Macedonia di disperazione

Il Manifesto – 28 agosto 2015

Il racconto. A Gevgelija in attesa del treno che porta verso il nord

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di Federica Iezzi

Gevgelija (Macedonia) – Folle di rifu­giati siriani tra le mon­ta­gne mace­doni di Kouf e Pajak. Campi saturi di piog­gia, notti fredde e umide tra­scorse all’aperto. Niente riparo. Poco cibo e poca acqua. Die­tro il filo spi­nato, entrate razio­nate dalla poli­zia mace­done. Gra­nate e lacri­mo­geni. È il qua­dro alla irri­co­no­sci­bile sta­zione fer­ro­via­ria di Gev­ge­lija, a due chi­lo­me­tri dal con­fine greco-macedone.

Da giu­gno almeno 44.000 migranti, soprat­tutto siriani, sono entrati in Mace­do­nia. I dati dell’Alto com­mis­sa­riato delle Nazioni Unite per i rifu­giati, in que­sta set­ti­mana, hanno con­tato 1.500–2.000 ingressi ogni giorno. Il primo obiet­tivo è salire nel treno che da Gev­ge­lija porta a Sko­pje o Taba­no­v­tse, nel nord della Mace­do­nia. Punto di con­tatto con le città serbe e quindi con l’Ungheria. E poi pro­se­guire per la Black Road attra­verso l’Europa.

Rag­giun­gere l’Ungheria — nono­stante l’accoglienza dall’incalzante con­trollo di 2.100 poli­ziotti, dispie­gati sui 175 chi­lo­me­tri di con­fine con la Ser­bia — signi­fica entrare nei Paesi della zona Schen­gen. Dun­que, viag­giare in tutta l’Unione euro­pea senza essere bloc­cati ai vali­chi di fron­tiera e avere la pos­si­bi­lità di chie­dere asilo poli­tico.
Dichia­rato lo stato di emer­genza, le auto­rità, per giorni, hanno lasciato migliaia di rifu­giati nella pol­ve­rosa no man’s land tra Mace­do­nia e Gre­cia. Non sono immi­grati. Non sono qui per ragioni eco­no­mi­che. Sono rifugiati.

Robar, Amira, 23 anni e incinta del secondo figlio, e il pic­colo Elyas, di soli due anni, hanno cam­mi­nato a piedi da al-Hasakah, nel nord-est della Siria, a al-Derbasya, al con­fine con la Tur­chia. Robar nella sua città, pro­vata dall’assalto durato mesi da parte dello Stato Isla­mico, ha incon­trato il suo «con­tatto». Rasheed, un traf­fi­cante siriano, che ha per­messo loro di attra­ver­sare il con­fine turco-siriano, nell’area di al-Qamishli. Robar dice: «I traf­fi­canti cono­scono le vie. Ogni vil­lag­gio siriano ha la sua via per acce­dere alla Tur­chia. Noi abbiamo cam­mi­nato un chi­lo­me­tro attra­verso una pic­cola strada tra i campi». Con­ti­nua: «Io e mia moglie abbiamo pagato 300 dol­lari a testa solo per pas­sare il con­fine. Elyas non ha pagato nulla».

È invece Nesli­han il traf­fi­cante turco a cui Robar e Amira hanno dato 1.200 euro, per un viag­gio di tre ore in mare dal porto turco di Bodrum all’isola greca di Leros. Amira rac­conta: «Siamo arri­vati ad Atene, in un tra­ghetto insieme ad altri 2.500 migranti», e sospira «Due set­ti­mane da al-Hasakah alla Gre­cia, nasco­sti per ore nei boschi del con­fine turco-siriano, aspet­tando di attra­ver­sarlo di notte, ran­nic­chiati e con­trab­ban­dati in gom­moni e mer­can­tili, implo­rando acqua». Poi il viag­gio è con­ti­nuato a piedi. Dieci giorni, 500 chi­lo­me­tri. Fino a Gev­ge­lija, son­no­lenta cit­ta­della macedone.

Qui nes­sun cen­tro di acco­glienza li attende. Arri­vano da Aleppo, Homs, Kobane, Tar­tus, Hama e Dama­sco. Gli ultimi passi sui binari che por­tano dal vil­lag­gio greco di Ido­meni ai treni di Gev­ge­lija. Pre­sto i rifu­giati incon­trano la poli­zia mace­done. Li obbli­gano ad aspet­tare senza motivo e per un tempo non defi­nito. Dor­mono su sca­tole di car­tone per le strade, men­tre atten­dono l’arrivo dei docu­menti e il per­messo di rima­nere in Mace­do­nia o Ser­bia per 72 ore.

Spesso non esi­ste una mèta. «La mag­gior parte vuole andare in Ger­ma­nia o in Sve­zia» con­fer­mano le auto­rità macedoni.

Samer è arri­vato in treno a Taba­no­v­tse, vicino al con­fine con la Ser­bia. Per tre volte ha cer­cato di attra­ver­sare il con­fine tra Mace­do­nia e Ser­bia e per tre volte è stato respinto dai sol­dati serbi.

Sa del muro che con­ti­nuano a costruire tra Ser­bia e Unghe­ria? «È una rete, si può pas­sare sotto…». Il fra­tello ha attra­ver­sato il con­fine serbo-ungherese, nei pressi di Asot­tha­lom. Lui farà lo stesso.

Da Gev­ge­lija par­tono solo tre treni al giorno per Sko­pje. Il biglietto (che prima costava 6,50 euro) adesso costa 10 euro. Nes­suna restri­zione sul numero di biglietti ven­duti: signi­fica che i colo­rati treni rossi e gialli mace­doni diven­tano vagoni merci. La scena è la stessa per ogni par­tenza. Spin­toni, grida e ammassi di per­sone sulle ban­chine. Tutti i vagoni si riem­piono troppo rapi­da­mente, lasciando a terra donne e bam­bini in lacrime.

Le ban­chine della pic­cola sta­zione fer­ro­via­ria di Gev­ge­lija degli anni ’70, hanno spa­zio suf­fi­ciente per una ven­tina di pas­seg­geri. Fino a poche set­ti­mane fa si aspet­ta­vano i treni aran­cioni che por­ta­vano verso il nord. Ora si lotta per un posto. Esau­sti si dorme ovun­que: basta tro­vare un posto, sotto una stri­scia di luce tre­mo­lante. È il risul­tato della rotta dei Bal­cani occi­den­tali: mare, giorni di cam­mino e con­trolli. Spie­tata quanto la tra­ver­sata in mare dalla Libia.

Ci sono due rotte attra­verso i Bal­cani dalla Tur­chia. Quella dei Bal­cani orien­tali, diretta in Bul­ga­ria, via terra, com­pli­cata dalla recin­zione di reti metal­li­che e filo spi­nato, costruita lungo i 160 chi­lo­me­tri del con­fine turco-bulgaro. E quella dei Bal­cani occi­den­tali, diretta in Unghe­ria, attra­verso Gre­cia o Alba­nia, Mace­do­nia e Serbia.

Coloro che soprav­vi­vono rischiano di essere pic­chiati dai traf­fi­canti o dalla poli­zia locale. O peg­gio, arre­stati e inse­riti nella lista dei richie­denti asilo poli­tico in paesi come l’Ungheria, di fatto negando ogni pos­si­bi­lità di otte­nere asilo invece in Ger­ma­nia, Sve­zia o Regno Unito.

Secondo l’UNHCR, negli ultimi giorni, più di 10 mila per­sone hanno rag­giunto la sta­zione di Pre­sevo, in Ser­bia.
Hisham, pale­sti­nese rifu­giato nel campo di Yar­mouk a sud di Dama­sco, è arri­vato nella città unghe­rese di Sze­ged, ma è rima­sto fermo per giorni in uno dei pic­coli campi dis­se­mi­nati sulla strada prin­ci­pale tra Sko­pje e Bel­grado, prima di rag­giun­gere il cen­tro di regi­stra­zione dei rifu­giati a Pre­sevo in Serbia.

Nella sta­zione di Pre­sevo, gio­vani serbi con­trat­tano con i rifu­giati i prezzi degli auto­bus. Hisham spiega: «Sono 25 euro per Bel­grado, 32 per Subo­tica. I bam­bini pic­coli viag­giano gra­tis. Dopo 400 chi­lo­me­tri fino a Bel­grado, ne riman­gono solo 200 per l’Ungheria».

Il Manifesto, 28/08/2015 “Macedonia di disperazione” di Federica Iezzi

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Se la terra promessa è la Somalia

Il Manifesto – 26 agosto 2015

REPORTAGE

YEMEN. Tra i rifugiati in fuga dal conflitto yemenita, vittime della tratta che dal Golfo di Aden li conduce verso il Corno d’Africa. Su rotte ignote anche alle navi militari saudite dispiegate nell’area

Gibuti - Campo profughi UNHCR di Markazi

Gibuti – Campo profughi UNHCR di Markazi

di Federica Iezzi

Al-Mokha (Yemen) – Vec­chie navi da carico che fino allo scorso marzo tra­spor­ta­vano bestiame, ora almeno una volta a set­ti­mana, dopo 30 ore di navi­ga­zione, sca­ra­ven­tano debi­li­tati rifu­giati dallo Yemen in Soma­lia o a Gibuti. I mer­can­tili par­tono dal porto yeme­nita di al-Mokha, a ovest della città di Taiz, dal porto di Hodeida, nell’omonimo gover­na­to­rato, e dal porto di al-Mukalla, nella regione costiera di Hadh­ra­maut. Seguono la tratta pre­sta­bi­lita nel golfo di Aden.

All’ingresso del Mar Rosso, Bab al-Mandeb è il canale chiave di tra­sporto che separa l’Africa dalla peni­sola ara­bica. Largo solo 30 chi­lo­me­tri nel punto più stretto. Nello stretto ci sono tre prin­ci­pali rotte di con­trab­bando, tutte poco distanti dal porto di al-Mokha. Rotte non sog­gette ai con­trolli di sicu­rezza per anni, da sem­pre uti­liz­zate per il traf­fico di armi, droga, petro­lio e per­sone. Ignote per­fino alle navi mili­tari della Coa­li­zione sau­dita dispie­gate nell’area.

Nad­heer, un avvo­cato yeme­nita, rac­conta: «Il viag­gio può costare dai 100 ai 300 dol­lari. Anche per i bam­bini. Le bar­che tra­spor­tano 200 per­sone e 600 ton­nel­late di merce». E con­ti­nua: «Lo Yemen è diven­tato un luogo dif­fi­cile da abban­do­nare. La via di terra per l’Arabia Sau­dita è bloc­cata dai ribelli hou­thi. Le città costiere meri­dio­nali pre­si­diate dagli hou­thi sono inavvicinabili».

I rifu­giati sbar­cano in Soma­lia, nei porti di Ber­bera e Lughaya, nella regione auto­noma del Soma­li­land, o nel porto di Bos­saso, nel Pun­tland, e tro­vano rifu­gio tem­po­ra­neo spesso nei para­liz­zanti campi spon­ta­nei, non uffi­ciali, dove c’è ener­gia elet­trica per appena 8 ore al giorno.

Tra i rifu­giati, ci sono anche somali bantu fug­giti venti anni fa dalla spi­rale di vio­lenza che tut­tora ancora deva­sta la loro terra. All’epoca tro­va­rono casa in Yemen, ma ora il governo somalo di Has­san Sheikh Moha­mud ha offerto il suo soste­gno alla Coa­li­zione sau­dita nella lotta con­tro i ribelli di al-Qaeda gui­dati dall’emiro Qasim al-Raymi, e con­tro la mino­ranza sciita hou­thi, appog­giata dalle forze fedeli all’ex pre­si­dente yeme­nita Ali Abdul­lah Saleh e dall’Iran. Dun­que la popo­la­zione yeme­nita che fino a poche set­ti­mane fa con­vi­veva con i tra­pian­tati somali, oggi li aggredisce.

I dati dell’UNHCR, l’Alto Com­mis­sa­riato delle Nazioni Unite per i Rifu­giati, par­lano di 28.596 yeme­niti arri­vati in Soma­lia, tra cui almeno 12.000 bam­bini, dall’inizio del con­flitto. Nel cen­tro di acco­glienza, alle­stito nel porto di Ber­bera, uomini, donne e il pianto incon­so­la­bile dei bam­bini pos­sono sostare solo tre giorni. Rice­vono cibo, acqua e cure medi­che. Ci sono solo cin­que ser­vizi igie­nici per più di 400 per­sone. Da Ber­bera in massa si pre­ci­pi­tano nella capi­tale Har­gheisa, dove si acco­dano alle infi­nite file delle strut­ture della Mez­za­luna Rossa, per man­giare e per chie­dere asilo.

Senza cibo, né scarpe, secondo i dati dell’Organizzazione Inter­na­zio­nale per le Migra­zioni, 23.360 rifu­giati sono tran­si­tati nel cen­tro di al-Rhama e poi accolti nel campo di Mar­kazi, nella pic­cola città por­tuale di Obock, in Gibuti. Su petro­liere o mer­can­tili. Senza posti veri. Un com­mer­cio fio­rente di biglietti e passaporti.

Faaid, un agente marit­timo del porto di Ber­bera, ci dice che «1.325 per­sone sono arri­vate in Soma­lia e a Gibuti nelle due set­ti­mane suc­ces­sive all’inizio del con­flitto in Yemen». Le Nazioni Unite par­lano di almeno 900 per­sone arri­vate nel Corno d’Africa negli ultimi 10 giorni. 58.234 il totale di arrivi tra Gibuti, Soma­lia, Sudan e Etio­pia. Secondo i doga­nieri del porto di al-Mokha, più di 150 per­sone lasciano lo Yemen legal­mente ogni giorno. Sono i pesca­tori con le loro bar­che o chi ha soldi suf­fi­cienti per com­prare un posto sui mer­can­tili. E ogni giorno, come merce di con­trab­bando, più di 400 per­sone affron­tano quel mare, su bar­che di medie dimen­sioni. Di pro­prietà di com­mer­cianti o pesca­tori yeme­niti, ven­gono com­prate qual­che giorno prima della pre­vi­sta par­tenza, da bande di trafficanti.

Berbera, Somaliland (Somalia) - Golfo di Aden

Berbera, Somaliland (Somalia) – Golfo di Aden

Tutto ini­zia in mezzo alle 18.000 per­sone del campo pro­fu­ghi di al-Kharaz, a 150 chi­lo­me­tri a ovest del porto di Aden. Strade bucate dai mor­tai. Nella deserta regione del sud dello Yemen, durante la distri­bu­zione di cibo da parte del World Food Pro­gramme, quando le per­sone sono ammas­sate e le tem­pe­ra­ture arri­vano a 35 gradi, Fadaaq, un ragazzo forse di 19 anni, ini­zia la “ricerca”. Fadaaq, ci rac­con­tano nel campo, lavora per con­trab­ban­dieri migranti in Kuwait. L’obiettivo è di tro­vare almeno 30 per­sone per ogni viaggio.

Il tra­sporto dal campo al porto di al-Mokha è in auto­bus. Ogni rifu­giato paga dai 25 ai 50 dol­lari, incon­trando diversi chec­k­point mili­tari sulla strada, fre­quente tar­get dei mili­ziani di al-Qaeda.

C’è anche chi, dai quar­tieri di Cra­ter, Ash Sheikh Outh­man, Khur Mak­sar e Atta­wahi della città di Aden, cam­mina a piedi per due giorni interi, fino a al-Mokha. Lo Stato Isla­mico e al-Qaeda hanno bloc­cato la mag­gior parte delle strade tra Sana’a e Aden.

Si aspet­tano anche 15 giorni nel porto, in attesa di un posto sui mer­can­tili o in attesa di sal­dare il debito con i con­trab­ban­dieri. Si dorme per terra su teli. Si aspetta l’acqua dalle orga­niz­za­zioni uma­ni­ta­rie. Agenti di poli­zia, guar­die di fron­tiera e diplo­ma­tici fanno finta di non vedere.

Il con­trab­bando di migranti coin­volge reclu­ta­tori, tra­spor­ta­tori, alber­ga­tori, faci­li­ta­tori, ese­cu­tori, orga­niz­za­tori e finan­zia­tori. Spesso i traf­fi­canti sono essi stessi migranti. Spesso i migranti clan­de­stini gui­dano le bar­che. Spesso si usano imprese ad alta inten­sità di capi­tale per il rici­clo dei proventi.

Tre­cento pas­seg­geri è il mas­simo per una barca di 17 metri. Ma le bar­che ven­gono cari­cate di 700–800 per­sone. Su quasi ogni barca la sto­ria è la stessa. Ven­gono rac­colti tutti i tele­foni cel­lu­lari. Tutti par­tono senza baga­glio. Hanno diritto a man­giare, bere e andare in bagno fino al momento dell’imbarco.

Ci rac­conta Reem: «Mi hanno por­tata in un posto dove ho incon­trato altri come me, in viag­gio verso la Soma­lia. In totale era­vamo 157. Una parte del viag­gio l’ho fatta in piedi, per far posto ai miei figli. Poi sono riu­scita a sedermi con le gambe appog­giate al petto. Sono rima­sta per più di dieci ore così». Reem ci ha detto che arri­vati a Ber­bera, in Soma­li­land, hanno spinto tutti fuori dalla barca, in mare. Alcuni sono anne­gati. Altri sono riu­sciti a rag­giun­gere la riva. La barca è spa­rita in pochi minuti tra le onde.

A Mareero, Qaw e Elayo, nella regione somala del Pun­tland, a Obock, in Gibuti, a Bab al-Mandeb, al largo della città di Taiz, e nel golfo di Aden, l’UNHCR ha regi­strato il più alto numero di decessi nel Mar Rosso e nel Mar Arabico.

Il Manifesto, 26/08/2015 “Se la terra promessa è la Somalia” – di Federica Iezzi

Nena News Agency “Se la terra promessa è la Somalia” di Federica Iezzi

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In Yemen si muore nel silenzio

Nena News Agency – 20 agosto 2015

I dati pubblicati da ONU e Amnesty International sono impietosi: 850mila bambini malnutriti, 21 milioni di civili senza accesso regolare a cibo e cure mediche. E mentre l’organizzazione per i diritti umani accusa tutte le parti di crimini di guerra, il mondo ha voltato lo sguardo

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di Federica Iezzi

Sana’a (Yemen), 20 agosto 2015, Nena News – Da un lato il riconosciuto presidente sunnita Abdel Rabbo Monsour Hadi, sostenuto da Stati Uniti, Unione Europea e dalla maggioranza dei Paesi del Medio Oriente. Dall’altro, nel sud dello Yemen, i ribelli di al-Qaeda, oggi guidati da Qasim al-Raymi, e nel nord la minoranza sciita Houthi, appoggiata dalle forze fedeli all’ex presidente Ali Abdullah Saleh e dall’Iran.

Nel mezzo 26 milioni di persone che necessitano di assistenza internazionale, 330 mila sfollati interni, 12 milioni di individui a rischio insicurezza alimentare, 20 milioni senza accesso all’acqua potabile.

Secondo gli ultimi aggiornamenti dell’OHCHR, Office of the High Commissioner for Human Rights, dall’inizio del conflitto armato in Yemen, lo scorso 26 marzo, il numero delle vittime è salito a 6.221, incluso 1.950 civili e 398 bambini, e quello dei feriti a 22.110. Almeno 15 milioni i rifugiati, tra cui 1,2 milioni di sfollati interni. Il conflitto ha interessato 20 dei 22 governatorati del Paese.

L’UNHCR ha monitorizzato la registrazione di 28 mila rifugiati yemeniti in Somalia, 21.726 a Gibuti, 706 in Etiopia. Dopo viaggi estenuanti di 30 ore in mercantili. Tra i Paesi di arrivo degli yemeniti in fuga dalla guerra anche Oman e Arabia Saudita. Nel sultanato mediorientale sono stati registrati 5 mila arrivi dall’inizio del conflitto, mentre il numero di yemeniti in Arabia Saudita è salito a circa 30 mila negli ultimi quattro mesi.

Nel suo ultimo report Amnesty International accusa, di attacchi indiscriminati ai civili, la Coalizione saudita e i gruppi armati che supportano e si oppongono agli Houti. In particolare, sono state documentate violenze nelle città meridionali di Aden e Taiz. I raid aerei dell’esercito di Riyad dibattuti dall’organizzazione britannica sono: quello sulla città portuale di Mokha a sud-ovest del paese, che uccise almeno 63 civili; quello sul villaggio di Tahrur, nel goverantorato di Lahj, in cui persero la vita dieci membri della famiglia Faraa, tra cui quattro bambini; quello sulla moschea del villaggio di Waht, dove sono stati uccisi 11 civili; quello sul mercato popolare del villaggio di Fayush, dove i morti sono stati circa 40; quello sul quartiere di al-Mujaliyya, nella città di Taiz, con distruzione della al-Arwa school e quello sui villaggi di Dar Saber e di al-Akma, nell’area di Taiz, in cui hanno perso la vita 19 persone. Gli attacchi risalgono ai mesi di giugno e luglio scorsi. Dibattuti anche i violenti scontri via terra, tra houthi e lealisti, a Aden, Lahj, Al-Dhale’ e Taiz, per cui hanno perso la vita decine di bambini.

L’intensificarsi del conflitto negli ultimi mesi ha devastato Aden. Distrutti vite e mezzi di sussistenza della città portuale e della maggior parte dei suoi abitanti. Si scappa per cercare sicurezza, ma sono pericolosi perfino i posti di blocco militari. La mancanza di acqua ed elettricità, così come la paura di bombardamenti, hanno costretto i residenti dei quartieri sotto il controllo Houthi, di Crater, Khor Maksar e Ma’allah a Aden, a lasciare le proprie case.

Le milizie Houthi e i gruppi filo-governativi hanno regolarmente lanciato attacchi in quartieri residenziali densamente popolati, in prossimità di abitazioni, scuole e ospedali. Lasciate senza acqua ed elettricità infrastrutture civili. Ostacolata la consegna di aiuti umanitari. Almeno 160 strutture sanitarie sono state chiuse in tutto il territorio yemenita.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità parla di una situazione sanitaria particolarmente critica a Aden. Si è osservato un aumento del numero di casi sospetti di malaria e febbre dengue. 850.000 bambini malnutriti. Molte persone non hanno accesso diretto a cibo, carburante, assistenza medica e acqua potabile.

Fino ad oggi, l’OMS ha distribuito più di 175 tonnellate di medicinali e forniture mediche e più di 500.000 litri di carburante per permettere un’attività minima nei principali ospedali, laboratori analisi e centri dialisi in 13 governatorati, raggiungendo un totale di quasi cinque milioni di persone, tra cui 700.000 sfollati interni e 140.000 bambini al di sotto dei cinque anni. Nena News

Nena News Agency “In Yemen si muore nel silenzio” di Federica Iezzi

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I perchè della mortalità infantile a Gaza

Nena News Agency – 17 agosto 2015

Assenza di medicinali, resistenza ai pochi permessi da Israele, allattamento da madri che hanno respirato fosforo bianco, consanguineità: ecco perché nella Striscia il tasso di mortalità infantile è così alto

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di Federica Iezzi

Roma, 17 agosto 2015, Nena News – Secondo i dati dell’ultimo report dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA), il tasso di mortalità neonatale, cioè il numero di bambini che muoiono prima di quattro settimane, nella Striscia di Gaza è salito al 22.4‰ contro il 2‰ documentato in Israele.

Il tasso di mortalità neonatale, insieme al tasso di mortalità infantile, cioè il numero di bambini che muoiono entro del primo anno di vita, è uno dei più importanti indicatori del benessere socio-economico e delle condizioni sanitarie di un Paese.
La dipendenza economica e la debolezza sociale sono fattori che incidono sui tassi di morbilità, cioè sulla frequenza con cui una malattia si manifesta in una popolazione, e di mortalità.

Anche la monitorizzazione della salute materno-fetale si riflette sulla mortalità infantile, attraverso corretta nutrizione e alimentazione, adeguati controlli medici a madre e nascituro e allattamento al seno.

Il semplice allattamento al seno ha un ruolo rilevante nella prevenzione delle infezioni neonatali, riducendo i tassi di mortalità. Gli effetti dei gas tossici (fosforo bianco), respirati durante le ultime offensive militari israeliane sulla Striscia di Gaza, sono correlati alla progressiva riduzione nella produzione di latte in donne in età fertile.

Malattie infettive e respiratorie, inadeguata alimentazione, carenti condizioni igienico-sanitarie fanno crescere i tassi di mortalità neonatale e infantile.

L’impatto a lungo termine dell’assedio a Gaza con la conseguente carenza di materiale sanitario e di farmaci è un aspetto strettamente correlato all’aumento dei tassi di mortalità neonatale e infantile.

Ne sono un esempio gli antibiotici. Israele non permette l’ingresso a Gaza attualmente di 154 differenti tipi di medicine, tra cui diverse classi di antibiotici. Per cui ne viene usata una limitata gamma per la cura di infezioni. Utilizzando a tappeto sempre lo stesso farmaco, per ogni tipo di infezione, si creano resistenze. Dunque i microrganismi diventano sempre meno sensibili agli antibiotici, facendo crescere i tassi di mortalità a causa di infezioni che diventano incurabili e letali.

Secondo la lista dettagliatamente redatta dal Ministero della Difesa israeliano, a Gaza non è permesso l’ingresso dei cosiddetti materiali ‘dual use’. Sono prodotti che possono avere un duplice utilizzo. Materiali chimici come dietilenetriammina, trietilenetetramina, amminoetilpiperazina, etilendiammina e una serie di catalizzatori, che se entrano nel processo di preparazione di medicinali nelle industrie farmaceutiche diventano salvavita, se invece diventano componenti di razzi e munizioni, si trasformano in un pericolo per lo stato di Israele. E allora tutto bandito dal governo di Tel Aviv, a discapito di chi con quei farmaci, nella Striscia, può scorgere la guarigione.

La quantità di farmaci che dalla Cisgiordania raggiunge effettivamente Gaza, copre appena il 5-7% del fabbisogno locale.

Crescono i tassi di morbilità e di conseguenza quelli di mortalità neonatale, per la mancanza delle semplici culle termiche per i neonati. A Gaza non entrano nuovi materiali e le culle che sono rimaste nei dipartimenti ospedalieri di neonatologia, bombardati, distrutti e smantellati durante Margine Protettivo, l’ultima offensiva militare israeliana sulla Striscia, o non funzionano perfettamente o funzionano a metà, non riscaldando, a causa della preoccupante discontinuità elettrica. Prematuri e neonati di basso peso vengono così sottoposti a rigide temperature che favoriscono ipotermia, infezioni sistemiche e malattie respiratorie.

