Najah university-hospital di Nablus, il Tel-Hashomir di Ramat Gan in Israele e l’al-Ahli hospital di Hebron.

E’ lunga la trafila che un paziente palestinese deve seguire per uscire da Gaza. Intanto deve avere una garanzia finanziaria valido del Ministero della Salute palestinese e un appuntamento già fissato con l’ospedale ospitante. Già se la validità di questi due documenti scade prima che il paziente riceva il permesso, tutto il processo ricomincia mestamente da capo.

Dopo visita medica da parte di specialisti di Gaza o certificazione da parte del direttore generale di un ospedale gazawi, ciascuna pratica deve essere approvata da una commissione medica del Service Purchasing Department del Ministero della Salute palestinese, sia sulla Striscia di Gaza sia a Ramallah. I criteri maggiori per l’approvazione sono l’assenza di un particolare servizio sanitario nel territorio di Gaza e l’evidenza della copertura dell’assicurazione medica.

Dunque la richiesta di permesso corredata da documenti di identità del paziente e della famiglia, visita medica e certificazione completa per la copertura dei costi deve essere presentata all’Israeli District Liaison Office almeno 7-10 giorni prima della data del ricevimento nell’ospedale ospitante, pena l’esclusione.

Parallelamente inizia l’arduo cammino per la richiesta del visto di entrata in Israele, per cure mediche. La pratica dura almeno tre settimane.

Stessa trafila tocca agli accompagnatori: che sia una mamma per la sua bambina o una moglie per il marito o un figlio per il genitore malato. I permessi adesso sono stati ristretti solo ai parenti di primo grado con età superiore a 55 anni. Tutto sotto la condizione dei controlli di sicurezza.

E allora chi copre i costi delle cure per i pazienti palestinesi che riescono ad uscire dalla Striscia? Per il 94% è il Ministero della Salute di Ramallah con circa dieci milioni di shekel (due milioni e mezzo di dollari) al mese. Seguono le organizzazioni non-governative Nour al-Alam, Peres Centre for Peace, Physician for Human Rights, Military Medical Services. Solo il 2% riesce a coprire autonomamente tutte le spese.

I costi per la cura dei palestinesi fuori dal territorio della Striscia raggiungono il 30% dell’intero budget per la sanità. Sicuramente sono una significativa fonte di entrate per gli ospedali cisgiordani e israeliani.

Nei Paesi arabi, il tempo medio di permanenza in ospedale di un paziente palestinese è di circa tre settimane, per periodi di cura più lunghi è necessario ottenere un ulteriore permesso.

Ultimo scoglio per chi ha un nome ‘vicino’ alle famiglie di Hamas, sono le cosiddette interviste di sicurezza da parte dell’Israeli General Security Services. Lo scorso marzo, 82 pazienti sono stati sottoposti ad interviste di sicurezza. Il risultato è stata l’interruzione del processo utile ad ottenere il permesso di entrata in Israele. E ad Erez non mancano nemmeno gli arresti di pazienti palestinesi con regolare permesso di uscita. Naturalmente si parla di detenzioni senza legale processo.

E visto che attualmente i servizi e i sistemi di sicurezza israeliani sono strettamente legati a quelli egiziani, a un palestinese a cui venga negato l’ingresso in Israele, verrà negato anche quello in Egitto. Questo si aggiunge alla ormai quasi completa chiusura del valico di Rafah, al confine tra Striscia di Gaza e Egitto, durante l’intero anno.

Secondo i dati del Medical Referral Directorate di Ramallah, nel 2015, 23.896 pazienti hanno ottenuto i permessi di uscita dalla Striscia di Gaza per cure mediche. E 6.689 dall’inizio di quest’anno. Nena News

Nena News Agency “Il dramma dei malati gravi, uscire da Gaza è un inferno” – di Federica Iezzi

Standard