Le operazioni militari israeliane su Gaza, la divisione politica palestinese, l’assedio di Israele e la chiusura egiziana del valico di Rafah, impedisce di fatto alle fabbriche locali di ottenere le materie prime, necessarie per la produzione di farmaci, e i pezzi di ricambio per apparecchiature medicali, danneggiate dalla guerra e da anni di degrado.

Nonostante licenze dal Ministero israeliano della Sanità e approvazioni dalle aziende fornitrici israeliane, i materiali grezzi, si fermano al valico di Kerem Shalom, unico valico commerciale funzionante tra Striscia di Gaza e resto del mondo, senza nessuna motivazione fornita dalle autorità di Tel Aviv.

Ancora, le complicate procedure di ingresso da Israele di vaccini contro rosolia, morbillo, parotite e poliomielite mettono a rischio le campagne di vaccinazione nella Striscia di Gaza. Fattore direttamente correlato alla mortalità infantile. Secondo i dati dell’UNICEF l’ultimo ingresso di vaccini nella Striscia, risale allo scorso novembre, con l’accesso di 65.429 singole dosi di vaccino antipolio e 50.000 dosi di vaccino anti-pneumococco, per qualcosa come 400.000 bambini

Infine il fenomeno della consanguineità, inevitabile in un Paese i cui movimenti delle persone sono aspramente ristretti, accresce i tassi di mortalità neonatale, a causa dell’alta percentuale di evenienza di difetti genetici. Nel 2013, 960 bambini su 3128 sono nati da matrimoni tra consanguinei.

Secondo i più recenti dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, il 19% delle morti neonatali a Gaza sono legate a malformazioni congenite o disordini metabolici. Nena News

Nena News Agency “I perchè della mortalità infantile a Gaza” di Federica Iezzi

Il Manifesto “Torna a crescere la mortalità infantile a Gaza” di Michele Giorgio

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REPORTAGE. Iraq, un milione di profughi che il mondo non vede

Nena News Agency – 13 agosto 2015

Racconto dai campi profughi di Dhuha al-Rawii, Baharka e Arbat e dal confine Iraq-Turchia, per raccontare la tragedia dei rifugiati iracheni. Uomini, donne e bambini che hanno perduto tutto dopo la violenta nascita dello Stato Islamico e l’offensiva aerea lanciata dalla Coalizione a guida USA

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di Federica Iezzi

Baghdad (Iraq), 13 agosto 2015, Nena News – Mesi di bombardamenti del governo iracheno, della Coalizione Internazionale, guidata dagli Stati Uniti, dei jihadisti dello Stato Islamico. Mezzi corazzati e violente rivolte di militanti. Chiusura delle principali strade che portano fuori città e che impediscono ai civili di fuggire. A Falluja come a Mosul.

Dall’ingresso del Califfato nella provincia di Anbar, all’inizio dello scorso anno, più di un milione di iracheni ha lasciato le proprie case. Di questi, almeno 350.000 sono attualmente rifugiati nell’area di Baghdad. I campi sono costruiti in aree tra cui Abu Ghraib, Razwania, Jamia, Sadr Yousefia, Dora e zone vicine al ponte di Bezebz.

Il campo di Dhuha al-Rawii nel quartiere occidentale di Mansur, nella capitale Baghdad, è un piccolo accampamento di circa 200 famiglie. E’ situato su quello che era un parcheggio. Ora vicino c’è una moschea sunnita.

“Mentre i rumori di mortai e bombardamenti in lontananza erano diventati un suono comune, la violenza iniziata nei quartieri di Falluja, ha distrutto case e vite. Elettricità intermittente, spesso totalmente assente. Lavoro soffocato e prezzi del cibo alle stelle” ci racconta Kasim, giovane studente di ingegneria. “Studiavo all’Anbar University. E’ stata devastata dagli uomini del Daesh”, continua “mi sono ritrovato a Dhuha al-Rawii. Ci sono arrivato a piedi nudi perchè le mie scarpe sono rimaste nel fango. Ho la mia vita ma non ho più la mia famiglia”.

Perfino gli abitanti sciiti e la maggior parte dei residenti sunniti del quartiere di Hayy Al-Jami’a, nello stesso distretto di Mansur, sono stati costretti a rifugiarsi a Dhuha al-Rawii.

Nel campo c’è un tanour per fare il pane tradizionale iracheno, una grande cucina dove le donne possono preparare pasti giornalieri. Sono stati costruiti servizi igienici per sostituire quelli portatili temporanei.

Sono in corso da un quarto di secolo, dalla prima guerra del Golfo, le migrazioni della popolazione irachena. Il Paese ora deve far fronte a quasi 3,5 milioni di sfollati interni. Dopo le aree a nord, il maggior numero di sfollati interni iracheni, sono nella provincia di Anbar a ovest con 400.000 anime, a Kirkuk al centro con 350.000 e a Baghdad con più di 300.000.

Inghiottiti dai combattimenti, ora vivono in tende, dai pavimenti di stuoie di plastica, costruite su tela e pali di legno, nel campo profughi Baharka, nella provincia di Erbil.

Alcuni ragazzi guardano timidamente da dietro la tela delle loro tende i camion, con gli aiuti umanitari, arrivare. Una bambina porta una vasca di plastica grande come lei, ha imparato che con i camion arrivano le cisterne di acqua fresca da bere. Le donne che lavano i vestiti sotto il sole rovente si fermano. I bambini con le loro magliettine rosse, verdi, azzurre e gialle sono gli unici lampi di colore tra la polvere grigia del campo. Un cartellino se la famiglia è composta da meno di sette membri. Due cartellini se ci sono più di sette figli. Riso, lattine di fave, olio vegetale, zucchero e pane sono tra le razioni giornaliere di cibo, consegnate insieme a cherosene e coperte.

Non c’è molto in prossimità del campo. Pianure polverose con modeste case di mattoni all’orizzonte. Una guardia armata al cancello, veglia file e file di tende. Se si lascia il campo si deve essere di ritorno prima delle 18. C’è una tenda di attività per i bambini di età compresa tra uno e sei anni. Non ancora c’è una scuola. Sono 1.649 i bambini al di sotto dei 18 anni che vivono nel campo.

All’interno di una delle tende, Telenaz, volto segnato dal tempo e dalla fatica, ci dice “Abitavo a Ramadi. Gli uomini dell’ISIS ci hanno fatto indossare vestiti neri. Guanti e calze scure. Non bastava più il niqab, dicevano che venivano mostrati troppo i nostri occhi”. La pena per chi disobbediva alle regole era di 40 frustate.

Yassin, suo figlio, è un bambino di 14 anni e ha il compito di assicurarsi che il campo rimanga pulito. Ogni giorno distribuisce buste di plastica a bimbi più piccoli di lui per raccogliere la spazzatura.

A Erbil, a partire dallo scorso settembre, si sono riversate 176.784 persone, secondo un rapporto dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni. Erbil, con una popolazione di 1.5 milioni, ha assorbito circa 120.000 rifugiati, per la maggiorparte dalle province di Ninive e Salah al-Din.

Inizialmente progettato come centro di transito per al massimo 700 famiglie irachene, oggi ospita circa 3.000 famiglie. 18.000 persone. Nel campo dell’UNHCR di Arbat per sfollati interni, nel nord-est della provincia irachena di Sulaymaniyya, ci sono una piccola farmacia, con poche medicine, e una tenda medica con infermieri di guardia e poco materiale. L’acqua scarseggia, l’elettricità è discontinua e i sistemi sanitari sono insufficienti. Solo 500 latrine e 600 docce.

In ogni tenda, in ogni rifugio, gli stessi occhi spenti. Chiediamo a Noora, una ragazzina disabile, dove avessero portato i suoi libri di scuola. Ci risponde piangendo. Nena News

Nena News Agency “REPORTAGE. Iraq, un milione di profughi che il mondo non vede” di Federica Iezzi

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YEMEN. La guerra dimenticata

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Aprile 2023 – Dopo mesi di trattative mediate dall’Oman, sauditi e Houthi si sono incontrati a Sana’a dopo l’Eid al Fitr. In discussione un prolungamento di sei mesi della tregua nazionale, nonché del cessate il fuoco, per avviare una fase di transizione biennale. Oltre 900 prigionieri di guerra sono stati liberati con il sostegno anche logistico della Croce Rossa Internazionale.
L’Arabia Saudita cerca da tempo un’exit strategy dallo Yemen: l’intervento militare da lei guidato non ha raggiunto gli obiettivi prefissati. Gli Houthi controllano ancora gran parte del nord ovest del paese e sono in grado di attaccare su diversi fronti, compresa la roccaforte governativa di Marib. Il movimento-milizia del nord era un’insorgenza locale che praticava la guerriglia: oggi è un attore armato, politico ed economico che si muove nell’orbita dell’Iran. I colloqui in corso enfatizzano quanto l’Arabia Saudita abbia dovuto ridimensionare i propri obiettivi in Yemen: non più la sconfitta del movimento-milizia e il recupero dei territori occupati, ma la coesistenza con gli Houthi. Alleanze e riposizionamenti sono in corso. Il Consiglio di Transizione del Sud ha già manifestato la propria frustrazione per l’esclusione dai colloqui fra Houthi e sauditi. E Tareq Saleh, il nipote dell’ex presidente a capo delle National Resistance Forces che controllano l’area del Bab el-Mandeb, sta riallacciando i rapporti con il partito Islah (Fratelli Musulmani e parte dei salafiti).


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Marzo 2023 – Sebbene la tregua sia ufficialmente scaduta in ottobre, dopo essere stata rinnovata più volte, l’inviato speciale dell’ONU Hans Grundberg ha affermato che alcuni dei suoi elementi più importanti sono ancora in vigore. Ad esempio, i voli commerciali continuano a operare tre volte alla settimana tra Sana’a e Amman, in Giordania, e le navi di rifornimento continuano ad entrare nei porti della città di al-Hudaydah, insieme ad altri beni vitali.

Nonostante ciò, la situazione generale, nel nono anno di conflitto, è sempre gravissima. L’80% dei 30 milioni di abitanti sopravvive solo grazie agli aiuti umanitari, tra l’altro sottofinanziati dalla comunità internazionale. Almeno 4,5 milioni di persone sono sfollate all’interno del Paese.


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Febbraio 2023 – Ancora un carico di armi, in particolare elicotteri d’assalto e blindati, in transito nel porto di Genova e diretti in Arabia Saudita presumibilmente per essere utilizzati della guerra in Yemen, ossia il conflitto che per le Nazioni Unite è la peggiore crisi umanitaria nel mondo. La denuncia arriva da Weapon Watch, l’osservatorio che monitora i traffici di armi nei porti europei e mediterranei nato a Genova sull’onda delle proteste e del boicottaggio contro la line della Bahri, la compagnia di bandiera dell’Arabia Saudita.

L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), chiede sforzi e risorse maggiori per rispondere alle esigenze umanitarie pressanti e in continuo aumento in Yemen. Quella in corso nel Paese continua a essere una delle peggiori crisi umanitarie del pianeta, avendo generato 4,5 milioni di sfollati interni e ridotto oltre due terzi della popolazione al di sotto della soglia di povertà. Nonostante le difficoltà e le poche risorse a disposizione, le comunità yemenite assicurano accoglienza a circa 100mila rifugiati e richiedenti asilo provenienti da altri Paesi dilaniati da guerre.


Gennaio 2023 – Continua l’attività di mediazione tra i due governi dello Yemen e i loro alleati. Le discussioni si sono incentrate sulle opzioni per garantire un accordo sull’allentamento militare e sulle misure per prevenire un ulteriore deterioramento economico e mitigare l’impatto del conflitto sui civili. È vero che misure a breve termine e un approccio frammentario incentrato su singoli problemi possono fornire solo un sollievo temporaneo e parziale. Per cui si lavora anche su una ripresa di un processo politico e un cessate il fuoco a livello nazionale attraverso un’intensificazione dell’attività diplomatica regionale e internazionale.

Nel 2023 circa 21,6 milioni di yemeniti avranno bisogno di assistenza umanitaria e servizi di protezione. Gli impedimenti di accesso non necessari e inutili rimangono un grave ostacolo alla consegna degli aiuti lì e sono tra i peggiori al mondo.

Dopo 8 anni di conflitto, due terzi della popolazione si trova a lottare per la propria sopravvivenza, profondamente provata dagli effetti combinati della violenza, della crisi economica in corso e della grave carenza di finanziamenti, che si traducono in elevati livelli di insicurezza alimentare e mancanza di accesso ai servizi di base.


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Dicembre 2022 – I drammatici dati sulle violenze provocate dal conflitto sui minori contenuti nel Civil Impact Monitoring Project, elaborato dallo Yemeni Protection Group e rilanciato nell’ultimo report di Save the Children, parlano di almeno 330 bambini uccisi o feriti nel 2022. A queste vittime dirette si devono poi aggiungere quanti sono deceduti per la mancanza di cibo, acqua potabile, medicine o per malattie che si stanno diffondendo con crescente incidenza. L’Eye Humanity Center for Rights and Development ha pubblicato un rapporto che mostra che il numero totale delle vittime della guerra in Yemen ha raggiunto le 47.673 durante i 2.800 giorni di aggressione saudita. Inoltre sono state distrutte oltre 598mila case, 182 strutture universitarie e 1.679 moschee, oltre a 379 strutture turistiche e 415 ospedali e strutture sanitarie.

Il Consiglio dell’Unione Europea ribadisce l’estrema preoccupazione per la catastrofica situazione umanitaria nel Paese, dove oltre il 70% della popolazione necessita di assistenza umanitaria e oltre la metà della popolazione si trova ad affrontare una grave insicurezza alimentare. L’Unione Europea ribadisce il suo impegno fondato su principi a favore dell’unità, della sovranità, dell’indipendenza e dell’integrità territoriale dello Yemen e il suo pieno sostegno agli sforzi di pace delle Nazioni Unite e agli sforzi di mediazione dell’inviato speciale delle Nazioni Unite Hans Grundberg.

Gli Emirati Arabi Uniti e il governo yemenita con sede ad Aden, rappresentato dal ministro della Difesa Mohsen al-Dairi, continuano la battaglia contro il movimento di opposizione Houthi, siglando un nuovo accordo militare. Non c’è dubbio che questo accordo consolidi la posizione di Tareq Saleh, nipote dell’ex presidente Abd Rabbo Mansour Hadi e capo delle National Resistance Forces basate nell’area occidentale di Mokha e Bab al-Mandeb e sostenute dagli Emirati Arabi Uniti.


Novembre 2022 – La coalizione arabo-americana a guida saudita ha bombardato nuovamente la capitale dello Yemen Sana’a con i missili prodotti in Sardegna dalla Reinmethall – RWM.

A fine mese, Hans Grundberg, l’inviato speciale delle Nazioni Unite per lo Yemen, ha lanciato l’allarme per il peggioramento della situazione economica e umanitaria nel Paese devastato dalla guerra, che rimane sotto il paralizzante assedio guidato dai sauditi. L’inviato ha chiesto una nuova cessazione degli attacchi allo Yemen da parte di Riyadh e dei suoi alleati della coalizione.

Le conseguenze sociali della guerra civile sulla popolazione impongono una considerazione più profonda. Le vittime sono oltre 10mila, gli sfollati 3 milioni, con violazioni terribili dei diritti umani da parte di tutte le parti in conflitto. L’economia del paese è crollata, i bisogni sanitari di base non possono più essere forniti, mancano cibo e acqua, 390mila bambini sono a rischio di malnutrizione. Cifre raccapriccianti. Una crisi umanitaria la cui responsabilità grava in prevalenza sulla coalizione saudita, che blocca i porti e le comunicazioni. Infine un accenno di geopolitica. La guerra impedisce la sicurezza nello stretto di Bab el-Mandeb dove passa il 4% del petrolio che proviene o è diretto verso il canale di Suez, fondamentale per l’economia egiziana e la sua stabilità. Se si aggiunge che Al Qaeda e l’ISIS si sono impiantate in Yemen, il quadro della situazione è catastrofico.


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Ottobre 2022 – Fonti militari yemenite riferiscono lo scoppio di scontri nella provincia di Marib, a est della capitale Sana’a, subito dopo il mancato rinnovo della tregua, in vigore dallo scorso aprile.

L’inviato speciale dell’ONU Hans Grundberg continuerà a lavorare per un accordo, intanto le due parti stanno ricevendo pressioni internazionali per siglare una nuova tregua.


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Settembre 2022 – 350 membri delle milizie Houthi sono state trasferite da Sana’a a Teheran per seguire un corso di addestramento militare organizzato dalle Guardie della rivoluzione iraniana.

Intanto, si moltiplicano gli appelli, affinché in Yemen si approfitti della tregua – in vigore da quattro mesi e prorogata fino al prossimo 2 ottobre – per avviare un vero e proprio negoziato di pace.
La tregua prevede l’interruzione di tutte le offensive militari di terra, aeree e marittime dentro e fuori dallo Yemen, nonché gli obiettivi economico-commerciali nel Mar Rosso. Più concretamente, comprende l’ingresso di diciotto navi trasportanti carburante nei porti del governatorato di al-Hudaydah, due voli aerei civili a settimana da e per l’aeroporto internazionale di Sana’a, in collegamento con Egitto e Giordania, nuove discussioni per la riapertura delle strade intorno alla città di Taiz. Intanto, nel quadrante del Mar Rosso-Bab al-Mandeb-Golfo di Aden è entrata in funzione la Combined Maritime Forces-153: la nuova task force multinazionale, a guida statunitense, per contrastare il contrabbando di armi nell’area.


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Agosto 2022 – Dopo quattro mesi e mezzo, la tregua continua ad essere ampiamente mantenuta in termini militari. Non ci sono state operazioni militari importanti o cambiamenti nelle linee del fronte e non ci sono stati né attacchi aerei confermati nello Yemen, né attacchi transfrontalieri provenienti dallo Yemen.

Il Comitato di Coordinamento Militare è un risultato importante della tregua. Le parti si riuniranno nell’ambito di un gruppo di lavoro tecnico per istituire una sala di coordinamento congiunta, con l’obiettivo di sostenere la gestione degli incidenti attraverso lo sminamento a livello operativo.

Le proposte di Hans Grundberg, inviato speciale dell’ONU, per l’accordo di tregua ampliato:
· un accordo su un meccanismo di esborso trasparente ed efficace per il pagamento regolare degli stipendi dei funzionari pubblici e delle pensioni civili,
· l’apertura di ulteriori strade a Taiz e in altri governatorati,
· ulteriori destinazioni da e per l’aeroporto internazionale di Sana’a,
· flusso regolare di combustibile verso il porto di al’Hudaydah.


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Luglio 2022 – Il capo del Consiglio presidenziale yemenita, Rashad al-Alimi, ha discusso con il Segretario di Stato degli Stati Uniti, Anthony Blinken, circa gli sviluppi locali e gli sforzi regionali e internazionali volti a raggiungere la pace e la stabilità nello Yemen.

In Yemen l’aumento fuori controllo dei prezzi dei beni alimentari e del costo delle importazioni che coprono il 90% del fabbisogno del Paese non sarà facilmente compensato dall’accordo per lo sblocco dell’export di grano dall’Ucraina. L’impatto della crisi alimentare globale sommato alla più grave siccità degli ultimi anni, ha prodotto una crescita fino al 45% del prezzo degli alimenti di base tra marzo e giugno.

L’inviato delle Nazioni Unite ha presentato all’inizio del mese una nuova proposta sulla revoca dell’assedio nella città di Taiz. La proposta del nuovo inviato dell’ONU, Hans Grundberg, non prevede l’apertura di una strada principale per Taiz, in un chiara ritrattazione dalla sua precedente proposta, che è stata respinta dalla milizia ribelle dopo aver ritardato le trattative per prendere tempo.


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Giugno 2022 – A inizio giugno le NGO Sherpa, Mwatana for Human rights, Centro europeo per i diritti costituzionali e umani (ECCHR), col supporto di Amnesty International France, hanno denunciato tre società francesi dell’industria bellica: Dassault Aviation, Thales e MBDA France. L’accusa è quella di complicità in presunti crimini di guerra e contro l’umanità nello Yemen, per aver esportato armi in Arabia Saudita e negli Emirati Arabi Uniti. Non è la prima volta che lo Stato francese viene accusato di inviare armi alle nazioni impegnate nel conflitto in Yemen. D’altra parte, è il terzo esportatore di armi al mondo dopo Stati Uniti e Russia.
La coalizione a guida saudita ha effettuato oltre 150 attacchi aerei contro obiettivi civili, comprese case, ospedali e torri di comunicazione. I dati sono stati riportati dallo Yemen Data Project e fotografano una delle crisi umanitarie più gravi al mondo, con centinaia di migliaia di persone morte a causa dei combattimenti o delle conseguente indirette.
Il Security Force Monitor presso lo Human Rights Institute della Columbia Law School hanno fornito un quadro dettagliato sul sostegno USA allo sforzo bellico saudita.

Il governo yemenita e i ribelli sciiti Houthi hanno concordato di rinnovare il patto di cessate il fuoco in vigore dallo scorso aprile per altri due mesi.
La tregua ha permesso la ripresa dei voli dall’aeroporto di Sana’a, il rientro nel porto di al-Hudaydah delle navi di rifornimento che trasportano beni di prima necessità, la negoziazione per la riapertura dei collegamenti verso la città di Taiz.


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Maggio 2022 – La coalizione a guida saudita sostiene il Consiglio presidenziale yemenita. Obiettivi principali: riapertura delle vie di comunicazione con la città di Taiz, funzionamento del porto di al-Hudaydah, proposte di pace concrete.

Riyad prevede di annettere le province ricche di risorse dello Yemen orientale – Hadhramaut, Shabwah, Al-Mahrah e Abyan, mentre gli USA mirano al completo controllo del porto di Aden.
Attualmente il governo, guidato da Abdrabbuh Mansour Hadi controlla il 60% circa del territorio dello Yemen (i due governatorati più estesi, nella parte orientale del Paese), dove abitano circa 12 milioni di cittadini. Mentre 15 milioni di persone vivono nelle aree sotto il controllo degli Houthi, che occupano circa il 25% del territorio totale (i governatorati occidentali). Infine il governatorato di Aden, nella zona meridionale del Paese, abitato da quasi 3 milioni di persone, è sotto il controllo del Consiglio di Transizione del Sud. Porzioni molto ristrette di territorio sono in mano ad al-Qaeda nella penisola arabica (AQAP) e ad altri attori minori della regione.

Intanto continua la tregua in Yemen. Le parti hanno accettato di fermare tutte le operazioni militari offensive aeree, terrestri e marittime all’interno del paese. L’iniziativa, patrocinata dalle Nazioni Unite, è il frutto di un accordo tra: i ribelli sciiti filo-iraniani Houthi, le forze governative yemenite supportate dal regno della famiglia Al Saoud, e il Consiglio di Transizione del Sud (STC), sostenuto dagli Emirati Arabi Uniti, principale alleato di Riyad.

Alla fine del 2021, secondo le Nazioni Unite, il conflitto ha provocato la morte di 377 mila persone, e dall’inizio degli scontri 24.600 attacchi aerei hanno distrutto il 40% delle abitazioni in tutte le città del Paese. La guerra ha costretto oltre 4 milioni di a lasciare le proprie case. Secondo le Nazioni Unite, oltre un milione di persone al momento si trovano nel governatorato di Marib, al centro del Paese.
In Yemen il 75% della popolazione dipende da aiuti internazionali. 17,4 milioni di yemeniti hanno problemi di malnutrizione, e entro la fine dell’anno potrebbero diventare 19 milioni (il 62% della popolazione). Recentemente FAO, UNICEF e WFP hanno affermato che il numero di persone che vive in uno stato di carestia nel Paese raggiungerà quota 161 mila entro la fine del 2022.


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Aprile 2022 – La guerra in Yemen sta entrando nel suo ottavo anno. L’Arabia Saudita ha completamente fallito nella sua campagna per sconfiggere i ribelli sciiti Houthi che controllano la capitale Sana’a, la maggior parte dello Yemen settentrionale e l’80% della popolazione. Il popolo yemenita sta pagando un prezzo orribile: la più grave catastrofe umanitaria del secolo secondo l’ONU. 

E intanto si concretizzano i due mesi di cessate il fuoco nel Paese. Una tregua temporanea legata al Ramadan. L’annuncio è arrivato attraverso un portavoce del governo yemenita che ha dichiarato di accettare e sostenere la proposta avanzata dalle Nazioni Unite. Si tratta della prima tregua su tutto lo Yemen dal 2016. Arriva dopo un periodo di intensificazione dei combattimenti, ma anche di forte attività diplomatica, con negoziati in corso a Riad.


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Marzo 2022 – La terribile crisi alimentare in Yemen è a un passo dal diventare una vera e propria catastrofe, con 17,4 milioni di persone che hanno bisogno di assistenza immediata.
La situazione umanitaria nel Paese è destinata a peggiorare ulteriormente nella seconda metà del 2022, con il numero di persone che non saranno in grado di soddisfare il proprio fabbisogno minimo di cibo che potrebbe raggiungere la cifra record di 19 milioni di persone. L’allarme arriva da Food and Agriculture Organization, UNICEF e World Food Programme.

Secondo i dati delle Nazioni Unite oltre 10.200 bambini sono stati uccisi o feriti nel corso del conflitto.
Più di 2.500 sono gli istituti scolastici danneggiati, utilizzati come rifugi per le famiglie sfollate o occupati da gruppi armati, causando l’abbandono scolastico di 400.000 bambini. Il 60% dei bambini non è mai più tornato a studiare.
In 7 anni di guerra sono morte 370 mila persone, di cui il 40% sono vittime dirette del conflitto e il 60% indirette (incidenti stradali, parti difficili, malnutrizione, patologie croniche non curate, mancanza di farmaci, carenza di strutture sanitarie). Si contano 18.500 vittime tra i civili.


Febbraio 2022 – A un anno dall’escalation degli scontri per la conquista del ‘ricco’ governatorato yemenita di Marib, la situazione umanitaria nell’area è disastrosa. Si contano almeno un milione di sfollati, mentre gli scontri non accennano a fermarsi. L’acuirsi del conflitto ha già costretto oltre 100mila persone ad abbandonare le proprie case, per cercare scampo dagli attacchi che continuano a colpire obiettivi civili.
Al momento, il governo (sotto il cui dominio ricadono i due governatorati più estesi – Hadramawt e Mahra) sembra controllare il 60% dell’area geografica del Paese, in cui abitano circa 12 milioni di cittadini, mentre 15 milioni di persone  vivono nelle aree sotto il controllo degli Houthi, che occupano però circa il 25% del territorio totale. Le aree restanti, appannaggio del Consiglio di Transizione del Sud, sono abitate da quasi tre milioni di persone.

Fino alla fine del 2021, secondo le Nazioni unite, il conflitto in Yemen ha provocato la morte di 377.000 persone. La guerra è costata all’economia del Paese 126 miliardi di dollari e ha causato una delle peggiori crisi umanitarie ed economiche del mondo, con la maggior parte della popolazione (30 milioni di abitanti) dipendente dagli aiuti umanitari.


Idlib, Siria

Gennaio 2022 – La regione di Ma’rib, a est della città di Sana’a, ricca di risorse petrolifere e che consentirebbe al gruppo sciita Houthi di completare i propri piani espansionistici nello Yemen settentrionale, continua a essere teatro di tensioni. Fino all’inizio del 2020, il capoluogo di Ma’rib, ultima roccaforte delle forze filogovernative nel nord dello Yemen, era rimasto lontano da tensioni e conflitti, grazie alla presenza di risorse quali petrolio e gas e alla vicinanza con l’Arabia Saudita, oltre che al sostegno delle tribù locali.

Nelle ultime settimane si sono susseguite una serie di vittorie per le forze allineate con il governo yemenita riconosciuto a livello internazionale e i suoi sostenitori sauditi ed emiratini. Le Brigate al-Amaliqa, finanziate dagli Emirati Arabi Uniti, hanno riconquistato territori nella provincia di al-Bayda e in quella di Shabwa.

In questa cornice, l’amministrazione Biden ha spinto con successo la vendita di 650 milioni di dollari in missili aria-aria attraverso il Congresso, nonostante le obiezioni di alcuni legislatori preoccupati per il sostegno degli Stati Uniti all’intervento militare in Yemen.

Intensi raid aerei sauditi su città yemenite in mano agli Houthi. Tra gli obiettivi: una prigione nella città di Sa’ada e varie infrastrutture delle telecomunicazioni nella città portuale di al-Hudaydah.


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Dicembre 2021 – Sono quasi due milioni gli sfollati yemeniti che si sono rifugiati negli anni a Ma’rib, il cui capoluogo omonimo è situato a circa 120 chilometri a Est di Sana’a, ultima roccaforte delle forze filogovernative nel nord dello Yemen. Questi costituiscono il 7,5% della popolazione totale del Paese.
Dal mese di febbraio scorso, il gruppo sciita sta portando avanti un’offensiva volta ad occupare una regione ricca di risorse petrolifere. Tuttavia, i ribelli devono far fronte alla forte resistenza dell’esercito yemenita, coadiuvato sia dalla coalizione internazionale a guida saudita sia da tribù e gruppi di resistenza locali.

Nello Yemen è in corso dal 2015 una guerra civile e di invasione che, oltre alla perdita di vite umane, sta lacerando i mezzi di sussistenza e il tessuto sociale, sta portando il Paese sull’orlo della carestia e sta provocando forti regressioni nello sviluppo del Paese. E’ quanto dichiarato nell’ultimo report dell’United Nations Development Programme (UNDP) ‘Assessing the Impact of War in Yemen: Pathways for Recovery’. Questo rapporto sullo Yemen fornisce nuove informazioni sulla peggiore crisi umanitaria e di sviluppo del mondo. Milioni di yemeniti continuano a soffrire per il conflitto, intrappolati nella povertà e con poche possibilità di lavoro e mezzi di sussistenza. Lo studio presenta un quadro chiaro di come potrebbe essere il futuro con una pace duratura, comprese nuove opportunità sostenibili per le persone.

Radio InBlu2000 – ‘Buona la prima’ 15.12.2021

Omnibus La7 19.12.2021

Radio Capital – ‘TG Zero’ 22.12.2021

RaiNews24 ‘Medici Senza Frontiere, 50 anni di una speranza’ 22.12.2021


Novembre 2021 – Negli ultimi cinque anni, più di 460 scuole sono state attaccate, comprese quelle colpite da fuoco incrociato, in Yemen. Più di 2.500 istituti sono stati danneggiati, utilizzati come rifugi per le famiglie sfollate o occupate da gruppi armati. Il 60% dei bambini non è tornato tra i banchi. È il quadro del nuovo rapporto di Save the Children, ‘Will I see my children again?’ pubblicato per la quarta Conferenza Internazionale sulla Dichiarazione delle Scuole Sicure, per proteggere l’istruzione durante i conflitti armati.

La coalizione saudita, che sostiene il governo yemenita riconosciuto a livello internazionale, continua a registrare reiterati attacchi contro gli Houthi, sostenuti da Teheran, nella città di Marib, leggendaria capitale dell’antico Regno di Saba e ancora oggi importante e ricca città nell’est del Paese. Proprio tale regione potrebbe costituire la chiave per risolvere il più ampio conflitto civile in Yemen. Oltre ad essere l’ultima roccaforte delle forze filogovernative nel Nord dello Yemen, Marib rappresenta una regione strategica, ricca di risorse petrolifere, la quale costituisce una porta d’accesso verso Sana’a, che consentirebbe ai ribelli di consolidare in parte i progetti auspicati nello Yemen settentrionale.

L’UNMHA, la Missione delle Nazioni Unite a sostegno dell’Accordo di al-Hudaydah, ha esortato le parti belligeranti yemenite a tenere nuovi colloqui mentre la coalizione guidata dai sauditi ha attaccato le aree a sud della città portuale, dove i combattenti Houthi stanno avanzando sulla scia del ritiro degli stessi sauditi. 


Ottobre 2021 – Lo Yemen è scomparso dai radar del dibattito pubblico e politico, ma mai come adesso è necessario richiamare l’attenzione della comunità internazionale su quella che resta la più grave emergenza umanitaria al mondo: la terza ondata di Covid-19 sta colpendo pesantemente una popolazione stremata da quasi 7 anni di guerra, che per il 99% non è vaccinata e che in buona parte non ha accesso a cure, trattamenti e strumenti per prevenire il contagio.

Secondo le Nazioni Unite, due terzi della popolazione non ha accesso ai servizi sanitari e dipendono completamente da aiuti umanitari – 20 milioni di persone, inclusi 5.9 milioni di bambini. 16 milioni soffrono di insicurezza alimentare e in 50 mila si trovano in condizioni di carestia. Oltre quattro milioni di yemeniti sono stati sfollati dall’inizio del conflitto e due milioni oggi vivono solo a Marib, attualmente luogo di aspri combattimenti.

Arabia Saudita e Iran hanno ripreso le attività di dialogo a Baghdad, mediante fitti incontri tra funzionari diplomatici. Da un lato, i sauditi guidano la coalizione militare che da anni colpisce pesantemente i ribelli separatisti del nord (Houthi), dall’altro gli Houthi ricevono sostegno militare dai Pasdaran, organizzazione militare teocratica iraniana, che permette loro di fronteggiare le forze saudite.

Intanto riprendono gli attacchi sul fronte meridionale del governatorato di Marib, a circa 120 chilometri a est di Sana’a, oggetto di un’offensiva dal mese di febbraio scorso, particolarmente intensificatasi nelle ultime settimane. E riprendono violenti scontri anche nelle aree di Al-Juba e Mala’a, a sud di Marib, e nel dl distretto di al-Abadiya, che gode di una posizione geografica strategica, in quanto rappresenta una delle porte del governatorato di Marib e un punto di collegamento con i governatorati di al-Bayda’ e Shabwa, da ovest e da sud.

Radio cooperativa Padova – 10/10/2021


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Settembre 2021 – Aumenta il numero di sfollati interni, mentre continuano i bombardamenti indiscriminati nel distretto di Rahba, a sud di Marib, ultima roccaforte del governo Hadi.
Quasi 24mila civili sono stati costretti a lasciare le proprie case a causa degli scontri armati nell’intero governatorato di Marib, che accoglie già un quarto dei quattro milioni di sfollati interni presenti in Yemen. In una nota dell’UNHCR si parla di almeno 150 insediamenti informali occupati.

Intanto, colpite basi della coalizione saudita nell’aerea di al-Anad, vicino Aden, capitale dell’Internationally Recognized Government (IRG).
Raid della Coalizione araba anche ad est della città di al-Hazm, nel Governatorato di al-Jawf, a nord-est del Paese.

Radio Popolare – Esteri 23/09/2021


Agosto 2021 – Lo Yemen è entrato nel settimo anno di guerra. Il Paese è a livelli catastrofici di carestia. Stati Uniti, Regno Unito, Spagna e Canada forniscono apertamente armi alla coalizione guidata dai sauditi. L’Italia è il quarto paese esportatore di armi nell’Unione Europea. La Leonardo Company è il maggiore produttore italiano di armamenti, il dodicesimo al mondo. Il governo italiano ne è il maggiore azionista, ne possiede il 30%. Dopo la revoca del governo Conte-2 alle licenze della Rwm-Italia, che ha esportato materiale bellico verso la coalizione saudita in guerra contro lo Yemen, la commissione Esteri della Camera ha chiesto al governo di rivedere le restrizioni che, di fatto, hanno spinto Abu Dhabi ad annunciare il ritiro delle truppe dallo Yemen. Rete italiana Pace e Disarmo interviene per precisare che non c’è mai stato alcun embargo dell’Italia verso Emirati Arabi o Arabia Saudita, ma solo la revoca di sei licenze di forniture di bombe e missili.

Le forze Houthi e le milizie alleate hanno preso il controllo dell’area strategica delle montagne di al-Fuqara, l’ultima roccaforte delle forze filo-saudite nel distretto di Numan, nella provincia meridionale di Marib, in pesanti combattimenti. Le forze Houthi hanno anche compiuto progressi significativi nelle province di Sana’a e Shabwa.


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Luglio 2021 – Sta precipitando nello Yemen la situazione umanitaria. L’allarme arriva dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite – UNHCR che ha rilevato la presenza di 16 milioni di bambini e di adulti che combattono contro la fame, e oltre 20 milioni di persone totalmente dipendenti da aiuti umanitari. Un quadro drammatico che è il frutto di 6 anni in conflitto.

Le forze dell’Esercito Nazionale yemenita hanno aperto nuovi fronti contro gli Houthi. Ciò è avvenuto nonostante l’Iran abbia dato tutto il suo sostegno per consentire agli Houthi di controllare la città di Marib.

Dalla fine dello scorso giugno, in Italia, ‘non è più richiesta la clausola dell’end-user certificate rafforzato per le esportazioni verso Arabia ed Emirati’. A scriverlo è stato il direttore di UAMA (Unità per le Autorizzazioni dei materiali di armamento), in una nota inviata alle aziende esportatrici di armamenti. Una concessione che in sostanza permette l’esportazione di armi. Resta invece il blocco delle esportazioni per armamenti pesanti (missili e bombe). La scelta del governo sarebbe arrivata per cercare di migliorare i rapporti diplomatici con l’Arabia Saudita e soprattutto gli Emirati Arabi Uniti, attori chiave nelle dinamiche geopolitiche del Golfo persico.


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Giugno 2021 – L’inviato speciale delle Nazioni Unite in Yemen, Martin Griffiths, ha incontrato funzionari sauditi e yemeniti per discutere il piano elaborato dalle Nazioni Unite, che prevede l’allentamento delle restrizioni imposte sul movimento di beni e persone nonché l’impegno dei firmatari a riprendere il processo politico. Riguardo a quest’ultimo punto, Griffiths si è detto fiducioso circa la continua attuazione del Riyadh Agreement, siglato a novembre 2019 tra il Governo Internazionalmente Riconosciuto (IRG) del presidente Hadi e le milizie separatiste del Southern Transitional Council (SCT), per la creazione di un nuovo esecutivo nel Paese mediorientale sotto la supervisione dell’Arabia Saudita.

I combattimenti indiscriminati e le ostilità attive presso zone densamente popolate continuano ad essere una delle principali cause di morte per la popolazione civile yemenita. I distretti rurali sono duramente colpiti, con oltre il 60% delle vittime civili, la maggior parte delle quali si trova nel governatorato di al-Hudaydah, nei distretti di at-Tuhayta e Hays, e nel governatorato di Taiz. Proprio in queste aree, l’accesso all’assistenza umanitaria è gravemente limitato.

Il conflitto ha devastato i servizi sanitari del Paese. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, più della metà delle 5 mila strutture sanitarie dello Yemen non sono funzionanti o lo sono parzialmente, in 22 governatorati. Migliaia di professionisti sanitari sono sottoutilizzati a causa della distruzione delle strutture sanitarie, della mancanza di farmaci e dell’inaccessibilità della popolazione. Secondo il dataset 2020 dell’Health Resources and Services Availability Monitoring System (HeRAMS), dei 333 distretti dello Yemen, il 18% non ha affatto medici.

Il Manifesto ‘YEMEN, in lotta per la vita sulla linea del fronte’ di Federica Iezzi

Il Manifesto Global ‘Fighting for their lives on the frontline in Yemen’ di Federica Iezzi

Il Fatto Quotidiano “Yemen, la testimonianza della chirurga di MSF – In guerra anche i civili in strada costretti a improvvisarsi medici per salvare vite”

Il Resto del Carlino “Io, cardiochirurga inviata al fronte”


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Maggio 2021 – Il direttore dell’ufficio di presidenza del governo legittimo yemenita, Abdullah Al-Alimi, ha dichiarato che il governo yemenita ha mobilitato tutte le forze per difendere la città di Marib, ultima roccaforte governativa nelle regioni settentrionali del Paese, contro la massiccia offensiva militare della milizia filo-iraniana Houthi.
Secondo l’UNHCR, l’escalation delle ostilità ha portato allo sfollamento di oltre 13.600 persone (2.272 famiglie) a Marib, area che ospita già un quarto dei 4 milioni di sfollati interni dello Yemen.
Ma Marib è solo uno dei tanti fronti di guerra. Sono presenti sul campo dozzine di milizie e dozzine di fronti attivi. La guerra ha polarizzato le regioni e ha dato il via a cicli di vendetta che non possono essere fermati solo perché le élite politiche hanno raggiunto un accordo.

I colloqui a Muscat, la capitale dell’Oman, sulla situazione yemenita, si sono conclusi dopo una settimana senza progressi tangibili. Rimangono due i fattori d’intralcio: la guerra tra Ansar Allah, sostenuto dall’Iran, e il governo alleato occidentale e gli spinosi negoziati tra Teheran e Washington
Durante i colloqui in Oman, la guerra civile in Yemen continua a infuriare oltre il confine.
Da quando i ribelli Houthi hanno iniziato a combattere il governo internazionalmente riconosciuto dello Yemen e i suoi alleati più di sei anni fa, i dati dell’agenzia umanitaria delle Nazioni Unite parlano di circa 233.000 morti, di cui 131.000 per cause indirette come mancanza di cibo, servizi sanitari e infrastrutture.

L’aeronautica degli Emirati farà a meno delle bombe italiane di RWM – Rheinmetall Defense, ma si doterà presto dei cacciabombardieri F-35A di Lockheed Martin, vendita autorizzata dall’amministrazione Trump e poi confermata da quella di Joe Biden dopo una breve sospensione.
La lista di nazioni poco attente ai diritti umani e alla democrazia con cui l’Italia intrattiene relazioni anche militari è lunga e include quasi tutti gli stati africani e asiatici, la Turchia (alleato nella NATO) e il Qatar (con il quale continua l’accordo in cooperazione militare).

Nena News Agency “YEMEN. Gli effetti della guerra sul sistema sanitario”

COARM – Esportazioni di armi convenzionali

TGR RAI Marche ‘I 50 anni di Medici Senza Frontiere’


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Aprile 2021 – Sul piano internazionale gli Stati Uniti, sotto l’amministrazione di Barack Obama, dal 2015 hanno dato ai sauditi il via libera ai bombardamenti aerei contro Ansar Allah. In seguito Donald Trump ha continuato ad appoggiare i sauditi senza sollecitarli a cercare una soluzione diplomatica per risolvere il conflitto. Con l’insediamento di Joe Biden i sauditi si sono ritrovati senza questa copertura internazionale. Uno dei pilastri della politica mediorientale della nuova amministrazione è di mettere fine alla guerra nello Yemen e rilanciare i negoziati con l’Iran – principale sostenitore di Ansar Allah, sul suo programma nucleare.
Sul piano regionale gli Emirati Arabi Uniti, principale alleato dei sauditi, si sono ritirati dalla guerra ma conservano una roccaforte sulla costa che ne garantisce l’espansione marittima fino al Corno d’Africa.

Oggi lo Yemen è in preda a una crisi umanitaria ed economica di proporzioni senza precedenti negli ultimi decenni. Secondo le Nazioni Unite almeno 16 milioni di yemeniti vivono in condizioni di carestia, e 2,5 milioni di bambini soffrono di malnutrizione. Le carenti infrastrutture del paese sono distrutte, al punto da rendere qualunque potenziale ricostruzione estremamente lunga e costosa.
Come in tutte le guerre civili sostenute da potenze straniere che causano difficoltà economiche estreme, gli yemeniti hanno imbracciato le armi e ricevuto ricompense economiche in cambio della loro adesione a progetti politici che magari non corrispondono al loro interesse nazionale. Una volta che tutte le attività economiche e le opportunità di lavoro si sono esaurite è possibile sfamare i propri figli solo se si diventa combattenti al soldo di uno o più sostenitori internazionali.
Se la guerra si fermerà senza un preciso programma di ricostruzione c’è il rischio che in molti perderanno il proprio reddito e le fonti di sostentamento. In assenza di alternative reali che gli permettano di sopravvivere in un paese distrutto, i gruppi locali potrebbero non vedere un reale beneficio nella fine delle ostilità. L’offerta saudita non chiarisce come la pace e la ricostruzione economica potranno ripartire quando i bombardamenti aerei si saranno fermati. Oggi la guerra nello Yemen ha generato nuove forze che sembrano andare oltre la capacità dell’Arabia Saudita, che ha contribuito a questa distruzione, di arginare il conflitto o di ribaltare la situazione.

Nena News Agency ‘YEMEN. La pace lontana’

Yemeni archive

Civilian Impact Monitoring Project

The Armed Conflict Location & Event Data Project


MSF - al-Mokha trauma hospital

MSF – al-Mokha trauma hospital

 

Marzo 2021– Gli sforzi diplomatici che sembravano aver preso nuova linfa con le aperture americane del mese scorso non fermano la guerra in Yemen. Violenti combattimenti hanno provocato almeno centinaia di vittime nell’area della città di Marib, strategica regione settentrionale che i ribelli Houthi stanno cercando di strappare alle forze lealiste. Marib è un’area ricca di petrolio e ultima roccaforte del governo filo-saudita nel nord del Paese.

La grande offensiva è attualmente su tre fronti. Su Marib, nel centro, le truppe regolari stanno respingendo i continui attacchi di Ansar Allah. A Taiz, nel sudovest, le forze armate yemenite hanno rafforzato il controllo di posizioni strategiche, unendosi con i separatisti del sud, e rafforzati da una mobilitazione generale contro gli Houthi. Nel Governatorato di Hajjah, nel nord-ovest del Paese, dove l’obiettivo è tagliare le vie di comunicazione che dalle retrovie settentrionali portano rinforzi all’organizzazione ribelle.

Colpito l’ospedale gestito da Medici Senza Frontiere Al-Thawra, nella città di Taiz, durante i crescenti scontri nell’area.

In Yemen violenze e carestia rischiano di cancellare un’intera generazione che non potrà essere aiutata da donazioni in netto calo da parte della comunità internazionale. Ad oggi metà della popolazione, 16 milioni di persone, patisce la fame e 400 mila bambini di meno di 5 anni rischiano di morire di malnutrizione.

Nena News Agency ‘8 MARZO. Nello Yemen ultimo per uguaglianza di genere, la guerra ha peggiorato la situazione’

UNOCHA ‘Inside Yemen. Portraits of resilience’


Febbraio 2021 – La guerra in Yemen e la crisi umanitaria che ne è derivata hanno determinato nel Paese una situazione drammatica con oltre 18.557 vittime civili tra marzo 2015 e novembre 2020. Quasi sei anni di conflitto hanno costretto più di 4,3 milioni di persone, tra cui più di 2 milioni di bambini, a lasciare le loro case, e si stima che l’80% della popolazione – 24,3 milioni di persone – abbia bisogno di assistenza umanitaria.

Secondo una recente indagine della FAO, circa 2,3 milioni di bambini soffriranno di malnutrizione nel 2021, e di questi circa 400mila soffriranno di malnutrizione acuta e rischieranno la morte. La FAO segnala anche una forte prevalenza di malattie infettive: circa 2 bambini su 5 nel nord del Paese soffrono di diarrea cronica e circa il 60% dei bambini nel nord e il 25% dei bambini del sud soffrono di malaria e febbre.

Ansar Allah (Houthi) ha ripreso l’offensiva contro Marib, a est della capitale Sana’a, dal 2014 sotto controllo. L’assalto è ripreso dopo che il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha rimosso il sostegno americano alla controffensiva di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, che nel 2015 sono intervenuti a fianco del governo yemenita. Intanto il governo Biden revoca la designazione del gruppo filo-iraniano, Ansar Allah, come gruppo terroristico.

Nena News Agency “ANALISI. Yemen, i conflitti interni nel sud e nell’ovest”

UNOCHA “Ten things you need to know about Yemen right now”

OCHA “Yemen humanitarian needs overview 2021”

Al Jazeera “Why is Yemen at war?”


MSF Trauma Hospital - al-Mokha, Yemen

MSF Trauma Hospital – al-Mokha, Yemen

 

Gennaio 2021 – Aggravare una situazione drammatica. È quello che secondo l’ONU avrebbe fatto il segretario di stato americano Mike Pompeo negli ultimi giorni, decidendo di designare il movimento Houthi nello Yemen come Organizzazione Terroristica Straniera. Secondo le Nazioni Unite, questa decisione e le conseguenti sanzioni che porta con sé, avrebbero la conseguenza di far lievitare i prezzi del cibo del 400%, ben oltre la portata di molte agenzie umanitarie e, dunque, a una preoccupante carestia. Mark Lowcock, direttore generale dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari, ha chiesto che la decisione venga revocata.

Arriva il giorno prima dell’insediamento di Joe Biden, la decisione di Washington di designare il movimento Ansar Allah, braccio politico degli Houthi, nello Yemen come Organizzazione Terroristica Straniera, ai sensi del diritto interno degli Stati Uniti. Ultimo sconcertante atto di Mike Pompeo, segretario di stato americano dell’epoca Trump. La designazione è stata approvata contro il parere dei principali funzionari delle Nazioni Unite, di diplomatici, di analisti e delle principali agenzie umanitarie che lavorano attualmente in Yemen.
Ennesimo errore statunitense che rischia di far cadere il Paese in una carestia di dimensioni mai viste dalla catastrofe degli anni ’80 in Etiopia. E’ un atto irresponsabile che complicherà gli sforzi delle Nazioni Unite di mediare una risoluzione del conflitto che devasta da sei anni lo Yemen e peggiorerà le già precarie condizioni di vita di milioni di persone.
E’ molto probabile che l’etichetta ‘Organizzazione Terroristica Straniera’ spinga gli Houthi, che già hanno il controllo sul nord del Paese e sul porto principale di al-Hudaydah, più vicino a Teheran. Inoltre rischia di inasprire le posizioni sia degli Houthi che del governo sostenuto dai sauditi.
Le conseguenze umanitarie potrebbero essere orribili. La mossa soffocherà i flussi di cibo nel Paese dipendente dalle importazioni e complicherà il lavoro delle agenzie umanitarie. I commercianti yemeniti temono che banchieri, spedizionieri e assicuratori internazionali rompano il rapporto di collaborazione a causa delle sanzioni statunitensi, che li metterebbero fuori dal mercato o in prigione.
Se le compagnie aeree, le banche e le compagnie di navigazione non sapranno con certezza che gli Stati Uniti non cercheranno di punirle per commercializzare nello Yemen, potrebbero rifiutarsi di fornire i loro servizi, interrompendo indirettamente le capacità delle agenzie umanitarie.
Lo Yemen importa il 90% del suo cibo. Quasi tutto il cibo dunque viene portato attraverso canali commerciali. Le agenzie umanitarie consegnano alle persone buoni o contanti per acquistare prodotti alimentari importati commercialmente. Dunque non possono sostituire il sistema di importazione commerciale. Ciò significa che ciò che fanno gli importatori commerciali è il più grande determinante della vita nello Yemen.
La stima migliore è che i costi del cibo potrebbero aumentare del 400%. Ciò renderà troppo costoso per molti importatori continuare attività commerciali. E in ogni caso, quasi nessuno nello Yemen potrà permettersi di comprare il cibo a quel prezzo.
Secondo i dati forniti dalle Nazioni Unite circa 16 milioni di civili sono sull’orlo della fame e altre decine di milioni soffrono di insicurezza alimentare. Completamente senza un piano operativo rimangono: la protezione dei civili, l’accesso per gli operatori umanitari, i finanziamenti per le operazione di soccorso, il sostegno all’economia e alla pace. Le sanzioni e i blocchi stanno devastando il Paese, sfruttando crudelmente la fame e la possibile carestia come strumento di guerra.
Gli Stati Uniti hanno affermato che introdurranno licenze in modo da garantire alcuni aiuti umanitari e importazioni. Di fatto le licenze non esistono ancora. Nessuna agenzia umanitaria ha dettagli confermati su quali attività saranno ammissibili. E in ogni caso le licenze e le esenzioni per le agenzie umanitarie non risolveranno il problema, visto che le stesse agenzie non sono designate a importare la maggior parte del cibo.
Biden potrebbe finire per adottare una sorta di soluzione alternativa piuttosto che affrontare direttamente le conseguenze catastrofiche. Ad esempio, esenzioni o deroghe sarebbero un modo per aggirare gli ostacoli agli aiuti umanitari.
Le agenzie umanitarie che lavorano nei territori controllati da Ansar Allah, sono tenute a lavorare rispettando il sistema. Ad esempio, per trasportare farmaci o attrezzature mediche nel Paese, sono tenute a coordinarsi con i leader locali di Ansar Allah e pagare le tasse. Le stesse agenzie umanitarie hanno stabili rapporti di collaborazione con il Ministero della Salute, dove gestiscono congiuntamente ospedali e centri sanitari. Queste sono cose che potrebbero tecnicamente essere rese illegali dalla designazione degli Stati Uniti e potrebbero precipitare pericolosamente se non ci sono esenzioni sufficienti.

Il 2021 dello Yemen dipenderà in primo luogo dai risultati dell’inviato speciale delle Nazioni Unite Martin Griffiths, che sta tenacemente negoziando, da mesi, una Dichiarazione congiunta tra Houthi e governo internazionalmente riconosciuto: obiettivo un cessate il fuoco nazionale, un governo di transizione che includa anche gli Houthi.

Dopo oltre cinque anni di guerra, il movimento e poi milizia Houthi, fondato da Husayn Al-Huthi, oggi guidato dal fratello Abdelmalek, non rivendica più soltanto l’autonomia regionale e confessionale per le terre dell’estremo nord (opponendosi lì ai salafiti che i sauditi appoggiano sin dagli anni Ottanta), ma ha peso e ambizioni nazionali.
La strada del nuovo governo è più che mai in salita. I secessionisti hanno ottenuto cinque ministeri, ma nei ruoli-chiave sono stati confermati i fedeli del presidente Hadi, premier incluso.

Gli ultimi scontri nella città portuale di al-Hudaydah, sono i più violenti da quando è entrata in vigore la tregua negoziata nell’accordo di Stoccolma del 2018, mediato dalle Nazioni Unite.
Parte della città è attualmente sotto il controllo del movimento Ansar Allah, mentre le forze filo-governative sono avanzate nella periferia meridionale e orientale.
L’escalation di scontri attualmente si sta consumando a sud della città di al-Hudaydah, dove le forze filo-governative mantengono ancora posizioni strategiche. Gli scontri finora non hanno portato ad alcun guadagno territoriale per entrambe le parti e arrivano mentre la città portuale soffre ancora di una chiusura forzata, imposta dalla coalizione guidata dai sauditi.
C’è intensa preoccupazione per i civili che vivono vicino le aree del fronte meridionale violate, nei distretti di Hays e ad-Durayhimi, a sud di al-Hudaydah.

Il conflitto si trascina, senza vincitori possibili. D’altronde, quale vittoria immaginare in un Paese che conta 130 mila morti per i combattimenti, in cui i dipendenti pubblici, sanitari compresi, non riescono a ricevere uno stipendio. Secondo l’ONU, le linee del fronte sono passate da 33 a 47 nel solo 2020 e l’insicurezza alimentare acuta colpisce ormai metà degli abitanti.
Le Nazioni Unite stimano che la guerra abbia già causato 233.000 morti, inclusi 131.000 morti per cause indirette come la mancanza di cibo, servizi sanitari e infrastrutture.
I numeri parlano chiaro: 24,3 milioni di persone sopravvivono grazie all’assistenza umanitaria, 3,6 milioni di sfollati interni, 16,2 milioni di persone soffrono di insicurezza alimentare (IPC 3+).

Nena News Agency “YEMEN. Cosa rischia il Paese con le sanzioni USA agli Houthi”

LEFT ‘Yemen, moneta di scambio tra Occidente e Medio Oriente’


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Dicembre 2020 – Una nuova ondata di combattimenti colpisce lo Yemen, con un pesante bilancio tra civili uccisi e feriti. A sud del porto di Hudaydah sul Mar Rosso, una delle aree più intense del conflitto, l’ospedale traumatologico di Medici Senza Frontiere a al-Mokha ha trattato centinaia di feriti di guerra, soprattutto donne e bambini.

Nella città portuale di Hudaydah era in vigore una tregua, raggiunta con fatica grazie all’accordo di Stoccolma del dicembre 2018. I ribelli Houti, gruppo sostenuto dall’Iran, hanno attaccato la zona di al-Durahymi dove sono morti decine di civili, tra i quali bambini. 

Bombardato l’Aden International Airport, nella città meridionale di Aden, unico aeroporto funzionante nell’intera costa ovest yemenita, poco dopo l’arrivo dell’aereo su cui viaggiava il nuovo governo yemenita. Secondo quanto affermato dal ministero dell’Interno dello Yemen, almeno 26 persone sono state uccise nell’esplosione. Più di 110 i feriti. Nell’attacco hanno perso la vita anche tre membri dell’Internation Commitee of the Red Cross. I delegati dell’associazione, un logista, un tecnico di radiologia e un ufficiale sanitario, erano in transito nell’aeroporto di Aden. 

#speakout

Médecins Sans Frontières – ‘Yemen. Civilians wounded and killed in indiscriminate frontline hostilities’

Radio 24 with Katrin Iman Kisswani

Medici Senza Frontiere – ‘Recurring nightmare. Civilians wounded and killed in indiscriminate frontline hostilities in Yemen’

Nena News Agency “YEMEN. Esplosione all’aereoporto di Aden, tra i 26 morti anche membri della Croce Rossa”


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Novembre 2020 – Continuano gli scontri, nonostante gli sforzi delle Nazioni Unite che da sette mesi negoziano il testo della Dichiarazione Congiunta tra huthi e governo riconosciuto che dovrebbe sancire il cessate il fuoco nazionale, un nuovo governo di power-sharing che affronti crisi umanitaria ed economica, e infine il rilancio del processo di pace.

I tassi di malnutrizione acuta tra i bambini sotto i cinque anni sono i più alti mai registrati, in alcune zone dello Yemen, con oltre 500mila casi nei distretti meridionali: lo sottolinea l’ultima analisi della Classificazione Integrata delle Fasi di Sicurezza Alimentare (IPC) sulla malnutrizione acuta, pubblicata oggi da FAO, UNICEF, WFP. L’analisi, che riguarda solo 133 distretti nelle zone meridionali dello Yemen, dove vivono 1,4 milioni di bambini sotto i cinque anni, rivela un aumento di quasi il 10% dei casi di malnutrizione acuta nel 2020. L’aumento maggiore si registra nei casi di bambini piccoli che soffrono di malnutrizione acuta grave, con un aumento del 15,5% nel 2020. In seguito alla diffusione di un nuovo rapporto delle Nazioni Unite sulla malnutrizione nel sud del Paese, l’organizzazione si dice profondamente preoccupata anche per i bambini del nord. In alcune strutture in cui opera Save the Children, il numero di bambini malnutriti che si sono rivolti a cure salvavita è aumentato del 60% tra la fine dello scorso anno e luglio 2020.
Circa l’80% della popolazione, oltre 24 milioni di persone, ha bisogno di una forma di assistenza umanitaria e protezione.

In Yemen, la stabilizzazione economica passa per il rilancio del settore energetico: prima del conflitto civile iniziato nel 2015, l’export di petrolio e gas naturale rappresentava il 63% delle entrate governative e l’89% di quelle derivanti da esportazioni.
Dal 2018, la multinazionale austriaca OMV (Österreichische MineralölVerwaltung) ha ripreso a operare ed è, al momento, l’unica a farlo nel Paese. Nel 2019, l’export petrolifero dello Yemen è salito del 40% rispetto all’anno precedente (55.000 barili di greggio esportati al giorno). Prima destinazione la Cina (29.000 barili in media al giorno dal 2016, estratti in Hadhramawt e in partenza dal terminal di Ash Shihr) e il resto del continente asiatico. Trend che prosegue anche nella prima metà del 2020.
Se per il petrolio vi sono segnali di inatteso risveglio, la ripresa della produzione di gas naturale liquefatto (LNG) è ancora bloccata. Nel novembre 2019, la compagnia francese TOTAL (che partecipa a Yemen-LNG, primo progetto di liquefazione del gas naturale in Yemen, nella città di Belhaf, con una quota del 39,6%) ha dichiarato di non voler riprendere.

#breakingnews #live

Asharq Al-Awsat

Asharq Al-Awsat

24.11.2020 – Un ordigno è esploso sulla strada che collega i distretti di al-Tuhayat e al-Khokha, a sud di Hodeidah. Cinque civili, tra cui un bambino, sono stati uccisi e altri sette feriti. I feriti, in condizioni critiche, sono stati trasferiti nell’ospedale da campo di al-Khokha e da lì nell’ospedale guidato da Medici Senza Frontiere nella città di al-Mokha. Il portavoce ufficiale delle forze di Tareq Saleh presenti a Baha, sulla costa occidentale, il generale di brigata Sadiq Dowaid, ha affermato che mine e IED (improvised explosive device) rappresentano crimini di guerra contro l’umanità.
Sono incrementati i decessi causati da IED nella città di Taizz, 256 km a sud di Sana’a. L’ospedale Al-Thawra, sostenuto da Medici Senza Frontiere, ha accolto una donna e il figlio di quattro anni, rimasti feriti quando una granata ha colpito la loro casa, distruggendola parzialmente, oltre a tre civili feriti nel quartiere residenziale Dabou’a di Taizz.
Le aree settentrionale, orientale e occidentale della città di Taizz sono state testimoni di continui scontri tra le forze governative e gli Houthi per quasi 6 anni.

25.11.2020 – Feriti due bambini da un IED nel villaggio di Mahout Subaie, nel distretto di al-Khokha, a sud di Hodeidah. Trauma addominale per uno di loro e trauma toracico per l’altro, sono stati trasportati nell’ospedale da campo di Al-Khokha prima, e poi nell’ospedale di Medici Senza Frontiere a al-Mokha, in condizioni critiche.

Asharq Al Awsat

Asharq Al-Awsat

29.11.2020 – Sette civili sono stati uccisi e altri dieci feriti in un bombardamento nel villaggio di al-Qaza, nel distretto di ad-Durayhimi, a sud di al-Hudaydah. Un bambino di 11 mesi e una donna di 20 anni sono stati trasferiti in condizioni critiche nell’ospedale guidato da Medici Senza Frontiere, nella città di al-Mokha. Le ostilità nel governatorato di al-Hudaydah sono aumentate negli ultimi mesi. A ottobre, fonti locali hanno confermato un aumento delle vittime civili, con 74 morti e centinaia di feriti.

Due bambini hanno perso la vita dopo un bombardamento che ha preso di mira il quartiere residenziale di al-Mufashq, nella città di Taizz, a sud-ovest dello Yemen. Il al-Thawra General Hospital di Taizz, guidato da Medici Senza Frontiere, ha ricevuto 10 feriti.


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Ottobre 2020 – La difficile situazione in Yemen, compreso il conflitto in corso, i disastri naturali (inondazioni), le malattie diffuse (come colera, morbillo, polio) e la povertà hanno spinto oltre 2 milioni di bambini fuori dalle scuole e messo a rischio 5,8 milioni di bambini iscritti a scuola prima della pandemia di Covid .

Al termine di una settimana di negoziato in Svizzera, il governo yemenita e i ribelli Houthi hanno concordato uno scambio di 1.081 prigionieri. Nell’ambito dell’accordo di pace raggiunto in Svezia nel 2018 sotto gli auspici delle Nazioni Unite, il governo, sostenuto da una coalizione militare guidata dai sauditi, e i ribelli Houthi sostenuti dall’Iran avevano concordato un scambio di circa 15 mila detenuti in totale. Ma finora gli scambi erano stati sporadici. Il rilascio di centinaia di lealisti e ribelli rappresenterebbe il primo scambio su larga scala dall’inizio della guerra.

Secondo il bilancio fornito dalle Nazioni Unite, in occasione del quinto anniversario dell’inizio del conflitto ci sono quasi 250mila morti (di cui circa 100mila come conseguenza diretta dei combattimenti e circa 130mila a causa di fame e malattie acuite dal conflitto). Oltre 20 milioni di persone, circa i due terzi della popolazione, sono ridotte alla fame, con 1,6 milioni di bambini affetti da malnutrizione acuta severa. Su un totale di 30 milioni di abitanti, 24 milioni hanno bisogno di aiuti umanitari.

Secondo Oxfam la drastica riduzione degli aiuti ha interrotto anche il servizio vitale di circa 300 strutture sanitarie. Un fattore grave in un Paese dove gli ospedali sono al collasso per i 150mila nuovi casi di colera dall’inizio dell’anno e le migliaia di casi di Covid-19 registrati in 11 governatorati. Un numero quello ufficiale probabilmente sottostimato, poco più di 2mila contagi e quasi 600 morti, visto il basso numero di test e tamponi effettuati per la pandemia in corso.

European Council on foreign relations “Mapping the Yemen conflict”


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Settembre 2020 – La coalizione a guida saudita ha intensificato gli attacchi contro le postazioni degli Houthi. Secondo Human Rights Watch questi ultimi stanno severamente limitando la fornitura di aiuti urgenti e indispensabili per la popolazione civile. È il destino dello Yemen, dove imperversa una guerra civile sanguinosa, un incubo per milioni di persone che non sembra avere fine, cominciato nel 2015 tra fazioni sunnite e sciite, che si contendono la legittimità del governo, ma che in realtà rappresentano gli interessi di nazioni straniere: il blocco guidato dall’Arabia Saudita, dalle monarchie del Golfo e dagli USA, da un lato, e l’Iran dall’altro.

Il Legal Center for Rights and Development (LCRDye), ha annunciato in un comunicato le nuove statistiche dei crimini dell’Arabia Saudita e dei suoi alleati nella guerra contro lo Yemen. Secondo il rapporto, 16.978 yemeniti hanno perso la vita nei cinque anni di conflitto, inclusi 2.790 bambini e 2.381 donne. Inoltre, la guerra ha ferito 26.203 persone, di cui 4.089 bambini e 2.780 donne. Il documento specifica anche che i bombardamenti della monarchia araba hanno distrutto 9.135 strutture vitali nello Yemen: 565.973 case, 576.528 strutture di servizio pubblico, 176.000 centri universitari, 1.375 moschee, 365 strutture turistiche, 389 ospedali e centri sanitari, 1095 tra scuole e centri educativi, 132 impianti sportivi e 244 siti archeologici e 47 strutture mediatiche.

Dalla fine del 2019, le Nazioni Unite hanno fatto sempre più pressioni sugli Houthi per aiutare le agenzie a svolgere il loro lavoro, il che, a metà del 2020, ha portato gli Houthi a firmare un arretrato di accordi di progetto che professano la non interferenza con l’indipendenza delle agenzie umanitarie.

Human Rights Watch “Deadly consequences. Obstruction of aid in Yemen during Covid-19”


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Agosto 2020 – Aumenta il numero di persone che hanno bisogno di aiuti basilari legati alla diffusione del virus SARS-CoV-2 nello Yemen. Un aereo charter dell’UNICEF è atterrato all’aeroporto di Sana’a con più di 81 tonnellate di forniture salvavita per contribuire a contenere la diffusione dell’infezione nel Paese, oltre tutto colpito da un conflitto, che dura dal 2015 e vede fronteggiarsi le fazioni che dichiarano di costituire il legittimo governo dello Yemen. Sebbene, in realtà, nel Paese sia in atto l’ennesimo conflitto ‘per procura’, che nasconde l’altro grande conflitto tra il blocco sunnita, capeggiato dall’Arabia Saudita e dalle monarchie del Golfo, sostenuto dagli USA, contrapposto al blocco sciita d’ispirazione iraniana.

L’ONU lancia l’allarme sulla situazione umanitaria in Yemen, sottolineando che a causa della mancanza di fondi, molti programmi di assistenza ai civili sono cessati o rischiano di essere ridotti.

Il numero di persone esposte a livelli di insicurezza alimentare acuta, cioè che rientreranno nelle categorie ‘crisi’ o ‘emergenza’ alimentare, entro la fine dell’anno aumenterà vertiginosamente. In pratica, tutti i progressi fatti in campo alimentare in Yemen negli ultimi anni, finalizzati a contrastare gli effetti del conflitto civile, della carestia, dell’epidemia di colera, della penetrazione di diverse organizzazioni terroristiche rischiano di essere vanificati.


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Luglio 2020 – Lo Yemen devastato da anni di guerra civile, fomentata e finanziata dalle potenze regionali, Iran e Arabia Saudita innanzitutto, rischia il collasso economico totale, con più di 2 milioni di bambini ridotti alla fame. I sei anni di conflitto hanno ridotto al minimo le capacità produttive e alimentari di uno dei Paesi più poveri della penisola arabica. Secondo i calcoli delle Nazioni Unite circa l’80% della popolazione conta sugli aiuti esterni.

Ben prima dell’avvento del coronavirus gli yemeniti combattevano già contro epidemie di dengue, malaria e colera. Allo stato attuale, circa la metà dei 3500 presidi sanitari è fuori uso a causa del conflitto e, a causa dell’insicurezza e dei combattimenti, tracciare l’evoluzione del Covid-19 è praticamente impossibile.

La guerra che va avanti da sei anni ha diviso il Paese in una zona a nord, controllata dai miliziani sciiti Houthi sostenuti dall’Iran, e il sud dove è stato trasferito il governo appoggiato dall’Arabia Saudita.

Il numero dei minori di 5 anni che soffrono di malnutrizione potrebbe salire a 2,4 milioni entro la fine dell’anno, avverte l’UNICEF. Il sistema sanitario dello Yemen è già sull’orlo del collasso, circa 7,8 milioni di bambini non vanno a scuola e sono esposti al lavoro minorile, al reclutamento nei gruppi armati.

Il governo yemenita del presidente Abd Rabbu Mansur Hadi e i separatisti del sud sembrano aver raggiunto un accordo per la de-escalation e il cessate il fuoco nella provincia di Abyan. Un conflitto nel conflitto, quello tra esercito e forze speciali filo-governative, sostenute dall’Arabia Saudita, e il Consiglio di transizione meridionale (CTS) appoggiato informalmente dagli Emirati Arabi Uniti, cominciato nel 2018.
Il CTS ha assunto il controllo di Socotra, patrimonio UNESCO per la sua biodiversità, deponendo il governatore e nominando un proprio rappresentante sull’isola. Quello che secondo il governo yemenita è un golpe a pieno titolo è stato condannato anche dalla coalizione saudita.

Médecins Sans Frontières ‘Behind the Conflict in Yemen’


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Giugno 2020 – Il virus SARS-CoV-2 è stato identificato anche in Yemen e il conteggio dei casi è già fuori controllo. L’arrivo della pandemia non ha però fermato la guerra. E i fronti sono tornati due. Nel nord, insorti huthi, governo riconosciuto e bombardamenti sauditi proseguono nello scontro a dispetto del cessate-il-fuoco unilaterale formalmente iniziato dall’Arabia Saudita per limitare l’impatto del coronavirus. Nel sud, si riapre la contesa di Aden fra i secessionisti del Consiglio di Transizione del Sud, informalmente sostenuti dagli Emirati Arabi Uniti e il governo riconosciuto, appoggiato dai sauditi, dopo la dichiarazione di autogoverno pronunciata dal Consiglio di Transizione del Sud.
L’impatto della pandemia da coronavirus in Yemen rischia nelle prossime settimane e mesi di portare il Paese letteralmente sull’orlo del collasso. Potenzialmente devastante l’impatto sanitario: si contano già quasi 524 casi e oltre 127 vittime ad oggi, con il contagio che ufficialmente ha già raggiunto 10 governatorati su 22, ma potrebbe essersi già esteso a quasi tutto il Paese e aumentare esponenzialmente nelle prossime settimane. Ciò a fronte della quasi totale mancanza di test e strumenti di prevenzione non solo tra la popolazione, ma anche nelle poche strutture sanitarie in funzione. Secondo i team di Save the Children, i costi dei dispositivi salvavita come quelli di protezione individuale, le maschere usa e getta e le bombole di ossigeno, sono ormai beni di lusso nello Yemen e questo lascia di fatto milioni di persone esposte al contagio del coronavirus, con pochi mezzi per essere curati o per proteggersi contro la rapida diffusione della pandemia in tutto il Paese.

Le agenzie umanitarie ONU sono in allarme rosso, fanno sapere di avere già tagliato il 75% delle loro attività, che comportano tra l’altro progetti relativi alle distribuzioni di cibo e assistenza medica. I morti per la guerra potrebbero superare quota centomila, i feriti incontrano enormi difficoltà ad ottenere anche le cure più semplici e il colera impazza. L’Organizzazione Mondiale per la Sanità ribadisce che le vittime del virus potrebbero essere migliaia. Ma il fallimento dello Stato centrale impedisce qualsiasi tipo di monitoraggio.

A luglio scorso, a quattro anni dall’inizio della guerra in Yemen, era arrivata la storica decisione, secondo cui il governo italiano sospendeva la vendita di armi all’Arabia Saudita e ai suoi alleati, nel rispetto della legge 185 del 1990, una legge che parla chiaro ‘è vietato l’esportazione e il transito di armamenti (bombe d’aereo e missili) verso paesi in guerra’. È passato meno di un anno da quella decisione, eppure dalla relazione annuale inviata al Parlamento risulta che siano state concesse ulteriori autorizzazioni alla vendita per 195 milioni di euro. Lo denunciano Rete Italiana per il Disarmo e Rete della Pace, sulla base di quanto emerge dalla “Relazione governativa annuale sull’export di armamenti”, appena trasmessa al Parlamento italiano.

Al Jazeera “Is the world abandoning Yemen?”


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Maggio 2020 – Continua la crisi militare e sanitaria in Yemen, uno Stato che ormai da anni vive una perpetua condizione di conflitto, con danni immensi a livello sociale e umanitario. Ad oggi il conflitto rende difficile soccorrere la popolazione civile e il paese, che durante la guerra ha perso metà dei suoi ospedali e ha avuto a più ondate picchi di colera resi ingestibili da una situazione sanitaria al collasso, potrebbe presto ritrovarsi costretto a fronteggiare un’altra emergenza: quella del Covid-19.
Sale intanto il numero dei contagi da coronavirus nella contesa città portuale yemenita di Aden, dove le autorità locali hanno annunciato l’emergenza sanitaria dopo il rilevamento di 35 casi e il decesso finora di quattro persone.

L’arrivo nelle zone di conflitto del Covid-19 ha portato le forze arabe a dichiarare un cessate il fuoco unilaterale l’08 aprile. Tuttavia, gli Houthi accusano le forze arabe di fare semplice propaganda e hanno risposto con una controproposta di non aggressione solo nei confronti delle truppe della coalizione, volendo invece continuare la lotta contro le forze filo-governative di Hadi. L’Arabia, dal canto suo, ha accusato i ribelli di avere violato già diverse volte la tregua e minaccia una rappresaglia.
Il conflitto ha subito una ulteriore complicazione quando le forze della coalizione araba, nell’agosto del 2019, hanno vissuto una separazione interna: una branca di queste ha dato origine al Consiglio di Transizione del Sud (STC), appoggiato dagli Emirati Arabi Uniti come alternativa alla forza principale.

Le armi che Washington ha venduto ad Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, che a loro volta le hanno trasferite ai combattenti legati ad Al Qaeda, alle milizie salafite e ad altre fazioni in guerra nello Yemen, sarebbero finite nelle mani dei guerriglieri di Ansarollah, alleati di Iran e Hezbollah.


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Aprile 2020 – In Yemen è stato accertato il primo caso positivo al test del coronavirus. Si pens ache potrebbero esserci persone contagiate, anche se non confermate. In Yemen esistono solo due centri per l’analisi dei campioni, uno a Sana’a e l’altro ad Aden. In totale sono disponibili appena un centinaio di test. Le autorità sperano di ricevere prossimamente una fornitura dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Venti milioni di persone hanno problemi di approvvigionamento alimentare, 17 milioni hanno bisogno d’aiuto per accedere all’acqua potabile e a condizioni igieniche minime e 19,7 milioni necessitano di assistenza sanitaria. Una diffusione del nuovo coronavirus in Yemen avrebbe conseguenze drammatiche, anche perché secondo il programma per lo sviluppo delle Nazioni Unite le attrezzature mediche sono insufficienti e meno del 50% delle strutture sanitarie funziona a pieno regime.

In tutto il Paese sono stati creati centri per la quarantena, mentre diverse équipe mediche sono state inviate nei punti d’accesso al territorio nazionale per effettuare test. Lo Yemen rimane un Paese di transito per migliaia di migranti provenienti dall’Africa e diretti in Arabia Saudita per lavoro.

A metà marzo il governo yemenita ha deciso di chiudere le scuole per una settimana e cancellare tutti i voli in entrata e in uscita dagli aeroporti del Paese fino alla fine di aprile, compresi i voli umanitari.

All’inizio del mese, l’Arabia Saudita ha annunciato un cessate il fuoco unilaterale per permettere l’avvio di negoziati con i ribelli houthi. Allo stesso tempo, i ribelli hanno presentato un proprio piano di pace in otto punti.
Non è ancora chiaro se l’intenzione delle due parti sia effettivamente quella di fare la pace: le posizioni sono molto distanti e le rispettive richieste non sono cambiate, nonostante il timore di un’epidemia da coronavirus.
Come ampiamente prevedibile, sia ribelli houthi, sia l’Arabia Saudita hanno posto in essere violazioni dell’accordo servendosi sia di missili balistici sia di armi leggere.


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Marzo 2020 – L’arrivo della stagione delle piogge rischia di provocare, nelle prossime settimane, un nuovo picco esponenziale di colera nello Yemen. Dall’inizio dell’anno sono più di 56 mila le persone contagiate e oltre 2,2 milioni dal 2017, mentre nel Paese è sempre più difficile soccorrere la popolazione a causa di una guerra che dura da 5 anni e che ha già fatto 12 mila vittime civili e più di 100 mila in totale. È un Paese frammentato, intere regioni sotto il controllo dello Stato Islamico che fa sentire ancora la sua presenza, assieme ad altre formazioni di Al-Qa’ida.
Il nord del Paese, compresa la capitale Sana’a, è sotto il controllo militare e propagandistico degli Houthi, una fazione sciita-zaydita. A sud, invece, si è asserragliato un comando provvisorio guidato dall’ex presidente Hadi, fuggito in Arabia Saudita e di lì rispedito nella città portuale di Aden, in maniera da poter vantare, per i propri scopi propagandistici, l’esistenza di un governo repubblicano filo sunnita.
Gli Houthi il 10 marzo hanno preso alcune aree strategiche nel governatorato di Marib, adiacente alla capitale Sanaa, dopo importanti battaglie con le forze del governo yemenita.

A causa dei bombardamenti al momento solo il 50% delle strutture sanitarie del Paese è in funzione, anche se con gravi difficoltà, con oltre 4 milioni di bambine e bambini che non possono più studiare perché 2.500 scuole sono state rase al suolo o destinate ad ospitare gli sfollati che continuano a crescere di mese in mese. La stragrande maggioranza della popolazione deve ormai fare i conti ogni giorno con la mancanza di cibo e di accesso ad acqua pulita e cure, in una sfida continua per accedere agli aiuti a causa dei combattimenti in corso.


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Febbraio 2020 – Dopo 3 anni, è stato riaperto ai voli sanitari l’aeroporto di Sana’a. Si riattiva così un collegamento vitale per migliaia di bambini bloccati nello Yemen, senza accesso alle cure salvavita di cui hanno bisogno. Anche se si tratta di un fatto positivo, Save the Children chiede con forza alle parti in causa di riaprire l’aeroporto anche ai voli commerciali, perché possano entrare nel Paese le medicine, la strumentazione medica e gli altri beni indispensabili.

Nel nuovo report “Stop the War on Children – Gender matters”, Save the Children analizza le diverse conseguenze dei conflitti sui minori. Capitolo particolare è dedicato allo Yemen.
Almeno 20 anni, è questo il tempo che servirà, se la guerra dovesse finire oggi, ai bambini nello Yemen per tornare al livello di malnutrizione ‘minore’ fatto registrare prima dell’inizio del conflitto. È un quadro allarmante, quello che emerge dall’ultimo rapporto dell’International Rescue Committee (IRC).
Dal 2015 si calcola che circa 250.000 persone hanno perso la vita per la guerra. Inoltre, stando ai dati ONU, circa 24 milioni di cittadini, ossia otto yemeniti su dieci, hanno bisogno di assistenza umanitaria.

Non si sa ancora quando arriverà effettivamente a Genova la nave ‘Yanbu’ della flotta saudita Bahri, che serve la logistica degli armamenti, in quelli che Amnesty International definisce i conflitti più sanguinari e combattuti fuori da qualsiasi convenzione internazionale. Non solo in Yemen, dove è stato provato come armi italiane, aggirando i controlli, contribuiscano in buona parte al bombardamento dei civili, ma anche alla Siria del Nord e Libia. Eppure, a distanza di quaranta giorni dall’ultima iniziativa pubblica e a quasi un anno dallo sciopero che porto al blocco della ‘nave delle armi’, i lavoratori del porto di Genova continuano a manifestare in nome delle violazioni alla legge 185/90 che vieta il transito di armamenti verso teatri di guerra.


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Gennaio 2020 – Analisti internazionali ed organizzazioni umanitarie stimano che quest’anno il 79% della popolazione yemenita rasenterà la povertà, per un conflitto che finora ha mietuto circa 90mila vittime.
Sono più di 24 milioni gli yemeniti, l’80% della popolazione, che necessitano di assistenza umanitaria. Almeno 18 milioni di persone non hanno accesso ad acqua potabile. Sta crescendo inoltre il numero di sfollati interni, salito a circa 3 milioni. Nel 2019 sono stati registrati 860mila casi di colera. E a causa di questa malattia, sono morte almeno 1000 persone. In questo drammatico contesto si aggiunge un’altra piaga: almeno 78 bambini sotto i 16 anni sono morti a causa della dengue, secondo i report di Save the Children. Le aree più colpite dalla dengue siano quelle di Hodeidah e Aden, con già 52000 casi sospetti.

La recente uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani da parte degli Stati Uniti proietta oggi gli huthi, gli insorti sciiti zaiditi dello Yemen sostenuti dall’Iran, di fronte a uno scomodo bivio politico: vendicare colui che è divenuto, agli occhi di gran parte del mondo sciita, ‘shahid’ Soleimani o, più pragmaticamente, proseguire i colloqui informali con l’Arabia Saudita avviati dopo quasi cinque anni di guerra.

Intanto in Italia, a distanza di qualche mese dalla protesta dello scorso maggio, sui moli genovesi è pronta a scattare una nuova mobilitazione in vista dello scalo già programmato della nave battente bandiera saudita ‘Bahri Yanbu’, la ‘nave delle armi’. La scorsa primavera, infatti, l’arrivo del cargo sotto la Lanterna è diventato un caso internazionale e il blocco attuato da decine di cittadini contrari alla movimentazione di materiale bellico sulle banchine, ha impedito che a bordo dell’unità venissero caricate armi dirette in Arabia Saudita e da lì al conflitto in Yemen.


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Dicembre 2019 – All’inizio di dicembre del 2018, nella capitale svedese Stoccolma veniva siglato l’accordo che si pensava, o sperava, potesse essere l’inizio della fine del conflitto in Yemen. Tra gli impegni sottoscritti dalle parti in guerra, il disarmo del porto di Hodeidah, diventato linea del fronte e principale punto d’ingresso per gli aiuti umanitari e le merci all’interno del Paese. Di lì in poi, l’idea di ridurre progressivamente le aree di crisi, muovendo verso una soluzione politica del conflitto.
Tutto questo non è accaduto, e il 2019 è stato segnato addirittura dall’aggravarsi della crisi interna alla coalizione a guida saudita, con l’avanzata dei separatisti del sud, sostenuti dagli Emirati Arabi Uniti.

Nonostante il cessate il fuoco stabilito con gli accordi di Stoccolma, la città portuale Hodeidah, la principale del Paese, rimane il luogo più letale e pericoloso dello Yemen per migliaia di famiglie innocenti, con un quarto di tutte le vittime civili del Paese nel 2019: 799 tra morti e feriti e il 40% degli oltre 2.100 attacchi sui civili.

Solo nel 2019 si sono registrati 390.000 sfollati. La metà di queste provengono dai 3 governatorati di Hajjah, Hodeidah e Al Dhale’e. Lo Yemen è ormai un paese fantasma con 10 milioni di persone rimaste letteralmente senza cibo sull’orlo della carestia e altre 7 milioni già colpite da grave malnutrizione. In moltissimi non hanno più accesso a ospedali, mercati, acqua potabile.

Dodici agenzie umanitarie, tra cui Oxfam e International Rescue Committee, nella città yemenita di Al-Ḍāli, hanno interrotto i lavori dopo una serie di attacchi ai loro edifici che le Nazioni Unite hanno definito un’allarmante escalation perché uniti a campagne mediatiche contro le organizzazioni umanitarie.

L’Unicef ha segnalato che 2 milioni di bambini ancora non vanno a scuola in Yemen; circa la metà ha abbandonato gli studi dopo l’inizio del conflitto nel 2015.
L’80% della popolazione di 24 milioni di persone nello Yemen affronta una grave carenza di cibo e vive sull’orlo della carestia


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Ottobre/Novembre 2019 – Una guerra civile che dura da quattro anni e mezzo e che ha causato almeno 70.000 morti. La peggiore crisi umanitaria al mondo, con oltre tre milioni di sfollati. Questi i numeri dello Yemen, che ora intravede uno spiraglio di luce sulla strada della pace.
Il governo dello Yemen ha firmato un accordo di pace con un gruppo di ribelli separatisti, Southern Transitional Council (STC), appoggiati dagli Emirati Arabi Uniti, attivi nel sud del Paese. L’accordo, che era stato annunciato tre giorni fa, è stato mediato dall’Arabia Saudita e prevede che la principale città della regione, Aden, torni sotto il controllo del governo centrale, che in cambio garantirà ai ribelli separatisti alcuni ministeri.

Il Southern Transitional Council è stato costituito nel 2017 per iniziativa di 26 esponenti politici del Movimento Separatista Meridionale (al-Hirak al-Janoubi), con l’obiettivo di promuovere la cessazione del conflitto yemenita attraverso una partizione territoriale che riporti lo status quo antecedente al 1990, con due distinte entità nazionali yemenite.
Le milizie dell’STC, denominate Security Belt Forces (SBC, forti di circa 90.000 uomini), avevano occupato la capitale Aden il 28 gennaio del 2018, riuscendo a mantenere il controllo dell’area per alcune settimane, quando una tregua aveva riportato la calma e alla fragile restaurazione del potere del governo unionista guidato da Rabbo Mansour Hadi.
Lo scorso agosto, infine, le milizie dell’STC hanno sferrato un nuovo attacco alla città di Aden, costringendo alla fuga il presidente Hadi ed occupando in breve tempo l’intera capitale. In questa nuova escalation di violenza, ancora una volta, l’ambiguità dei rapporti tra Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti ha giocato un ruolo cruciale, vedendo i due alleati muovere in direzioni diametralmente opposte sul piano delle strategie militari sul terreno.

Il processo di stabilità si dispiega in tre fasi sotto la guida degli Emirati Arabi Uniti.
La prima fase ha visto Abu Dhabi sostenere in modo crescente le forze politiche e militari dello Yemen meridionale favorevoli alla partizione del paese in due distinte entità territoriali.
La seconda fase ha invece riguardato una ridefinizione complessiva del rapporto con la Repubblica Islamica dell’Iran.
La terza fase della strategia emiratina è infine quella di obbligare l’Arabia Saudita a negoziare una soluzione politica tanto con le forze separatiste delle Yemen meridionale quanto con quelle della ribellione Houthi, definendo un contesto entro il quale poter avviare un cessate il fuoco duraturo.


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Settembre 2019 – A seguito di una Mozione votata alla Camera dei Deputati il Governo italiano ha recentemente deciso di sospendere l’esportare di missili, bombe d’aereo e componenti verso l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti applicando per la prima volta una possibilità prevista dalla Legge italiana n. 185/1990 che vieta l’esportazione di armi “verso Paesi in conflitto armato” (in allineamento anche con gli obblighi derivanti dalle norme UE sul controllo delle esportazioni di armi e le prescrizioni contenute nel Trattato internazionale sul Commercio di Armi ratificato all’unanimità dall’Italia).

Il governo tedesco ha approvato ieri la vendita di generatori di batterie per un sistema di difesa antiaerea Patriot agli Emirati Arabi Uniti, un paese membro della coalizione a guida saudita che partecipa alla guerra in Yemen. Questa misura è stata approvata nonostante nel 2017 l’esecutivo della Merkel abbia concordato con il Partito socialdemocratico che la Germania non avrebbe fornito più forniture militari alle nazioni “direttamente” coinvolte in quel conflitto. Tuttavia, finora Berlino ha incassato 200 milioni di euro grazie alla fornitura di componenti militari ad Abu Dhabi.

Spiragli di pace sembrano aprirsi nello Yemen martoriato da quasi quattro anni da una cruenta guerra civile combattuta senza il minimo riguardo per la condizione della popolazione inerme. Delegazioni delle principali fazioni belligeranti si incontreranno nei prossimi giorni a Stoccolma per intavolare un negoziato che possa condurre a una risoluzione pacifica del conflitto, cercando di evitare ulteriori sofferenze per la popolazione yemenita vittima della più grave crisi umanitaria del mondo.

Secondo quanto dichiarato da Save the Children, circa 85.000 mila bambini potrebbero aver perso la vita a causa della fame estrema dall’inizio della guerra.


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Agosto 2019 – Le truppe yemenite filo-saudite sono entrate oggi ad Aden, strategico porto nel sud del paese, da giorni al centro di scontri con le forze separatiste sudiste sostenute dagli Emirati Arabi Uniti. Le forze lealiste yemenite hanno anche preso il controllo dell’aeroporto internazionale di Aden. Nei giorni scorsi le autorità saudite ed emiratine avevano raggiunto un accordo per il ripristino dell’autorità delle forze lealiste nelle regioni di Aden, Abyan e Shabwa.

L’obiettivo dei separatisti è quello di fare di Aden la capitale di uno Stato indipendente dallo Yemen. Fino a pochi giorni fa, il Consiglio era alleato dei miliziani fedeli al presidente Abd Rabbo Mansur Hadi, contro il nemico comune: i ribelli sciiti Huthi. Con l’occupazione del palazzo e il conseguente bombardamento da parte della coalizione guidata dall’Arabia Saudita, si è creata una profonda crepa nell’alleanza sunnita.

Da alcuni mesi ormai le forze armate yemenite hanno intrapreso azioni di rappresaglia nei confronti dell’Arabia Saudita affermando che se l’aggressione saudita fosse continuata, avrebbero attaccato le loro infrastrutture militari e strategiche. La coalizione a guida saudita ha iniziato una guerra contro lo Yemen nel marzo 2015 che ha causato, finora, oltre 91.000 morti nel paese più povero del mondo arabo. Gli attacchi di rappresaglia intrapresi dalle forze armate yemenite hanno tuttavia cambiato l’equilibrio della guerra, importanti centri militari e strategici sono stati presi di mira dai droni e dai missili yemeniti.

L’azienda RWM Italia ha reso nota la sospensione per 18 mesi delle esportazioni di armamenti ad Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti nel rispetto della volontà politica del parlamento e del governo italiano.
Grazie a un accordo, firmato dal movimento Houthi e dalle Nazioni Unite, il Programma Alimentare sarà ripristinato: l’intesa prevede la registrazione in una banca dati biometrica dei civili che necessitano di assistenza per garantire una distribuzione efficace ed efficiente e a beneficio dei più poveri.


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Luglio 2019 – La guerra in Yemen si è trasformata nella peggiore crisi umanitaria del mondo, secondo l’ONU, e la resistenza dei ribelli houthi ha impedito alla coalizione guidata dai sauditi di imporsi e riconsegnare il potere all’ex presidente yemenita Abdel Rabbo Monsour Hadi, costretto a fuggire dalla capitale Sana’a. Da qualche settimana, inoltre, gli Emirati Arabi Uniti, preziosissimi alleati nella guerra contro i ribelli, hanno cominciato a ritirare i loro soldati, lasciando le milizie anti-houthi senza una guida e in balìa delle offensive dei nemici.

La struttura militare dello Yemen è ormai ibrida: ovvero intreccia spezzoni delle forze di sicurezza regolari con milizie locali plasmate, addestrate, equipaggiate e stipendiate, dal 2016, dagli Emirati Arabi Uniti e poi istituzionalizzate nell’esercito regolare yemenita (le Forze d’Elite dell’Hadhramawt e di Shabwa) o sotto il ministero dell’interno del paese (le Security Belt Forces di Aden, Lahj, al-Dhalea e Abyan). Tali ex-milizie, però rispondono di fatto ancora agli Emirati Arabi, non al governo yemenita riconosciuto dalla comunità internazionale, come più volte rilevato anche dal Panel degli Esperti sullo Yemen delle Nazioni Unite.
Questa è forse la principale ragione per cui, a dispetto delle apparenze, l’annuncio del parziale disimpegno emiratino segna un cambio soltanto tattico nella strategia complessiva di Abu Dhabi in Yemen.
Gli EAU si sono ricavati numerose aree di influenza geostrategica in Yemen, come città-porti (come Aden, Mukalla in Hadhramawt) e terminal petroliferi e gasiferi (Bir Ali e Ash Shir, governatorati di Shabwa e Hadhramawt, Balhaf, governatorato di Shabwa), assicurandosi proiezione marittima, commerciale e militare su Mar Rosso meridionale, stretto del Bab el-Mandeb, Corno d’Africa, Golfo di Aden e Oceano Indiano. Sono riusciti a penetrare zone transfrontaliere trasformabili in eccezionali trampolini strategici come Mahra (la regione orientale yemenita al confine con l’Oman) e l’isola di Socotra (yemenita, ma al largo delle coste somale): in entrambi i territori, la guerra e gli huthi non sono mai arrivati, dunque gli EAU hanno qui perseguito logiche di pura proiezione geopolitica.
Secondo gli EAU, il parziale disimpegno è iniziato, consultata l’alleata Arabia Saudita, dopo l’Accordo di Stoccolma siglato nel dicembre 2018, nel quadro della mediazione dell’Onu, fra huthi e governo riconosciuto. Hodeida, la citta sul Mar Rosso porto d’arrivo dell’80% degli aiuti umanitari, è al centro dell’intesa svedese, che prevede cessate il fuoco, ritiro dei belligeranti e poi ridispiegamento delle forze di sicurezza.

Le Nazioni Unite sostengono che lo Yemen stia vivendo quella che attualmente è la peggiore crisi umanitaria del mondo. Le vittime ammontano ad almeno 15 mila morti e 40 mila feriti. Il Programma Alimentare Mondiale riferisce che oltre 20 milioni di persone soffrono di insicurezza alimentare, su un totale di circa 30 milioni di abitanti dello Yemen. Il PAM sta inoltre attuando un programma di alimentazione supplementare per tutti i bambini e le donne incinte o che allattano in 165 distretti prioritari identificati come a rischio di malnutrizione. Sempre secondo l’agenzia ONU si contano 3,6 milioni di sfollati.

Save the Children ha reso noto che più di 190 bambini sono morti a causa dal colera dall’inizio dell’anno e che 9 milioni di minori sono senza accesso all’acqua potabile.

USA e Regno Unito hanno fornito supporto logistico, tecnico e di intelligence alla coalizione saudita. Oltre ad essere i principali fornitori di armi delle forze che sostengono Hadi. I principali, ma non gli unici: anche Germania e Francia hanno siglato accordi per vendere armi all’Arabia Saudita. Nonostante le leggi nazionali vietino le vendite belliche a Paesi coinvolti in conflitti. E la RWM Italia SpA, una sussidiaria della Rheinmetall AG. ECCHR tedesca basata in Sardegna, continua a esportare armi in Arabia Saudita in chiara violazione delle leggi nazionali.


Yemen

Giugno 2019 – La Coalizione militare a guida saudita che combatte gli insorti yemeniti Huthi, gruppo armato sciita zaydita vicino all’Iran, attivo in funzione anti-governativa, ha condotto nuovi raid aerei sulla capitale Sana’a, controllata, appunto, dalle formazioni Huthi.
Negli ultimi 3 anni e mezzo, il conflitto ha provocato oltre 10.000 morti e più di 22 milioni di persone che si trovano in situazioni di estremo bisogno e dipendenti dagli aiuti umanitari.
Gli sfollati sono 3 milioni e 300 mila. Lo scorso anno più di 100 ospedali e scuole sono stati colpiti da azioni di guerra. 600 attacchi al mese riguardano strutture civili. Ci sono 30 fronti di guerra aperti, dove combattono le parti in conflitto: gli insorti Huthi e la coalizione a guida saudita che appoggia le forze leali al governo ufficiale.
Lo scenario sociale vede una economia devastata (-40%), e un aumento del 50% di persone bisognose di assistenza rispetto a prima della guerra. Un quarto dei bambini sono malnutriti, il 40% ha dovuto smettere di andare a scuola. Le precarie condizioni igieniche hanno portato alla diffusione di una epidemia di colera con 364.000 casi sospetti e 639 morti dall’inizio del 2019.

Gli Houthi consentiranno all’ONU di ispezionare le navi che attraccheranno nel porto di Hodeidah. Il gruppo ribelle sciita ha raggiunto un accordo con le Nazioni Unite, dopo essersi ritirato, lo scorso mese, da tre porti del Mar Rosso.

FILT-CGIL, con il sostegno della Camera del lavoro di Genova, ha dichiarato uno sciopero per tutti i lavoratori destinati al materiale bellico sulla nave Bahri Jazan, sorella di quella Bahri Yambu, navi che trasportano materiale bellico verso l’Arabia Saudita, contro tutte le convenzioni internazionali.


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Maggio 2019 – Sono oltre cinquemila i migranti intrappolati nello Yemen, malgrado la sanguinosa guerra che si consuma dal 2015. La maggior parte dei migranti in Yemen provengono dall’Etiopia. Da metà aprile migranti e rifugiati, sono stati fermati dalle autorità yemenite durante il loro passaggio nel Paese, e sono stati poi rinchiusi in centri di detenzione più che improvvisati: in due campi di calcio e in un campo militari a Aden, Abyan e Lahj, nella parte meridionale dello Yemen.

Dopo quattro anni di scontri civili, i report delle Nazioni Unite condannano le “sofferenze inumane” patite dalla popolazione yemenita con decine di migliaia di morti, milioni di scomparsi, epidemie di colera e città con accesso all’acqua un giorno su venti. Dopo il bombardamento dell’unico porto ancora accessibile per l’approvvigionamento di viveri, il Word Food Programme parla di “insicurezza alimentare” che si traduce in 45% del paese malnutrito e 54% che vive in povertà. Dal 2015, tre dei quattro siti yemeniti eletti “Patrimonio UNESCO” (il quarto è un sito naturale) sono passati nella lista dei siti in pericolo che rischiano di essere declassati.

Il quadro che emerge attorno alla vendita di armi all’Arabia Saudita è abbastanza chiaro: la Francia vende licenze alla coalizione che sta flagellando lo Yemen.
Al Qatar, la Francia ha venduto licenze ML10 (aeromobili e velivoli senza pilota) per 6,097 miliardi di euro (l’80,10% del totale di importazioni qatariote). Alla Turchia, oltre agli agenti chimici e biologi tossici (ML7), vengono vendute licenze di corazzature ed equipaggiamenti (ML13) per 112,595 milioni ed apparecchiature per la visione di immagini o di contromisura (ML15) per 115,86 milioni.
Gli Emirati Arabi Uniti hanno versato nelle casse francesi 5,287 miliardi di euro di cui: il 15% per apparecchiature elettroniche e droni, il 16,93% per marchingegni di direzione del tiro ed allineamento, il 13,07% per aeromobili ed il 10,97% per bombe, siluri e razzi.
Almeno 16.000 morti, 3.6 milioni di sfollati e 150.000 famiglie senza casa nel 2018: futuri migranti generati con la complicità della Francia, futuri migranti che la Francia respingerà.

La nave cargo battente bandiera della Saudi Arabia Bahri Yambu è attraccata a Genova. Intorno all’imbarcazione è scoppiato un vero e proprio caso internazionale, iniziato quando i portuali francesi a le Havre hanno caricato cannoni Caesar diretti a Gedda e da lì al conflitto in Yemen. Scattato il boicottaggio internazionale.

L’annuncio è arrivato ieri per bocca della missione Onu in Yemen: i ribelli Houthi hanno accettato di ritirarsi unilateralmente da tre porti yemeniti al fine di sostenere il processo di pacificazione interno. Il movimento Ansar Allah, espressione politica della minoranza, lascerà le città portuali e gli scali di Hodeidah, Saleef e Ras Isa, sul Mar Rosso.


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Aprile 2019 – Molte donne con complicanze durante il parto e genitori di bambini malati in Yemen non possono raggiungere in modo sicuro e tempestivo le cure di cui hanno bisogno, spesso con conseguenze letali. È la drammatica situazione fotografata nel nuovo rapporto di Medici Senza Frontiere dal Paese, devastato da quattro anni di guerra.

Le parti in conflitto e i loro alleati internazionali hanno provocato il collasso del sistema sanitario pubblico nel paese, che non riesce a soddisfare i bisogni di 28 milioni di yemeniti. Non a caso, l’alto numero di decessi di bambini e neonati è in gran parte legato a fattori causati direttamente dal conflitto: la scarsità di strutture sanitarie funzionanti, le difficoltà delle persone nel raggiungerle, l’impossibilità di soluzioni alternative.

Più di 100 mila casi sospetti di colera sono stati registrati, dall’inizio dell’anno in Yemen, tra i bambini di età inferiore ai 15 anni, più del doppio rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Lo denuncia l’organizzazione non governativa Save the Children.
La mancanza di carburante e l’aumento del prezzo di quest’ultimo stanno mettendo a dura prova la capacità di funzionamento dei sistemi fognari, di fornitura di acqua pulita e di raccolta dei rifiuti.

Il presidente USA Donald Trump ha posto il veto a una risoluzione proposta dal Congresso per porre fine al sostegno americano alla coalizione araba in Yemen. Protezione di 80.000 americani residenti negli stati della coalizione, lotta al terrorismo e contenimento dell’Iran (che supporta le milizie anti governative) nella penisola araba sarebbero le ragioni principali della sua decisione.
È dall’inizio della guerra che gli Stati Uniti forniscono materiale bellico e servizi logistici all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti; i due appoggiano militarmente il presidente yemenita Mansur Hadi, impegnato dal 2015 in un conflitto contro la fazione anti governativa degli Huti.


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Marzo 2019 – Lo Yemen è da sempre il paese più povero del Medio Oriente e i livelli di povertà, e tra questi contiamo anche quelli di malnutrizione, erano già allarmanti prima del conflitto scoppiato quattro anni fa, alla fine di marzo 2015. Da allora la situazione alimentare del paese è andata via via aggravandosi, in diverse modalità: dall’aumento dell’insicurezza alimentare all’insorgere di malattie al collasso del sistema sanitario, aggravato da un’alta inflazione e dal rapido declino dell’economia della regione. Oggi purtroppo lo Yemen è più vicino alla carestia che non mai. La vita di 15,9 milioni di persone è caratterizzata da gravi insicurezze alimentari, e tra questi contiamo 7 milioni di persone malnutrite. Le stime attuali ci dicono che quasi 250mila yemeniti, pari all’1 per cento della popolazione, vivono in condizioni vicine alla carestia.

Dall’escalation del conflitto nel 2015, i bisogni umanitari sono aumentati drasticamente. Oggi, quasi l’80% della popolazione richiede una qualche forma di assistenza umanitaria. Quando parliamo di Yemen, parliamo di un Paese che ha 24,4 milioni di persone che necessitano di aiuti umanitari.

Il numero di sfollati ha raggiunto i 3,3 milioni. In tutto il Paese, 16 milioni di persone hanno bisogno dell’assistenza sanitaria, idrica e igienica, il 50% delle strutture sanitarie sono chiuse e più del 70% non dispone di forniture regolari dei medicinali essenziali.
Gli yemeniti non hanno più accesso ad un’adeguata assistenza sanitaria, al cibo, all’acqua potabile sicura, mentre gli operatori umanitari non riescono a intervenire sulla scala dei bisogni.

È stato nel marzo 2015 che ha preso il via l’operazione ‘Asifat al Azm’ (tempesta decisiva, in arabo), la campagna di bombardamenti aerei sullo Yemen, guidata dall’Arabia Saudita al fine di restaurare il governo defenestrato di Abd Rabbo Mansour Hadi. Finora sono stati circa 18 mila i raid aerei condotti da Riad e i suoi alleati – una serie di Paesi arabi e africani tra cui Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Giordania, Egitto e altri, col sostegno logistico degli Stati Uniti – nelle aree controllate dagli Houthi, che l’Arabia saudita considera strumenti dell’espansionismo iraniano nella regione.


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Febbraio 2019 – A quasi quattro anni dall’inizio dell’escalation del conflitto, gli ostacoli posti alla distribuzione di cibo e medicine da tutte le parti in causa hanno portato la crisi a un punto di non ritorno con più di 5 milioni di bambini costretti ad affrontare la quotidiana carenza di cibo: 1 su 2 soffre di malnutrizione cronica.
Quelli che sopravvivono sono invece destinati a altri orrori. Le milizie anti governative li rapiscono e li arruolano come bambini soldato. Dall’inizio degli scontri almeno 23mila minori, di cui 2.500 solo nel 2018, sono stati costretti a combattere in Yemen.
Un’intera generazione spezzata: oltre quattro milioni e mezzo di bambini non vanno più a scuola, non ci sono istituti scolastici e insegnanti in grado di portare avanti programmi didattici: 2.375 scuole sono state distrutte e 1.500 requisite dai ribelli o dai militari.
Secondo l’ultimo rapporto di Save the Children nel conflitto yemenita sono morti o sono rimasti feriti circa 6.500 bambini.

In Yemen almeno 24 milioni di persone, l’80% della popolazione, ha bisogno di assistenza e protezione. Almeno due milioni sono al limite della sopravvivenza e hanno bisogno immediato di aiuti salvavita e 10 milioni sono a un passo dalla fame.
Nonostante le organizzazioni e le agenzie delle Nazioni Unite impegnate sul campo stiano lavorando giorno e notte, tra innumerevoli difficoltà, per garantire al popolo yemenita il supporto e l’assistenza di cui hanno bisogno la situazione resta drammatica.
Le Nazioni Unite hanno stimato in 4,3 miliardi di dollari i fondi necessari a finanziare i programmi di aiuti umanitari nel 2019.

Intanto il Marocco esce di fatto dalla coalizione saudita anti-houthi. Il ministro degli esteri marocchino Nasser Bourita ha spiegato che la decisione di ritirarsi dallo Yemen dipende dagli sviluppi avvenuti sul terreno yemenita e soprattutto per la situazione umanitaria.


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Gennaio 2019 – Nel sudovest dello Yemen sono state sparse migliaia di mine sulle strade e nei campi, per impedire l’avanzata delle truppe di terra sostenute dalla coalizione guidata dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi, che stanno combattendo contro le truppe degli Huthi.

Gli ordigni esplosivi hanno iniziato a mietere le prime vittime: si tratta soprattutto di civili: uccisi, amputati, mutilati.

A causa della brutale guerra che da 4 anni sta sconvolgendo lo Yemen, un milione e mezzo di bambini sono stati costretti a lasciare la propria casa, esponendosi a rischi gravissimi come fame, malattie e violenza, secondo Save The Children.
Circa 1,1 milioni di donne in gravidanza o in fase di allattamento e 1,8 milioni di bambini sono malnutriti.
Tutti i bambini malnutriti che sopravvivono, soffriranno di vari livelli di incapacità fisica e intellettuale per tutta la vita, questo a causa della malnutrizione precoce dovuta alla guerra. Più di 6.700 bambini sono stati uccisi o gravemente feriti, mentre si stima che 85.000 bambini, direttamente o indirettamente siano morti di fame.

A meno di un mese dalla firma dell’accordo di Stoccolma tra il movimento Huthi e il Governo, riconosciuto a livello internazionale, del presidente deposto Hadi, cresce la preoccupazione per l’attuazione concreta di quanto da esso previsto.
A seguito di ulteriori pressioni sulla coalizione, comprese le discussioni tra il Segretario Generale delle Nazioni Unite Guterres e Moḥammad bin Salmān Āl Saʿūd durante il summit argentino del G20, un incontro sponsorizzato dall’ONU si è svolto all’inizio di dicembre in Svezia tra gli emissari Huthi e quelli del Governo di Hadi.
Durato una settimana, con l’ulteriore pressione della presenza di Guterres stesso nell’ultimo giorno dell’incontro, le parti hanno firmato quello che è ufficialmente chiamato l’accordo di Stoccolma, composto da 3 sezioni: la prima una dichiarazione generale, la seconda un breve impegno a formare un comitato per discutere la situazione a Taiz e la terza riguardante il governatorato di Hodeida e l’accesso dei beni di prima necessità nel Paese attraverso i porti del Mar Rosso.


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Dicembre 2018 – Venti milioni di yemeniti, dopo quattro anni di guerra, soffrono la fame. Non perché il cibo non ci sia, ma perché l’inflazione dovuta alla guerra ha raggiunto livelli esasperanti per due terzi della popolazione, che non può permettersi di sfamare i propri figli.
Una guerra dimenticata, quella in Yemen, eppure definita dall’Onu come la peggiore crisi umanitaria dell’era moderna: di questi 20 milioni, 65mila sono in condizioni di povertà assoluta e 85mila è il numero dei bambini sotto i cinque anni morti di fame in quattro anni.
Una strage di innocenti in una guerra che ha il suo responsabile nel modo vergognoso in cui il principe saudita Mohammed bin Salman, indicato dalla Cia tra l’altro come mandante dell’omicidio del giornalista progressista Jamal Ahmad Khashoggi, sta conducendo la sua battaglia contro i ribelli iraniani.
La conseguenza è che i prezzi dei beni di prima necessità sono aumentati del 137% e la coalizione saudita ha imposto al governo dello Yemen, totalmente incapace di reagire alla situazione, delle restrizioni sull’importazione di beni, tra cui cibo, medicina e carburante.

I ribelli houthi e il governo yemenita sostenuto dalla coalizione a guida saudita hanno raggiunto l’accordo per il cessate il fuoco nella provincia di Hodeidah e per il ritiro dal porto della città. Nonostante il cessate il fuoco e il ritiro delle forze dalla città e dal porto di Hodeidah, concordati in Svezia la settimana scorsa, continuano gli scontri e i bombardamenti in tutto il Paese, rendendo sempre più difficile far arrivare gli aiuti necessari alla popolazione.

L’inizio della guerra è avvenuto in un ambiente che l’ha favorita. L’amministrazione Obama avrebbe potuto essere un efficace arbitro del conflitto, ma la necessità di calmare i paesi del Golfo suoi alleati – in particolare l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi – mentre stava negoziando un accordo sul nucleare con l’Iran, l’ha portata alla campagna contro gli Huthi, condotta sotto l’egida saudita. Ha sostenuto la Risoluzione 2216 del Consiglio di Sicurezza, profondamente di parte e inutile che, invece di richiedere una fine negoziata della guerra, ha fissato dei termini che chiedevano agli Huthi una resa totale.
Se gli Stati Uniti hanno reso possibile un’escalation della guerra, soltanto la loro volontà di creare un ambiente riconducibile a negoziati politici avrebbe potuto contribuire ad abbassare la tensione. Alla fine del 2018, questo è diventato possibile quando è cambiata l’atmosfera a Washington, dovuto a due fattori principali. Uno dei fattori è stato l’omicidio del giornalista saudita Jamal Khashoggi a Istanbul per mano dei sauditi a inizio ottobre, e la dissimulazione saudita relativamente alla responsabilità di quest’azione. Il secondo è stato l’impatto cumulativo di una crisi umanitaria che è cresciuta e ha messo la metà della popolazione yemenita nel pericolo imminente di una carestia, mentre migliaia sono già morti di fame e a causa di malattie.
Un’azione bipartisan del Congresso statunitense ha spinto l’amministrazione Trump a frenare il conflitto condotto dai sauditi. Alla fine del 2018, questo ha permesso negoziati diretti in Svezia, sotto l’egida delle Nazioni Unite, tra i rappresentanti del governo di Hadi e gli Huthi.


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Novembre 2018 – Il numero ufficiale delle vittime è fermo a diecimila dall’agosto 2016, organizzazioni indipendenti parlano di oltre 57.000 morti. Tre milioni di profughi interni, 22 milioni di persone la cui sopravvivenza dipende dall’assistenza umanitaria salva-vita e 16 milioni prive di accesso sicuro all’acqua potabile e a un’assistenza sanitaria adeguata, due milioni di bambini malnutriti e 450mila considerati gravemente malati.

Cessate il fuoco temporaneo in Yemen protagonista di un conflitto sanguinario negli ultimi tre anni che vede la coalizione guidata dai sauditi e appoggiata militarmente dagli Usa contro i ribelli sciiti sostenuti dall’Iran.

In poco più di tre anni di guerra, nello Yemen potrebbero essere morti di malnutrizione circa 85mila bambini sotto i cinque anni di età. La denuncia arriva da Save the Children. Quello della scarsa quantità di cibo è il più grave tra i problemi che in questo momento lo Yemen si trova ad affrontare, un rischio carestia che coinvolge 14 milioni di persone, un numero salito vertiginosamente dopo un assedio durato un mese intero e operato l’anno scorso dalla coalizione guidata da Arabia Saudita ed Emirati Arabi. Da allora la quantità di cibo che riesce a giungere nel porto di Hodeidah non supera le 55mila tonnellate mensili, una quantità di cibo utile appena a soddisfare i bisogni del 16% della popolazione.

L’inviato dell’Onu, Martin Griffiths, ha annunciato che il governo dello Yemen e i ribelli sciiti Houthi hanno raggiunto un accordo per avviare colloqui di pace in Svezia, finalizzati a porre fine alla guerra in atto da tre anni che ha gettato il più povero tra i Paesi arabi in un disastro umanitario.

L’Ufficio SUAP di Iglesias, in Sardegna, ha pubblicato il provvedimento che consente ad RWM Italia S.p.A. di realizzare, in località San Marco, due nuovi reparti di produzione che le permetteranno di triplicare l’attuale produzione di bombe per aereo. Cioè di passare dalle 5/8.000 bombe prodotte annualmente ad oltre 20.000 ordigni.


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Ottobre 2018 – L’economia al collasso e il crollo della moneta mettono a rischio la vita di migliaia di bambini nello Yemen, dove continua ad infuriare un sanguinoso conflitto che colpisce soprattutto i civili. La denuncia arriva da Save the Children.
Otto milioni di persone sono già sull’orlo della carestia e la situazione sta precipitando a causa dell’aumento del prezzo del cibo, cresciuto di un terzo nell’ultimo anno.
Come capita spesso nei conflitti, a pagare il conto più caro e a morire per fame sono i bambini malnutriti. Quasi mai riescono a sottrarsi a questo killer silente e devastante: in Yemen, la malnutrizione è la principale causa di morte dei minori sotto i 5 anni.

Il conflitto in Yemen fa parte del millenario conflitto politico-religioso tra sciiti e sunniti. L’Iran ha lanciato varie operazioni nei paesi a maggioranza sunnita. In risposta a tali attacchi, le monarchie sunnite e i loro alleati hanno reagito intervenendo in vari paesi e scontrandosi a viso aperto nello Yemen. Proprio qui, uno degli attori è al-Qaeda, di ispirazione sunnita ma nemica delle monarchie. Il quadro attuale ha subito un mutamento rispetto alle prime fasi del conflitto. Da una parte abbiamo un gruppo guidato dalle tribù sciite houthi, sostenute in maniera massiccia dall’Iran, in lotta, dall’altra parte, contro la componente sunnita, appoggiata da molti paesi, ad iniziare dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi; tutto questo mentre gli Stati Uniti continuano a colpire le cellule jihadiste molto attive nel Paese.

L’attacco finale alle posizioni Houthi è partito lo scorso giugno, appoggiato anche dall’aria (con elicotteri d’attacco AH-64D APACHE e velivoli ad ala fissa) e dal mare, da cui giungevano anche i rifornimenti, partiti dal porto eritreo di Assab. Il recente fallimento dell’ultimo tentativo di risolvere la crisi in Yemen attraverso la via negoziale riapre la possibilità di una nuova escalation del conflitto. Dopo aver acconsentito, nel mese di giugno, a mettere in pausa l’offensiva su Hodeida, in parte per favorire i negoziati, in parte per raggruppare e riorganizzare le forze, gli Emirati Arabi Uniti (EAU) segnalano ora l’intenzione di riprendere la battaglia per la piccola città yemenita, porto strategico sul Mar Rosso.

Senza lo stop ai raid della coalizione coinvolta nel conflitto yemenita, guidata dall’Arabia Saudita, oltre 13 milioni di persone saranno destinate alla fame fino alla fine dell’anno. A lanciare l’allarme sono state le Nazioni Unite attraverso un rapporto, che ha definito quella che si sta approssimando come la ‘peggiore crisi alimentare a livello mondiale dell’ultimo secolo’.

Un’intera generazione bruciata. Oltre 4 milioni e mezzo di bambini non vanno più a scuola. Non ci sono istituti scolastici e insegnanti in grado di portare avanti programmi didattici: 2.375 scuole sono state distrutte e 1.500 requisite dai ribelli o dai militari.
Il fallimento dei colloqui di Ginevra, convocati per inizio settembre ma falliti ancora prima di cominciare per via della mancata partecipazione degli Houthi, e la decisione lo scorso settembre del segretario di Stato USA Mike Pompeo di certificare la prosecuzione della vendita di armi a Arabia Saudita e Emirati, rendono l’offensiva ormai inevitabile.

La battaglia per Hodeida si preannuncia come foriera dell’ennesima ecatombe di una guerra civile che dal suo inizio 4 anni fa ha già causato più di 15.000 vittime. Dalla città, in cui vivono almeno 600.000 persone, transita circa il 70% delle importazioni alimentari nel Paese. Il suo assedio significherebbe il blocco dei rifornimenti alimentari e umanitari a un Paese già messo in ginocchio dalla guerra e dall’epidemia di colera.


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Settembre 2018 – Secondo le Nazioni Unite tra il 26 marzo 2015 e il 9 agosto di quest’anno sono state ben 17.062 le vittime civili, tra cui oltre 10.400 mila causate dagli attacchi aerei della Coalizione a guida saudita.

La delegazione del governo yemenita ha lasciato Ginevra, sabato, dopo il fallimento dei negoziati di pace con i ribelli mediati dall’ONU. La delegazione ha deciso di tornare a casa dopo che i colloqui erano stati sospesi per tre giorni. La delegazione dei ribelli Houthi aveva rifiutato di partecipare fino a quando le Nazioni Unite non avessero soddisfatto alcune richieste, tra cui la garanzia che sarebbero stati in grado di tornare successivamente nella capitale yemenita Sanaa.
Le Nazioni Unite portano avanti un piano di pace che prevede un governo di coalizione tra gli Houthi sostenuti dall’Iran e l’esecutivo riconosciuto a livello internazionale e appoggiato dalla coalizione araba sunnita a guida saudita.

Denunciano le ONG che nel solo mesi di agosto, quasi mille persone (tra queste almeno 300 minori) sono state uccise nei combattimenti e nei bombardamenti aerei della coalizione a guida saudita.

Nel frattempo i combattimenti a sud di Hodeidah non si fermano e al momento sono concentrati nella città di Ad Durayhimi. Si combatte nelle zone residenziali, sotto il fuoco incessante degli attacchi aerei, mentre le vittime tra i civili rimasti intrappolati in città continuano ad aumentare, e la popolazione resta senza la minima possibilità di fuggire o ottenere assistenza medica. Una situazione di guerra aperta che non si sta limitando all’area della città portuale di Hodeidah: si continua a combattere anche a Lahj, Al Baydah, Sa’daa, Hajaah, Taiz e in diverse altre zone del Paese.


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Agosto 2018 – L’asse tra Italia ed Emirati Arabi Uniti è sempre più forte e a pagarne le conseguenze è lo Yemen. Il Paese della penisola araba è al centro di un conflitto armato con gli EAU, scaturito dopo la guerra civile scoppiata nel 2015. Un rapporto teso a suon di bombe, con un assedio da parte di nove paesi guidati dall’Arabia Saudita nei confronti dei ribelli sciiti che dal 2015 controllano la capitale Sana’a. L’Italia si è resa parte attiva di questo conflitto, appoggiando la coalizione araba rifornendo l’esercito di armamenti. In ballo, oltre al rapporto militare con in Paesi arabi, c’è anche la ratifica degli accordi tra l’Italia e gli Emirati Arabi sull’estradizione.

L’Arabia Saudita ha dichiarato di aver raggiunto vittorie decisive nello Yemen, espellendo i membri del gruppo terroristico Al-Qaeda nella penisola arabica, AQAP dalle sue roccaforti, attraverso la realizzazione di accordi con i combattenti del gruppo terrorista, pagando i suoi membri per lasciare le città chiave dello Yemen.

A causa dei continui bombardamenti contro il governatorato di Sa’ada, roccaforte dei ribelli sciiti houthi nel Nord dello Yemen, il personale sanitario non riesce a curare nemmeno i pazienti a rischio della vita. In Yemen oltre 22,2 milioni di persone (il 75% della popolazione, tra cui 11,3 milioni di bambini) sopravvivono solo grazie agli aiuti umanitari, a causa di un conflitto feroce tra le truppe governative appoggiate dalla coalizione guidata dall’Arabia Saudita e i ribelli sciiti della tribù houthi sostenuti dall’Iran.

2.400 bambini uccisi e altri 10.000 morti per mancanza cure. Già prima la situazione nel Paese era molto precaria, con l’80% dei bambini che avevano bisogno di aiuti umanitari. Da marzo 2015 ad oggi i bambini uccisi sono stati 2.400, almeno 3.500 feriti e altri 10.000 sotto i 5 anni sono morti a causa della mancanza di cure mediche. 270 di questi incidenti sono stati provocati da attacchi alle scuole, 233 scuole sono state totalmente distrutte dai bombardamenti aerei. Oltre alle scuole vengono attaccati ospedali, infrastrutture idriche, impianti per l’acqua potabile, centri igienico-sanitari. Oltre ai bambini uccisi, 3.652 hanno subito amputazioni, 2.635 bambini soldato combattono in entrambi gli schieramenti. Tra i circa 2 milioni di sfollati interni oltre 1 milione sono bambini. 4,1 milioni non possono andare a scuola, 1,8 milioni sono gravemente malnutriti. Tra i 16 milioni di yemeniti che non hanno accesso ad acqua e servizi sanitari almeno 8,6 milioni sono bambini, tra cui 1,8 milioni rischiano patologie gastrointestinali.

Il 6 settembre inizieranno a Ginevra i colloqui di pace sul conflitto in Yemen.


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Luglio 2018 – Secondo l’ONU almeno 22,2 milioni di persone hanno bisogno di aiuti alimentari in Yemen, e 8,4 milioni sono minacciati da una grave insicurezza alimentare. Il colera ha infettato 1,1 milioni di persone da aprile 2017, costituendo il peggior focolaio mondiale, e la difterite è tornata nel Paese per la prima volta dal 1982. L’UNICEF ha fatto sapere che negli ultimi 13 mesi il numero di morti dovuti all’epidemia di colera ha superato i 2.300.

La guerra nel Paese arabo ha visto una nuova escalation in seguito all’offensiva lanciata sulla città di Hodeidah, l’unico porto rimasto in mano ai miliziani sciiti filo-iraniani houthi, la cui caduta potrebbe determinare il crollo del fronte ribelle. Un conflitto che ha ricadute dirette sui flussi migratori in Europa. L’instabilità, infatti, ha spinto i trafficanti a puntare principalmente sulla rotta europea. Intanto proseguono i bombardamenti, in grande misura sostenuti dalle esportazioni di bombe aeree italiane acquistate dalla coalizione saudita che bersagli le province degli houthi.

I conflitti e le incertezze in tutto il quadrante hanno permesso di moltiplicare le vie delle migrazioni che, specie dopo gli accordi dell’Italia e dell’UE con la Libia, hanno trovato nuove strade.

Il Primo ministro dello Yemen, Ahmed Obeid bin Daghr, ha dichiarato che i negoziati per raggiungere una soluzione al conflitto in Yemen potranno riprendere solo dopo che le milizie Houthi avranno rilasciato tutti i prigionieri.


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Giugno 2018 – La coalizione araba guidata dai sauditi che sostiene il governo yemenita ha lanciato all’alba l’attacco alla città portuale di Hodeida, sulla costa est dello Yemen, roccaforte dei ribelli sciiti Huthi, vicini all’Iran. Le forze della coalizione hanno bombardato le postazioni dei guerriglieri sciiti, da terra e dal mare, dopo che i ribelli Houthi si sono rifiutati di ritirarsi dalla zona del porto. La battaglia si annuncia la più sanguinosa di una guerra che in oltre tre anni ha raso al suolo lo Yemen: a Hodeidah ci sono ancora circa 700 mila abitanti che rischiano di rimanere intrappolati: l’UNICEF avverte che fra centro e periferia sono presenti almeno 300 mila bambini, già in serie difficoltà per la mancanza di cibo, acqua e farmaci.

L’ONU aveva tentato una mediazione per evitare l’assalto. L’inviato Martin Griffiths aveva proposto di mettere il porto sotto ‘controllo neutrale’ e usarlo solo per aiuti umanitari ma la mediazione è fallita. Il porto è la principale via di accesso degli aiuti umanitari alla popolazione yemenita, che da anni si trova in condizioni di assoluta emergenza.

Su una popolazione di 29 milioni di persone, più di 22 hanno bisogno di assistenza umanitaria e di questi 11,3 si trovano in condizione di grave bisogno. In Yemen ci sono 17,8 milioni di persone che soffrono di insicurezza alimentare.
Oltre 16 milioni di persone nel paese devono sopravvivere con acqua sporca e, con metà delle strutture sanitarie distrutte, buona parte della popolazione non ha accesso ai servizi sanitari di base. Un dato che ha contribuito all’esplosione della più grave epidemia di colera della storia recente che, dopo aver contagiato oltre 1,1 milioni di persone e causato 2.200 vittime, continua a diffondersi tra la popolazione.


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Maggio 2018 – Un orrore senza fine di cui noi italiani, con le nostre bombe, siamo direttamente responsabili. E forse, anche per questo, i media mainstream non ne parlano. In Yemen si sta compiendo il massacro di un intero popolo che non ha alcuna possibilità di salvezza tra i raid aerei della coalizione internazionale guidata dall’Arabia Saudita e gli scontri tra esercito yemenita e i ribelli Houthi. Se persino l’Unione Europea mette in guardia dall’escalation in corso nel paese è facile capire che siano stati toccati i livelli massimi del conflitto e della violenza. Il portavoce del servizio esterno dell’UE ha ricordato come nelle scorse settimane sia stato registrato un drammatico aggravamento della situazione, con l’incremento delle ostilità che ha provocato centinaia di vittime in poche ore e la distruzione di infrastrutture civili.

La crisi finora ha avuto un impatto devastante soprattutto sulla vita dei minori: il tasso di mortalità infantile è salito di sei volte rispetto ai dati del 2014, mentre il numero di bambini soldato reclutati dalle milizie è cresciuto di almeno cinque volte. La coalizione guidata dai sauditi è responsabile del 60% delle morti e delle mutilazioni di bambini avvenute dal 2015 a oggi. L’alto numero di piccoli rimasti uccisi finora non è l’unico dato che desta preoccupazione e indignazione. Non va sottovalutata la piaga del reclutamento di minori. Sono migliaia. Circa il 72%, come rileva UNICEF impegnata da anni sul campo, sono attribuiti ai ribelli sciiti Houthi, il 15% alle forze filo governative e il 9% a ‘Al Qaeda nella Penisola Arabica’.

Secondo i dati forniti dalle Nazioni Unite, dall’inizio dell’operazione militare lanciata nel marzo 2015 e guidata da Riad a sostegno del governo del presidente yemenita Abd Rabbo Mansour Hadi, almeno 20mila sono rimaste uccise e circa l’85% della popolazione versa in condizioni critiche e necessita di aiuti umanitari.

Nello Yemen mezzo milione di persone devono essere vaccinate contro il colera prima dell’arrivo della stagione delle piogge, periodo a rischio che potrebbe peggiorare il numero di contagi. L’OMS ha lanciato una vaccinazione di massa insieme all’UNICEF e a Gavi Alliance, partnership di soggetti pubblici e privati che mira a migliorare l’accesso ai vaccini nei paesi poveri. Nei primi 3 giorni della campagna sono stati somministrate più di 124.000 dosi in 4 distretti del Paese.


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Aprile 2018 – Dalla notte tra il 25 e il 26 marzo 2015, quando gli aerei della coalizione saudita hanno bombardato per la prima volta le postazioni degli Huthi, la crisi in Yemen ha portato all’uccisione di oltre 5900 civili, mentre sono almeno 9400 i feriti. Secondo i dati riportati da Amnesty International sarebbero circa 3 milioni gli sfollati a seguito dei combattimenti, e 22,2 milioni gli individui che necessitano di assistenza umanitaria; 17,8 milioni di yemeniti sono a rischio malnutrizione, mentre il virus del colera, dopo aver già infettato un milione di bambini nel corso del 2017, rischia di scatenare una nuova epidemia nelle prossime settimane, per la mancanza di accesso a risorse idriche e a misure di profilassi.
La maggioranza delle vittime civili sarebbero state causate, secondo l’ONU, dagli attacchi aerei della coalizione, che comprende oltre all’Arabia Saudita anche gli Emirati Arabi Uniti, il Qatar, il Kuwait, il Bahrein, l’Egitto, la Giordania, Marocco, Senegal e Sudan. Non sembra che i principi di proporzionalità e di precauzione del diritto internazionale umanitario abbiano influito molto sulla gestione delle operazioni aeree.

Intervenendo al Consiglio di sicurezza dell’ONU, Martin Griffiths, l’inviato speciale del segretario generale della Nazioni Unite per lo Yemen, si è detto convinto che è possibile una soluzione politica alla guerra, ma anche preoccupato per l’aumento del numero dei missili lanciati verso l’Arabia Saudita dagli Huthi sciiti al potere a Sana’a.
Lo Yemen resta una delle attuali peggiori crisi umanitarie, i tre quarti della popolazione, cioè più di 22 milioni di persone, hanno bisogno urgente di aiuto umanitario, compresi 8.4 milioni di persone che faticano a trovare il loro prossimo pasto.

L’UNHCR guarda con estrema preoccupazione l’ulteriore peggioramento della situazione dei rifugiati, richiedenti asilo e migranti in Yemen. Il perdurare del conflitto, il deterioramento delle condizioni economiche e l’aumento della criminalità stanno esponendo le persone a pericoli e sfruttamento. A causa del prolungato conflitto e del clima di insicurezza che minacciano le istituzioni e indeboliscono lo stato di diritto, sono in aumento i resoconti di estorsioni, contrabbandi ed espulsioni.

L’Italia è colpevole di crimini di guerra in Yemen, in combutta con la fabbrica di Rwm Italia Spa di Domusnovas in Sardegna, di proprietà del gruppo industriale Rheinmetall, con sede a Dussendorf in Germania.
In estrema sintesi è questa la tesi con cui la Rete Disarmo, insieme ad altre organizzazioni che si battono per la fine di uno dei conflitti più ignorati e insieme più mortiferi del mondo arabo, ha sferrato la sua battaglia legale contro le ipocrisie e le opacità dell’export di sistemi d’arma in Italia.


Girls attend a class at their school in a village outside Yemen's capital Sanaa

Marzo 2018 – Le condizioni in Yemen, in preda alla guerra, si stanno aggravando e stanno avendo un impatto devastante sui civili, con 22,2 milioni di persone che hanno bisogno di assistenza umanitaria. Lo ha annunciato il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Il Consiglio ha citato gli attacchi indiscriminati contro le zone densamente popolate, con un gran numero di vittime civili e danni alle strutture civili.

Più di 20 milioni di persone, inclusi 11 milioni di bambini, hanno bisogno di assistenza sanitaria. Almeno 14,8 milioni di persone non hanno accesso alle cure di prima necessità, i casi di colera sono arrivati a oltre 900mila e quelli di difterite a quasi 200. La popolazione è ridotta alla fame: 17 milioni di persone non sanno quando potranno avere il prossimo pasto e 400mila bambini sono malnutriti. Nel Paese la guerra ha ucciso più di 10 mila persone, causato più di 2 milioni di sfollati

L’Arabia Saudita è stata accusata di aver forzato decine di migliaia di yemeniti a rientrare in patria attraverso l’applicazione di nuove regole sui lavoratori immigrati, basate sulla visione di Mohammed bin Salman per un’economia destinata “prima ai sauditi”


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Febbraio 2018 – All’indomani della vasta operazione per liberare tutte le aree del sud dello Yemen, le forze armate fedeli al governo yemenita stanno avanzando nella regione meridionale dell’Hadramawt, in mano alle milizie di al Qaeda nella penisola arabica (Aqap).

L’escalation di violenze lungo la costa occidentale dello Yemen ha messo in fuga più di 85mila persone solo nelle ultime dieci settimane. Lo denuncia l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati.

Pochissimi politici italiani si sono resi conto del fatto che a fornire le bombe all’Arabia Saudita, era e continua ad essere anche la fabbrica di Domusnovas, in Sardegna, che le trasporta di notte dall’aeroporto di Elmas. Iniziò dunque una riflessione nazionale sulla mancata applicazione della legge 185/90 e dell’Arms Trade Tready, il trattato internazionale sul commercio di armamenti dell’ONU (ratificato dall’Italia il 2 aprile 2014), nonché sulle risoluzioni del Parlamento Europeo. Il Parlamento Europeo ha emanato nel corso di quest’ultimo anno ben 4 risoluzioni che invitano i paesi membri ad effettuare l’embargo delle armi all’Arabia Saudita, per la sua condotta sconsiderata nello Yemen. Il rapporto ONU è chiarissimo, nelle azioni di guerra dell’Arabia Saudita in Yemen ci sono gli estremi per ravvisare dei veri e propri crimini di guerra. Ci troviamo nel paradosso di avere una fabbrica che esporta “legalmente”, perché autorizzata da un Governo che non tiene conto della legge. La Germania non lo fa. La Reinhmetall fa in Italia ciò che sul territorio tedesco non gli è possibile.


Yemen

Gennaio 2018 – Oltre tre quarti degli yemeniti ha bisogno di aiuto umanitario in una conflitto spietato che si avvicina ormai al suo quarto anno. L’hanno affermato oggi le Nazioni unite, parlando di 22,2 milioni di persone dipendenti dall’assistenza internazionale. Otto milioni di persone sono a rischio fame, rispetto ai 6,8 milioni del 2017, ha spiegato l’Ufficio affari umanitari dell’Onu (OCHA). Su 29 milioni di yemeniti, 22,2 milioni (pari al 76%) sono dipendenti dall’aiuto umanitario.

Secondo l’ultimo rapporto pubblicato da UNICEF, l’agenzia delle Nazioni Unite che si dedica all’infanzia, nella guerra in corso in Yemen sono morti almeno 5.000 minori e altri 400.000 vivono in condizione di grave vulnerabilità dovuta prima di tutto alla malnutrizione.

Le Organizzazioni Non-Governative impegnate in Yemen chiedono a gran voce la riapertura completa e incondizionata del porto di Al-Ḥudayda per consentire l’ingresso ininterrotto di cibo e carburante nel Paese. La concessione per un periodo di trenta giorni della distribuzione di beni commerciali ha soltanto attutito brevemente gli effetti del blocco prolungato sui porti yemeniti nel Mar Rosso.
Il blocco imposto a novembre 2017 dalla coalizione a guida saudita su tutti i punti di ingresso in Yemen ha portato a drammatiche carenze di cibo e carburante e al relativo incremento dei prezzi che hanno così privato la popolazione dell’accesso all’acqua pulita, al cibo e all’assistenza sanitaria.

L’Arabia Saudita sta violando il diritto internazionale umanitario in Yemen. La denuncia arriva dall’organizzazione per i diritti umani con base a New York, Human Rights Watch.

Il Ministero degli Affari esteri della Norvegia ha annunciato la sospensione delle autorizzazioni per le forniture di armi e munizioni agli Emirati Arabi Uniti. Nessuna menzione, invece in Italia, al fatto che la legge che regolamenta le esportazioni di armamenti, non vieta solamente le forniture a Paesi sottoposti a misure di embargo, ma anche ‘verso i Paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, accertate dai competenti organi delle Nazioni Unite, dell’UE o del Consiglio d’Europa’.

The New York Times “How did bombs made in Italy kill a family in Yemen?’


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Dicembre 2017 – Il conflitto in Yemen dura ormai da 1000 giorni, con bombardamenti pesantissimi dei quali fanno le spese soprattutto donne e bambini.
Sono più di 20mila, infatti, le persone che hanno perso la vita in quasi tre anni dall’inizio del conflitto, di cui almeno la metà sono civili. Mentre tr milioni di persone sono state costrette a fuggire dalle le loro case. Quasi un milione di persone sono state contagiate dal colera: si tratta della più grave epidemia del mondo, aggravata dal collasso del sistema sanitario e delle infrastrutture idriche.

Per sopravvivere ormai oltre l’80% della popolazione del Paese (22,5 milioni di persone) dipende dall’importazione di derrate alimentari. Da quando la coalizione a guida saudita ha imposto il blocco, solo un terzo del cibo necessario raggiunge una popolazione ridotta allo stremo: più di 7 milioni di persone non fanno un pasto decente da mesi. Mancano inoltre le medicine e scarseggia il carburante. I bambini subiscono l’impatto peggiore del conflitto e, con il proseguire dei combattimenti, il loro futuro appare sempre più tetro. 1.600 scuole sono state distrutte.

Più di undici milioni di bambini hanno bisogno di aiuti umanitari in Yemen. Il dato insieme all’allarme è stato dato nei giorni scorsi dal Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia.
4,5 milioni di minori e donne incinte o in allattamento sono ora affetti da malnutrizione acuta (+148% rispetto al tardo 2014), mentre 462mila bambini soffrono di malnutrizione acuta grave (+200% rispetto al 2014) e 63 nati vivi ogni 1.000 muoiono. Con il blocco di ogni aiuto dall’esterno, l’Arabia Saudita ha colpito al cuore una situazione già critica. Il prezzo della benzina è triplicato e gli abitanti delle regioni isolate non possono più raggiungere l’ospedale. Nelle aree più colpite dal conflitto mancano oggi fino al 90% delle risorse idriche, mentre più del 50% delle strutture sanitarie sono state rese inagibili dai bombardamenti.
I fondi messi a disposizione per la popolazione yemenita non arrivano a destinazione a causa del blocco all’accesso umanitario.

La Risoluzione delle Nazioni Unite del 23 febbraio scorso non ha sortito l’effetto sperato, anzi l’impasse del maggior organo internazionale è dovuta alla pressione della “lobby saudita” all’interno del Consiglio dei diritti umani. L’incessante rifornimento di armi all’Arabia Saudita da parte di Stati terzi, tra cui numerosi Paesi europei, evidenzia ancora una volta come gli interessi economici prevalgano sul rispetto della vita e della persona. Per questo, attraverso la risoluzione approvata, il Parlamento europeo ha chiesto di impedire agli Stati membri la vendita di armi all’Arabia Saudita.

‘Yemen’s cholera nightmare’


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Novembre 2017 – Blocco delle frontiere imposto dalla Coalizione guidata dall’Arabia Saudita. Nessuna autorizzazione a decollare da Gibuti verso Sana’a neanche per i voli umanitari. Dopo aver sancito la chiusura di tutte le frontiere yemenite, i porti marittimi e gli aeroporti, la Coalizione aveva dichiarato che avrebbe fatto decollare almeno i voli umanitari, promessa per giorni disattesa. Riaperti in seguito gli aeroporti di Aden e Seiyoun. Al momento solo poco più di cinque milioni di persone hanno ricevuto aiuti umanitari nei 22 governatorati del Paese

Secondo quanto affermato dall’UNICEF, quasi 400mila bambini rischiano di morire per malnutrizione acuta grave. Secondo la relazione annuale del Segretario generale delle Nazioni Unite sui bambini nei conflitti nel 2016 almeno 785 bambini in Yemen sono stati uccisi e 1.168 sono rimasti feriti. Sono almeno 1.500 i bambini soldato. Secondo l’ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA), più di 20 milioni di yemeniti hanno bisogno di aiuti per sopravvivere. Sette milioni di persone sono denutrite o malnutrite, quasi 16 milioni non hanno accesso all’acqua potabile sicura e ormai si contano oltre seicentomila casi di colera.

Si preannuncia la peggior carestia che il mondo abbia mai visto da decenni, con milioni di vittime, secondo Mark Lowcock, segretario agli affari umanitari delle Nazioni Unite. L’incontro tra quest’ultimo, il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, e il ministro degli esteri saudita, Adel al Jubeir, si conclude con la incalzante richiesta di terminare l’embargo almeno sugli aiuti alimentari, il cui accesso è attualmente impedito in Yemen dalla coalizione guidata da Riyadh.


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Ottobre 2017 – La guerra in Yemen ha ucciso oltre 8.500 persone e ne ha ferite quasi 49.000 secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, mentre oltre 17 milioni di yemeniti sono dipendenti da aiuti umanitari. I casi sospetti di colera hanno sfiorato i 700mila, più di 2mila le morti correlate alla malattia. E’ verosimile che si raggiunga un milione di casi di colera entro la fine dell’anno.

Non si ferma dopo oltre due anni la guerra in Yemen e non sembrano avere fine le atrocità commesse dalla coalizione araba a guida saudita nel paese. A farne le spese sono soprattutto i bambini e l’Arabia Saudita ha enormi responsabilità. Per questo le Nazioni Unite hanno inserito Riyadh nella lista di Paesi responsabili di violenze sui bambini in zone di guerra. Nella bozza che dovrà essere approvata a fine mese, si legge che solo nel 2016 l’Arabia Saudita ha ucciso con bombardamenti indiscriminati 683 minori, mentre in altre 38 occasioni ha colpito con i suoi ordigni scuole e ospedali.

La Camera dei deputati italiana respinge l’ipotesi di embargo relativo alla fornitura di bombe italiane verso l’Arabia Saudita e la conseguente partecipazione, seppur indiretta, dell’Italia a una guerra senza autorizzazione né mandato internazionale, come quella in atto nello Yemen. L’Italia invia sistematicamente da Cagliari armi fabbricate negli stabilimenti sardi della RWM Spa, di proprietà della tedesca Rheinmetall. Armi che hanno provocato la morte di centinaia di civili. Germania, Svezia e Olanda, già da tempo hanno interrotto le forniture di sistemi militari all’Arabia Saudita.

Il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, espressione dell’Assemblea generale ONU, ha deciso di avviare un’inchiesta su presunti crimini contro l’umanità commessi nello Yemen e di inviare nel Paese una squadra di esperti internazionali.

Il Manifesto “Il milione dello Yemen” di Federica Iezzi


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Settembre 2017 – Il Paese è entrato nel terzo anno di una feroce guerra civile che non accenna ancora a placarsi, dopo più di 10.000 morti, almeno 48.000 feriti, 19 milioni di persone alla disperata ricerca di aiuti umanitari, tre milioni di sfollati interni. Paese con una inflazione aumentata del 30% soprattutto sui generi alimentari. Il 70% della popolazione, ha bisogno di assistenza, 17 milioni di persone non ha cibo a sufficienza e 14 milioni è senza acqua potabile e servizi igienici. La metà delle strutture sanitarie è stata bombardata e il personale lavora senza ricevere lo stipendio da 9 mesi.
I Paesi occidentali, Italia compresa, continuano a vendere le armi ad entrambi i contendenti (le truppe governative appoggiate dalla coalizione guidata dall’Arabia Saudita e i ribelli sciiti della tribù houthi sostenuti dall’Iran).

Il Consiglio per i diritti umani dell’ONU ha diramato l’ennesimo allarme sui minori in Yemen: nel report rilasciato nel settembre 2017, è stato ricostruito che almeno 1.184 bambini sono stati uccisi, la maggior parte nei raid della coalizione saudita, nei tre anni del conflitto dalla presa della capitale Sana’a, nel settembre del 2014, da parte dei ribelli houthi. Più di 2500 sono i bambini feriti, mutilati, annullati. E 6000 bambini yemeniti sono orfani di guerra.

L’alto commissario dell’ONU ai diritti umani, Zeid Ra’ad Al Hussein, ha nuovamente chiesto che sia avvita un’inchiesta internazionale sulle violazioni dei diritti umani legate alla guerra in coso nello Yemen.

I Comitati popolari yemeniti, affiliati agli houthi e appoggiati dall’Iran, e le truppe dell’esercito lealista dell’ex presidente sunnita Abdallah Saleh sono responsabili di circa il 67% dei 1702 casi di reclutamento di minori che partecipano o vengono addestrati per partecipare alla guerra yemenita.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha annunciato che l’epidemia di colera nello Yemen, dall’inizio di aprile, ha colpito 612.073 persone. L’ultimo aggiornamento OMS indica che il colera ha fatto più di 2.000 morti e che gli infettati aumentano a una media di 3.000 al giorno. Secondo l’agenzia sanitaria dell’ONU, le popolazioni più colpite dall’epidemia di colera sono quelle che vivono nelle province di al-Hudayda, Hajjah, Amanat al-Asimah e Amran.

I partiti politici e le tribù che sostengono il governo yemenita del presidente Abd Rabbo Mansour Hadi hanno accolto con favore la nomina di Taher al-Aqili come nuovo capo di Stato maggiore.

Nena News Agency “YEMEN. I bambini e le bombe saudite” di Federica Iezzi


The Republic of Yemen

Agosto 2017 – Quasi diecimila vittime, molte delle quali bambini, con oltre tre milioni persone costrette ad abbandonare le proprie case, mentre il 70% della popolazione, circa 19 milioni di persone, hanno bisogno immediato di aiuti umanitari per sopravvivere, e tra loro sette milioni lottano ogni giorno per avere un pasto decente.

I principali Paesi esportatori di armi continuano a investire sempre più denaro per la vendita ai Paesi della coalizione a guida saudita coinvolta nel conflitto (di cui fanno parte Bahrain, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Giordania, Kuwait, Marocco, Qatar, Sudan). A contribuire infatti alla fornitura di materiale bellico sono Stati Uniti, Turchia, Francia, Regno Unito, Canada, mentre in occasione del VII anniversario dell’entrata in vigore della Convenzione sulle Munizioni Cluster, la Campagna Italiana contro le mine ONLUS ha denunciato l’utilizzo da parte della coalizione saudita di bombe a grappolo di produzione brasiliana “in pieno e costante disprezzo delle vite umane e del diritto umanitario”. E poi c’è l’Italia, in particolare la Sardegna, dove nel piccolo comune di Domusnovas, in provincia di Carbonia-Iglesias, opera la fabbrica d’armi RWM (di proprietà tedesca e sede legale a Ghedi, Brescia). Qui sarebbero state prodotte 20 mila bombe solo nel 2016, di cui gran parte destinate all’Arabia Saudita, in piena violazione della legge 185/1990 che vieta le esportazioni di tutti i materiali militari e loro componenti verso Paesi in stato di conflitto armato.

Nelle aree dello Yemen maggiormente colpite dall’epidemia di colera, più di un milione di bambini sotto i cinque anni di età risulta attualmente malnutrito, tra cui circa 200.000 bambini affetti da gravi forme di malnutrizione, secondo Save the Children. In tutto lo Yemen, tra il 27 aprile e il 29 luglio scorsi, sono stati registrati oltre 425.000 casi di sospetto colera, con 1.900 decessi. Dalla fine di aprile, quasi la metà dei nuovi casi di colera (44%) e un terzo dei decessi (32%) riguarda bambini di età inferiore ai 15 anni.

RaiNews24 “Yemen, la guerra al buio”


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Luglio 2017 – Si aggrava l’epidemia di colera nello Yemen dove, secondo la Croce Rossa Internazionale, ci sono 300.000 nuovi casi sospetti. Per l’Organizzazione mondiale della Sanità, il 41% di questi sono bambini. Oltre 1.600 persone sono morte fino a oggi a causa della malattia e le strutture sanitarie del paese sono al collasso. Sono stati attivati 45 centri per il trattamento della reidratazione e della diarrea a al-Hudaydah, Lahj e Aden.

Stando alla relazione governativa annuale sul’export militare, nel 2016 sono state consegnate 21.822 bombe, ma sul numero di pezzi realmente esportati erano state avviate due inchieste giudiziarie a Cagliari e Brescia. Le procure, però, hanno trasmesso per competenza i fascicoli ai pubblici ministeri di Roma. L’elenco dei destinatari e il tipo di armi ad essi destinate, è coperto dal segreto. L’incrocio dei dati forniti nelle varie tabelle ministeriali, permette però di affermare che una licenza da 411 milioni di euro alla RWM Italia è destinata proprio all’Arabia Saudita. Si tratta dell’autorizzazione all’esportazione di 19.675 bombe Mk 82, Mk 83 e Mk 84. Informazione che coincide esattamente con il contenuto di un documento finanziario della tedesca Rheinmetall che per l’anno 2016 segnala un ordine «molto significativo» del valore di 411 milioni di euro proveniente da un cliente della regione ‘Mena’, che sta per Medio-Oriente e Nord Africa. Nella lista dei Paesi verso i quali la Germania ha esportato più armamenti nel 2016, l’Arabia saudita è terza dietro Algeria e Stati Uniti.
La recente risoluzione UE non solo ribadisce la necessità che tutti gli Stati membri dell’Unione applichino rigorosamente le disposizioni sancite nella Posizione comune 2008/944/PESC del Consiglio sull’esportazione di armi, ma soprattutto ricorda, a tale riguardo, quanto indicato nella sua risoluzione del 25 febbraio 2016. E cioè che il Parlamento europeo con quella risoluzione ha invitato l’Alta rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la politica di sicurezza ad avviare un’iniziativa finalizzata all’imposizione da parte dell’UE di un embargo sulle armi nei confronti dell’Arabia Saudita.

Left “Lo Yemen non è un Paese per bambini” di Laura Silvia Battaglia

Al Jazeera “The war in Yemen explained in 3 minutes”


Juan Herrero

Giugno 2017 – Dal marzo 2015, il conflitto in Yemen conta più di 8.000 morti e almeno 44.000 feriti, secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Oltre tre milioni di persone sono state costrette a fuggire dalle loro case, troppo spesso senza sicurezza. Circa quattro milioni e mezzo di persone hanno bisogno di un riparo di emergenza. Almeno 6.000 persone, tra cui più di 2.000 bambini, in Yemen convivono forzatamente con una disabilità legata agli effetti di esplosioni e bombardamenti.
Sono 18 milioni i civili che attendono sostegno umanitario e di questi, 12 milioni hanno bisogno di assistenza urgente. Su 333 distretti distribuiti nei 22 governatorati yemeniti, 43 continuano ad avere difficile accesso via terra, per gli operatori umanitari. In questi distretti vivono più di due milioni di persone. Marib, Sa’ada, e il governatorato di Taiz hanno il maggior numero di distretti difficili da raggiungere.

Almeno 13 milioni di civili, il 50% dell’intera popolazione in Yemen, lotta quotidianamente per cercare acqua pulita per bere o coltivare. Più di 14 milioni di yemeniti dipendono attualmente da aiuti umanitari.
A Sana’a si può usare l’acqua di rubinetto solo qualche volta alla settimana, a Taiz una volta al mese e nelle zone rurali il disagio è ancora peggiore.
I bombardamenti sugli impianti di desalinizzazione nelle città portuali, prima fra tutte al-Mokha, aggravano la situazione. Le 33 aziende idriche e sanitarie locali del paese sono state fortemente colpite. La produzione di acqua è stata seriamente ostacolata dalla mancanza di gasolio, utile per il corretto funzionamento delle pompe degli acquedotti sotterranei e delle strutture di trattamento.

Secondo i dati del Disasters Emergency Committee più di 270 strutture sanitarie nello Yemen sono state danneggiate dagli effetti del conflitto e le recenti stime suggeriscono che più di metà delle 3.500 strutture sanitarie del Paese valutate, sono ormai chiuse o funzionano solo parzialmente. E in 49 distretti mancano medici specialisti. Questo ha lasciato otto milioni di bambini senza accesso all’assistenza sanitaria di base.
Secondo il Comitato Internazionale della Croce Rossa, tra marzo 2015 e lo scorso marzo ci sono stati almeno 160 attacchi contro ospedali e centri di salute con il loro personale, si sono ripetuti intimidazioni e bombardamenti fino a limitazioni all’accesso alla cura e alla somministrazione di farmaci. Nel mese di novembre 2016, c’era un letto di ospedale ogni 1.600 persone e circa il 50% delle strutture sanitarie non erano operative.

Più di 2.000 scuole delle 16.000 presenti in Yemen non sono più agibili a causa dei bombardamenti. Almeno 900 sono quelle completamente o parzialmente distrutte, le altre vengono utilizzate come rifugio per gli sfollanti interni.

Secondo il Legal Center for Rights and Development, decine tra porti e aeroporti e più di 500 strade e ponti sono stati colpiti dai bombardamenti sauditi. I bombardamenti seriati della coalizione a guida saudita hanno distrutto più di 50 siti archeologici in tutto il Paese. Distrutte case storiche abitate da più di 2.500 anni, nel vecchio quartiere di Sana’a, dichiarato patrimonio mondiale dell’UNESCO.

Quasi 15 milioni di persone non ha accesso all’assistenza sanitaria e le grandi epidemie come quella di colera, legata all’acqua non purificata, continua disordinatamente a diffondersi, con oltre 49mila casi sospetti e 361 morti. Le città più colpite sono la capitale Sana’a, Hajjah, nel nord-ovest del paese e Amran, al centro.

Secondo i dati diffusi dall’UNICEF i 22 governatori dello Yemen sono sull’orlo della carestia. Il prezzo del cibo è aumentato del 55% e il PIL è diminuito di quasi il 33%. Il numero di estremamente poveri e vulnerabili è notevolmente elevato: circa l’80% delle famiglie è in debito e metà della popolazione vive con meno di due dollari al giorno.
L’insicurezza alimentare è aumentata significativamente negli ultimi due anni. Sette su 22 governatorati sono in piena emergenza: Taiz, Abyan, Sa’ada, Hajjah, al-Hudaydah, Lahj e Shabwah.
Circa la metà dei bambini dell’intero paese è affetta da malnutrizione cronica. Almeno 370mila bambini soffrono dei segni acuti della malnutrizione.

Nena News Agency “YEMEN. Sette giorni in sette foto” di Federica Iezzi

Mentinfuga “Con Federica Iezzi parliamo del disastro umanitario nello Yemen”

Contropiano “Di ritorno dallo Yemen. Intervista alla dottoressa Iezzi”

Radio Città Aperta – Anubi “In Yemen ci sta una guerra ma nessuno ne parla”


A nurse feeds a newborn baby in a special care unit at a hospital in Sanaa

Maggio 2017 – Si è tenuto lo scorso 25 aprile l’incontro a Ginevra dei rappresentanti dei governi dei Paesi donatori per affrontare la tragedia che si sta consumando in Yemen.
Un incontro nato con l’obiettivo di arrivare allo stanziamento di almeno 2 miliardi di dollari entro la fine dell’anno, per fornire assistenza umanitaria ad una popolazione colpita da una delle peggiori carestie della storia recente, per effetto di un conflitto che negli ultimi due anni ha causato 7.800 vittime e oltre tre milioni di sfollati. Nel silenzio assordante dell’opinione pubblica mondiale.
In questo momento nel Paese il 70% della popolazione, più di 18 milioni di abitanti, ha bisogno di assistenza umanitaria, tra loro sette milioni di persone, in diverse aree del Paese, non hanno accesso al cibo.

L’embargo de facto che sta interessando il porto di al-Hudaydah, punto di ingresso per circa il 70% delle importazioni alimentari dello Yemen, blocca la catena di aiuti umanitari.
Ed è proprio qui che si dovrebbero tenere nuovi colloqui di pace entro la fine di maggio per fermare l’escalation di scontri in Yemen. In questa fase del conflitto il porto di al-Hudaydah rappresenta l’obiettivo principale su cui si appresta a convergere l’operazione ‘Golden Spear’, scattata lo scorso gennaio nel distretto nord-occidentale di Dhubab (situato circa 30 chilometri a nord rispetto allo stretto di Bab el-Mandab), con lo scopo di riprendere possesso delle aree in mano ai ribelli houthi situate lungo i 450 chilometri di coste occidentali sul Mar Rosso.
Il fronte degli houthi si è mostrato possibilista sull’apertura di nuove trattative. Gli houthi hanno tutto l’interesse a evitare che al-Hudaydah finisca nel mirino dei caccia sauditi, salvaguardando così uno degli ultimi canali di comunicazione con il resto del mondo. Al contrario l’Arabia Saudita non sembra affatto intenzionata a trattare.

Secondo il Comitato Internazionale della Croce Rossa, tra marzo 2015 e lo scorso marzo ci sono stati almeno 160 attacchi contro ospedali e centri di salute con il loro personale, si sono ripetuti intimidazioni e bombardamenti fino a limitazioni all’accesso alla cura e alla somministrazione di farmaci. Nel mese di novembre 2016, c’era un letto di ospedale ogni 1.600 persone e circa il 50% delle strutture sanitarie non erano operative.

All’interno di questo disastroso quadro, l’Italia ha avuto e continua ad avere un ruolo determinante nello sviluppo della guerra e nel consentire l’approvvigionamento di armi alla coalizione guidata dall’Arabia Saudita. Il ministro della difesa Roberta Pinotti ha smentito la partecipazione dell’Italia nella fornitura degli armamenti, mentre l’allora ministro degli esteri Paolo Gentiloni ha sostenuto che la vendita di armi fosse legittima perché non esiste un embargo con l’Arabia Saudita. Se da un lato gli accordi economici fra i due Paesi non prevedono un embargo alla vendita delle armi, l’articolo 11 della nostra Costituzione e la legge n.185 del 1990, stabiliscono espressamente il divieto di esportare materiali di armamento.

Il Manifesto 30/05/2017 “REPORTAGE. Bombe e colera: silenzio di morte sullo Yemen” di Federica Iezzi


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Aprile 2017 – Il conflitto in Yemen, scoppiato nel marzo 2015, è tra i meno raccontati del Medio Oriente. Eppure ha fatto secondo l’ONU, tra marzo 2015 e aprile 2016, fra 7.400 e 16.200 morti e 43.000 feriti. Più di 3.200 i bambini uccisi o feriti. Almeno tre sono i suoi aspetti cruciali: l’emergenza sanitaria, aggravata dagli attacchi diretti contro le strutture mediche; le difficoltà economiche e l’isolamento internazionale che colpiscono il paese da mesi, contribuendo ad aumentare i tassi di povertà e malnutrizione; il fallimento nell’adottare misure di protezione da parte dei governi che sostengono la coalizione Saudita (USA, UK, Francia) senza escludere le responsabilità dei paesi, tra cui l’Italia, coinvolti nel commercio delle armi utilizzate in questo conflitto.

Ad oggi, nonostante la massiccia offensiva militare, alla quale partecipano soldati dell’Arabia Saudita, del Qatar, degli Emirati Arabi, del Marocco, dell’Egitto e del Pakistan, oltre ai mercenari statunitensi della Blackwater prima e della DynCorp attualmente, con uso anche di armi proibite dal diritto internazionale come le bombe al fosforo, Sana’a e altre città sono ancora in mano agli Houthi.
Oltre ai bombardamenti c’è anche un disumano assedio militare che impedisce l’approvvigionamento di cibo e medicinali per una popolazione stremata dalla guerra. Secondo recenti dati ONU, l’80% degli yemeniti rischia la fame. Questo embargo sta aggravando drasticamente la situazione di un Paese in cui il 90% del fabbisogno in beni alimentari di base proviene dalle importazioni, e sta condannando migliaia di bambini alla morte anche per fame.
Intanto Scotland Yard sta valutando le denunce presentate sui sospetti crimini di guerra commessi nello Yemen dall’Arabia Saudita, alleata strategica di Londra.

Le armi che stanno uccidendo la popolazione yemenita sono spagnole, francesi, italiane, tedesche, australiane, statunitensi, britanniche e brasiliane. Questo il grido dell’unica NGO spagnola impegnata in Yemen, ‘Solidarios Sin Fronteras’.

Nena News Agency ” UNICEF: un milione e mezzo di bambini rischiano la morte da malnutrizione” di Federica Iezzi


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Marzo 2017 – A due anni dall’inizio della campagna militare saudita contro i ribelli sciiti Houthi, il conflitto yemenita continua a mietere vittime (oltre 10mila) e sfollati (più di due milioni quelli interni). In questa fase gli scontri sono concentrati soprattutto lungo la costa occidentale bagnata dal Mar Rosso dove l’esercito governativo, con il sostegno di una vasta coalizione arabo-sunnita guidata da Riad, sta provando a strappare terreno ai ribelli nel tentativo di invertire la tendenza di una guerra rivelatasi finora fallimentare per la compagine che vuole ristabilire al potere il presidente Abdrabbouh Mansour Hadi.

Gli Stati Uniti hanno rafforzato la loro campagna di bombardamenti contro al-Qaeda nella Penisola Araba (AQAP) per eliminare i jihadisti dallo Yemen. Da alcuni giorni le forze statunitensi hanno moltiplicato i raid aerei nel sud del paese, al confine tra le province di Shabwa, Abyan e Al Bayda.

Nel frattempo sul terreno la situazione umanitaria continua a degradarsi. In un rapporto pubblicato all’inizio del 2017, l’UNICEF parlava della crisi dei servizi pubblici, sull’orlo dell’implosione, e della necessità di aiuti umanitari, in particolare per aiutare i bambini colpiti dalla carestia.
Oltre 17 milioni di persone vivono nell’insicurezza alimentare, e fra queste circa 7 milioni la soffrono in forma grave. Nonostante le difficoltà, a febbraio in Yemen il WFP ha raggiunto 4.9 milioni di persone in stato di insicurezza alimentare.
Sei mesi dopo il ritiro delle proprie équipe dal nord dello Yemen, a seguito del bombardamento dell’ospedale di Haydan, Medici Senza Frontiere ha riavviato le attività della struttura sanitaria, nel governatorato di Sa’ada.


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Febbraio 2017 – Più di 17 milioni di persone stanno lottando ogni giorno per nutrirsi: è quanto emerge dalla prima valutazione congiunta, realizzata da tre agenzie delle Nazioni Unite, sul livello di vita delle famiglie in Yemen dopo l’escalation del conflitto che da metà marzo 2015 sta dilaniando il paese. Secondo l’analisi condotta dalla FAO (Food and Agriculture Organization of the United Nations) assieme all’UNICEF (United Nations Children’s Fund) ed al WFP (World Food Programme) ed alle autorità yemenite, sono almeno 17 milioni le persone che hanno difficoltà a nutrirsi.
Il 60% delle famiglie vive di agricoltura ma la produzione è crollata drasticamente nel 2016, rispetto ai livelli pre-crisi. Più di un milione e mezzo di famiglie che lavorano nell’agricoltura non hanno più accesso ai mezzi di produzione agricoli (sementi, fertilizzanti, carburante per l’irrigazione). Circa 860 mila famiglie sono impegnate nella produzione di bestiame ma molte sono state costrette a vendere gli animali per soddisfare altre esigenze domestiche.

In Yemen la guerra sta avendo un impatto devastante sulla popolazione civile, sia per il numero delle vittime dirette sia per il collasso dei sistemi sanitari. È quanto emerge dal nuovo rapporto di Medici Senza Frontiere sull’assistenza medica in tempo di guerra, diffuso a livello internazionale.
Il rapporto si concentra in particolare sulla situazione di Taiz, la terza città più grande del Paese, essa stessa lungo la linea del fronte, dove da quasi due anni la popolazione vive in un continuo stato di paura e sofferenza.
Anche i servizi sanitari a Taiz sono entrati nel mirino delle violenze, con ospedali danneggiati direttamente da bombardamenti e sparatorie.
La paralisi del sistema sanitario, insieme alle sempre più difficili condizioni di vita, ha causato un peggioramento della salute delle persone, con conseguenze particolarmente gravi per i gruppi vulnerabili, come le donne incinte, i neonati e i bambini piccoli. La maggior parte delle famiglie oggi vive in assenza o con scarsa energia elettrica e insufficienti quantità di cibo e acqua.

Il generale Ahmed Saif al-Yafei, capo di Stato maggiore delle forze governative yemenite, è stato ucciso nella città costiera di al-Mokha, ad opera dei ribelli armati houthi, rivali delle forze yemenite fedeli al presidente deposto Abd-Rabbu Mansour Hadi. E due capi militari dei ribelli sciiti Houthi sono stati uccisi nel governatorato di al Hajjah, 127 chilometri a nord-est di Sana’a.

Nena News Agency “YEMEN. Guerra civile e bombe saudite non fermano i migranti dal Corno d’Africa” di Federica Iezzi


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Gennaio 2017 – Continua la guerra che da quasi due anni oppone gli Houthi, il movimento degli sciiti zaiditi del nord (alleati con i miliziani dell’ex presidente Saleh), all’esercito regolare, sostenuto dai bombardamenti della coalizione guidata dall’Arabia Saudita. E, nelle aree contese e nei territori controllati dal governo, operano sia al-Qaeda nella Penisola Arabica (Aqap) che l’ISIS.

Nuovi scontri tra ribelli Houthi e forza pro-governative nella provincia sudorientale di Shabwa e nel distretto di Osaylan dopo l’avanzata delle forze filogovernative.
Le truppe governative sono vicine alla conquista della zona di Bab al Mandab, che si affaccia sul Mar Rosso, strategica per il controllo del passaggio delle navi. Anche il fronte di Saada, nel nord del paese, ha visto violenti combattimenti e decine di morti tra le fila dei ribelli sciiti.

L’Unione Europea ha stanziato 12 milioni di euro in favore dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO) per assistere i circa 14 milioni di persone che soffrono di insicurezza alimentare nello Yemen.


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Dicembre 2016 – E mentre il governo di Hadi (riconosciuto dalla comunità internazionale) e quello rivale di Sana’a (sostenuto ufficiosamente dall’Iran) non riescono a trovare una intesa che ponga fine alla guerra, la situazione umanitaria in Yemen continua a peggiorare.
Delle 11mila vittime dirette del conflitto in corso, dal marzo 2015, oltre 1.200 sono minori. È il tragico bilancio stilato da Save the Children e pubblicato insieme al rapporto sul sistema sanitario yemenita a quasi due anni dall’inizio dell’operazione saudita ‘Tempesta Decisiva’.
La mancanza cronica di strumentazione medica e di staff sanitario sta causando altri 10mila morti per anno, si legge nel rapporto. Circa mille bambini muoiono ogni settimana per cause prevedibili come diarrea, malnutrizione e infezioni del tratto respiratorio.

L’Arabia Saudita continua impunita ad usare le armi comprate dalle compagnie belliche occidentali. Compra dagli Stati Uniti, dall’Italia, che da poco ha tributato una nuova visita a re Salman con il ministro della difesa Roberta Pinotti, e dalla Gran Bretagna.
Secondo Human Rights Watch, più di 160 yemeniti sono rimasti uccisi in un mese dalle bombe che Washington ha venduto a Riyadh nonostante gli americani fossero già a conoscenza delle violazioni commesse nel Paese dalla monarchia wahhabita.


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Novembre 2016 – I ribelli sciiti Houthi e la coalizione militare a guida saudita hanno raggiunto un accordo per la cessazione delle ostilità in Yemen a partire dal 17 novembre, ha annunciato il segretario di Stato USA John Kerry. Tutte le parti in conflitto hanno anche concordato di lavorare per dar vita entro la fine dell’anno ad un governo di unità nazionale yemenita.

La guerra di Yemen, ancora irrisolta dopo tre round di colloqui (tra Svizzera e Kuwait) e tentativi di tregua falliti, ha causato circa 10 mila morti e oltre 3 milioni di sfollati interni, secondo le stime delle Nazioni Unite. Le linee del fronte sono diverse: la provincia della capitale Sana’a, Taiz, le regioni centrali (come al-Bayda e Mareb), le aree adiacenti allo stretto del Bab- el-Mandeb, tra mar Rosso e golfo di Aden, snodo fondamentale per il commercio petrolifero internazionale. Inoltre, il confine tra Arabia Saudita e Yemen, dove operano gli huthi, è oggetto di guerriglia quotidiana e lanci di missili, mentre le aree riconquistate dai filo-governativi, come le città portuali di Aden e Mukalla, vivono un pericoloso vuoto di sicurezza di cui beneficiano i gruppi jihadisti, come al-Qaeda nella Penisola Arabica.

Le strutture sanitarie dell’intero Yemen, a oggi, segnalano più di 32.200 vittime. L’OHCHR (Office of the United Nations High Commissioner for Human Rights) ha verificato 8.875 violazioni dei diritti umani: una media di 43 al giorno. Circa 14 milioni vivono in insicurezza alimentare (di cui 7,6 milioni in insicurezza alimentare grave); 19 milioni di esseri umani non hanno accesso adeguato ad acqua pulita e servizi igienici e quasi 320.000 bambini sono gravemente malnutriti; 14 milioni di persone non hanno accesso sufficiente alle cure sanitarie; 3 milioni di bambini e donne in gravidanza o allattamento richiedono un trattamento di malnutrizione; 2 milioni sono attualmente gli sfollati all’interno dello Yemen e altri 121.000 yemeniti hanno lasciato il Paese. Gli sfollati sono attualmente ospitati in 260 scuole, mentre circa 13.000 bambini non hanno accesso all’istruzione.
L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) testimonia che il colera sta mettendo a rischio contagio quasi 8 milioni di yemeniti. Da ottobre scorso la malattia cresce e 2/3 della popolazione non ha accesso ad acqua pulita. Al momento, 23 centri di trattamento colera sono stati istituiti in 9 zone del paese; altri 16 si costruiranno. Il 6 ottobre 2016, il Ministero della Sanità Pubblica e della Popolazione yemenita ha confermato un’epidemia di colera a Sana’a e Al Bayda.

A causa delle violenze Houthi che assediano la città di Taiz da marzo, oltre 1.600 civili sono stati uccisi dai combattenti di entrambe le parti in campo. L’organizzazione di diritti umani yemenita Mwatana, parla di sistematiche uccisioni e ferimenti di civili.


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Ottobre 2016 – Al governo guidato dal presidente Abd Rabbo Mansour Hadi nella città meridionale di Aden, si aggiunge ora una nuova amministrazione a Sana’a, espressione del potere degli houthi.

L’UNICEF stima che 2.108 scuole in tutto il paese non possano più essere utilizzate, o perché distrutte o danneggiate, o perché ospitano famiglie sfollate o perché vengono utilizzate per scopi militari. A causa delle violenze e della chiusura delle scuole, oltre 350mila bambini non hanno potuto completare il proprio percorso scolastico l’anno scorso. Il numero totale di bambini che non vanno a scuola in Yemen è arrivato ad oltre due milioni.

La guerra civile che si protrae da 18 mesi e il blocco navale stanno creando le condizioni per una catastrofica carestia, che colpisce circa la metà dei 28 milioni di abitanti. A essere in pericolo, sono soprattutto i bambini. Secondo l’allarme lanciato dalle Nazioni Unite, circa un milione e mezzo di bambini soffre di forme di malnutrizione e 370mila è in pericolo di vita a causa degli effetti della fame. Secondo il World Food Programme, la maggior parte dei bambini sotto i cinque anni in Yemen soffre di disturbi della crescita a causa della malnutrizione cronica.

Almeno 1.188 bambini sono stati uccisi e più di 1.796 sono rimasti feriti negli attacchi aerei e nei combattimenti a terra dall’inizio del conflitto. Decine di scuole e ospedali sono stati attaccati ed è molto diffuso il reclutamento e impiego di bambini per usi militari, anche in ruoli di prima linea.


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Settembre 2016 – Da 18 mesi un conflitto pesantissimo e terribile, che ha causato 10.000 morti (oltre 3.000 bambini), 32.000 feriti e oltre 3 milioni di sfollati, affligge lo Yemen e la sua popolazione civile.
Amnesty International e Human Rights Watch hanno denunciato l’uso di bombe a grappolo da parte dell’aviazione saudita, violazioni continue dei regolamenti bellici internazionali, civili presi di mira e tecniche di bombardamento“double-tap” (tecnica di fuoco che prevede un primo colpo a segno sull’obiettivo, spesso civile, e un secondo, in successione, all’arrivo dei soccorsi) e soprattutto un assordante silenzio internazionale, sia delle Nazioni Unite che delle cancellerie occidentali.

14,5 milioni di yemeniti non hanno più accesso né all’acqua potabile né ad alcun tipo di cure mediche per via del conflitto, servizi divenuti una necessità e carenti. Dopo cinque mesi di cessate il fuoco e l’avvio di colloqui di pace in Kuwait nel mese di agosto l’escalation delle violenze, violazioni continue della tregua e la ripresa massiccia dei bombardamenti hanno ulteriormente aggravato una situazione già fortemente drammatica. I bombardamenti dei sauditi, che sostengono il governo continuano a colpire infrastrutture e postazioni civili, cosa che rende impossibile l’ingresso degli aiuti umanitari in città, e a mietere vittime al di fuori delle milizie ribelli Houthi.

Il Regno Unito fornisce ai sauditi supporto logistico e di intelligence, vende armamenti all’esercito dei Saud e ha sostenuto la risoluzione del Consiglio sul blocco commerciale, una calamità umanitaria per la popolazione civile

Il premier yemenita Ahmed Obeid Bin Dagher è giunto al Cairo per incontri con alte autorità egiziane per discutere gli ultimi sviluppi della crisi nel Paese devastato da anni di guerra civile. La missione di Dagher cade in un momento difficile per lo Yemen dopo il fallimento dei colloqui di pace in Kuwait sponsorizzati dall’ONU. L’Egitto fa parte della coalizione a guida saudita contro i ribelli sciiti Houthi, alleati dell’Iran.


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Agosto 2016 – Le Nazioni Unite affermano che da quando è iniziata l’offensiva saudita a sostegno di Hadi, il conflitto avrebbe causato circa 32.000 tra morti e feriti e avrebbe portato allo sfollamento interno di 2,3 milioni persone e alla migrazione di altri 120.000, principalmente in direzione Gibuti e Somalia.

Secondo un recente report delle Nazioni Unite, sia i ribelli sciiti houthi che la coalizione sunnita a guida saudita hanno commesso violazioni del diritto internazionale in Yemen.

La rappresentanza Houthi avrebbe rifiutato l’accordo siglato in Kuwait per un arretramento delle proprie forze dalle tre principali città del Paese e i rappresentanti del Governo avrebbero, per questo, lasciato i colloqui in atto. Secondo il piano proposto, i ribelli sciiti (sostenuti ufficialmente dall’ex presidente yemenita Ali Abdullah Saleh, ma ufficiosamente dall’Iran) dovrebbero ritirarsi dalla capitale Sana’a e dalle due principali città del Paese, consegnare le armi e restituire le istituzioni statali occupate nel settembre 2014. Posizione inaccettabile per gli houthi.

A Taez, bombardata da salafiti la moschea Sheikh Abdulhadi al-Sudi, uno dei più importanti edifici religiosi sufi.


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Luglio 2016 – Ad oggi la situazione sul campo si presenta in una fase di stallo. Le forze di Hadi controllano la parte meridionale del paese, dove è situata Aden, la più importane città yemenita dopo la capitale divenuta sede delle istituzioni governative. Gli Houthi e i militari di Saleh controllano la parte settentrionale, dove sorge la capitale Sana’a. Secondo stime delle Nazioni Unite il conflitto in Yemen ha ucciso oltre 6.400 persone e causato 2,8 milioni di sfollati.

Dopo i deludenti risultati dei processi di pace a Ginevra nel Dicembre 2015, più di due mesi sono passati, anche da quando la delegazione yemenita si è recata in Kuwait. Allora l’inviato delle Nazioni Unite, Ismail Ould Cheikh, era ottimista circa la creazione di un progetto di pace. Parlare di pace in un’atmosfera di guerra feroce, che non si ferma neanche un attimo, nonostante i costanti annunci di tregua, è un chiaro segnale della mancanza di qualsiasi volontà reale di ottenerla. In ogni caso, il governo yemenita ha accettato di partecipare alla nuova sessione di dialoghi con la delegazione dei ribelli sciiti Houthi a Kuwait city.

Continua dall’Italia la forniture di bombe all’Arabia Saudita che regolarmente partono dalla Sardegna. Il ministro della Difesa del governo italiano, Roberta Pinotti, ha sottoscritto un accordo di cooperazione militare, per un valore di 5 miliardi di euro, con il Qatar, fedele alleato saudita nell’impresa bellica yemenita.

La coalizione a guida saudita avrebbe bombardato industrie, magazzini, fattorie e centrali elettriche durante la sua campagna militare in Yemen “con la volontà di danneggiare il futuro del Paese”. A denunciare nuovamente il blocco sunnita è la ONG statunitense Human Rights Watch.


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Giugno 2016 – Secondo il nuovo rapporto dell’UNICEF lanciato oggi sull’infanzia nello Yemen “Childhood on the Brink. The Impact of Violence and Conflict on Yemen and its Children”, verificati 1.560 gravi violazioni dei diritti umani a carico dei bambini. Secondo il rapporto, nel solo 2015, oltre 900 bambini sono stati uccisi e oltre 1.300 sono rimasti feriti.

Amnesty International ha ripetutamente documentato le violazioni del diritto internazionale dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario, anche ai danni dei bambini, da parte degli stati membri della coalizione a guida saudita impegnata nel conflitto dello Yemen, responsabile di attacchi aerei contro le scuole e dell’uso delle bombe a grappolo.

Secondo i dati forniti dalle Nazioni Unite, dall’inizio dell’operazione militare lanciata nel marzo 2015 e guidata da Riad a sostegno del governo del presidente yemenita Abd Rabbo Mansour Hadi, almeno 6.400 sono rimaste uccise e circa l’80% della popolazione versa in condizioni critiche e necessita di aiuti umanitari.
Accordo per la liberazione dei prigionieri minorenni nello Yemen: è il primo risultato concreto dei negoziati in corso in Kuwait da aprile. L’Arabia Saudita punta alla capitale e promette di rompere il cessate il fuoco se il dialogo fallirà. Ma la tregua è uno specchietto per le allodole: in pochi giorni quasi 100 vittime. Il fragile negoziato in corso in Kuwait è collassato. Mai realmente partito, se si fa eccezione per l’accordo per la liberazione reciproca di prigionieri.

La coalizione araba continua ad avere un ruolo di primo piano, da quando, nel marzo 2015, ha lanciato l’operazione ‘tempesta decisiva’ contro gli Huthi. Uno dei più significativi successi di quest’operazione è stata la riconquista di Aden, città che occupa una posizione strategica, per via della sua vicinanza allo stretto di Bab al-Mandeb, punto di passaggio delle imbarcazioni internazionali. Le decine di migliaia di combattenti di Ansar Allah sono riusciti a dominare l’intera capitale, Sana’a, occupando gli edifici governativi. Fra i due litiganti, ad approfittarne è Al Qaeda, che consolida la propria presenza nelle città nel sud del paese.


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Maggio 2016 – In Yemen continua l’offensiva delle forze armate governative che hanno preso di mira le postazioni dei ribelli Houti e delle unità dell’esercito rimaste fedeli all’ex presidente Ali Abdullah Saleh, nei pressi della base militare di Nehm, a est della capitale Sanaa.

Dal settembre del 2014, quando sono entrati nella capitale Sanaa, ad oggi i ribelli sciiti hanno conquistato gran parte del nord dello Yemen (regione a maggioranza sciita zaydita), estendendosi anche verso sud dalla provincia settentrionale di Sada. Otto delle 22 province yemenite sono ancora sotto il loro controllo e cinque di esse restano contese, compresa la strategica provincia di Taiz dove i lealisti faticano ad avanzare. Detengono inoltre il controllo dei porti strategici di Hodeida e Mokha sul Mar Rosso.
Le forze lealiste, coadiuvate dalla coalizione militare a guida saudita, finora sono riuscite a non perdere posizioni in quello che era lo Stato dello Yemen del Sud, compresa la sua antica capitale Aden. Un territorio in cui resta però molto radicato il gruppo jihadista al-Qaeda nella Penisola Arabica, concentrato soprattutto nella provincia dell’Hadramawt e nella città di Mukalla. Riconquistato anche il distretto di Mansura.

L’ONU ha intanto annunciato che i negoziati di pace tra le parti, iniziati il 21 aprile in Kuwait, sono ripresi dopo tre giorni di interruzione, dovuti alle presunte violazioni del cessate il fuoco da parte dei ribelli.

Secondo le stime dell’ONU, finora il conflitto, in oltre un anno di combattimenti, ha causato la morte di 6.400 persone, oltre 30mila feriti e circa 3 milioni di sfollati.

Colpite da caccia della coalizione coordinata da Riad e da raid aerei statunitensi postazioni jihadiste nelle città di Mukalla (nell’Hadramawt) e di Zinjibar (nella provincia di Abyan).


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Aprile 2016 – Oltre seimila morti, 2,5 milioni di sfollati, abusi, crimini di guerra. Ospedali, scuole, fabbriche e campi profughi bombardati. Oltre 1.000 bambini uccisi nei raid e oltre 740 morti nei combattimenti.

A far sperare in una tregua, per il momento, sono solo i fragilissimi negoziati che potrebbero portare a un cessate il fuoco, il 10 aprile e ai colloqui di pace che dovrebbero iniziare il 18 in Kuwait.

I ribelli sciiti yemeniti dell’imam Abdel Malik al-Houthi hanno condotto un pesante bombardamento a colpi di mortaio sull’ospedale di Mareb. Inoltre le forze governative, sostenute dall’Arabia Saudita, sono riuscite a conquistare buona parte del territorio della provincia di al-Jawf nel nord del Paese.


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Marzo 2016 – Circa 170mila persone hanno abbandonato lo Yemen finora, dirette soprattutto verso Gibuti, Etiopia, Somalia e Sudan. La guerra ha provocato danni devastanti per 26 milioni di yemeniti, che faticano a sopravvivere. Stime prudenti delle Nazioni Unite parlano di seimila persone uccise, metà delle quali civili, e di quattro quinti degli yemeniti che necessitano di aiuti dall’esterno. Più della metà di loro hanno scarso accesso al cibo e almeno 320mila bambini di meno di cinque anni sono gravemente malnutriti. Gli sfollati sono oltre 2,4 milioni.

Uno spiraglio si apre di fronte allo Yemen: a quasi un anno dall’inizio dell’operazione “Tempesta Decisiva”, scatenata da Arabia Saudita, Emirati Arabi, Qatar e Egitto contro il movimento ribelle Houthi, ieri sera per la prima volta le due parti si sarebbero incontrare a Riyadh.

Intanto gli scontri proseguono secondo lo schema degli ultimi mesi. I centri principali di battaglia sono Sana’a a nord, Taiz al centro e Aden a sud. È qui che la resistenza Houthi tenta di sopravvivere al doppio attacco di coalizione sunnita e al Qaeda nella Penisola Arabica, che conquista sempre più terreno. L’organizzazione fondamentalista islamica ha annunciato la conquista della città di ‘Azzam, una cittadina di 50.000 abitanti situata tra Aden e la ricca provincia di gas e petrolio dell’Hadramawt.

Ancora civili yemeniti massacrati da raid sauditi su un mercato nella città di Mastaba, nella provincia di Hajja.

Il Parlamento Europeo ha votato la storica richiesta alle istituzioni di Bruxelles di imporre un embargo militare contro Riyadh, colpevole di violare il diritto internazionale in Yemen


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Febbraio 2016 – Il numero di morti è salito a 8.143, tra cui 1.996 bambini. Secondo i dati delle Nazioni Unite, i sauditi sono accusati di 119 casi di bombardamenti e azioni sistematiche contro la popolazione civile. Due milioni di bambini non possono andare a scuola a causa dei combattimenti. Sono almeno 130 le strutture sanitarie del Paese colpite da missili lanciati da terra o da attacchi aerei. Molti ospedali sono chiusi.

Il governo yemenita, appoggiato dalla coalizione guidata dall’Arabia Saudita, in quasi un anno di guerra è riuscito a conquistare praticamente solo Aden. Ancora in lotta per la rimozione dell’assedio houthi su Taiz. La capitale Sanaa per ora è ancora saldamente nelle mani degli insorti.


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Gennaio 2016 – Secondo l’UNHCR, circa l’80% della popolazione dello Yemen (25 milioni), necessita di assistenza umanitaria. 14.4 milioni di abitanti sono considerati a rischio denutrizione, dai dati del World Food Programme e tra questi almeno 1.3 milioni di bambini soffre attualmente di malnutrizione, secondo l’ultimo aggiornamento dell’UNICEF. Colpiti 70 ospedali e centri sanitari, con circa 15 milioni di persone senza cure. 8.875 violazioni dei diritti umani secondo l’UN Office of the High Commissioner for Human Rights.
Il conflitto è finora costato la vita a 5.979 persone, 28.808 i feriti, di cui 3 milioni con disabilità permanenti. Almeno due milioni e mezzo il numero degli sfollati interni, 121.000 i rifugiati che hanno abbandonato il Paese, dai dati del World Health Organization.

Si è concluso il cessate il fuoco entrato in vigore il 15 dicembre scorso e prolungato dopo i colloqui in Svizzera tra le parti in conflitto. Tutti i tentativi di trasformarlo in un accordo di pace duraturo sono falliti finora e la tregua è stata ripetutamente violata da entrambe le parti: le forze fedeli al presidente Abd Mansur Hadi Rabbuh e il movimento Houthi.
In programma a metà gennaio la ripresa del dialogo tra Houthi, sciiti appoggiati dall’Iran, e sostenitori dell’attuale governo, appoggiati dalla Coalizione degli Stati del Golfo.

Le forze governative controllerebbero il 70% del territorio yemenita.
Durissimi combattimenti nella provincia settentrionale di Hajjah e a Haradh, nel nord-ovest del Paese. Avanzata delle forze governative nei distretti di Hazm, al-Ghayl e al-Maton, nella provincia settentrionale di Jawf, nel distretto ricco di petrolio di Usaylan, nella provincia di Shabwa.
Raid aerei della coalizione saudita hanno attaccato basi militari dei ribelli Houthi a Jawf, Hodeida e Sana’a. Scontri anche nella provincia meridionale di Najran, contesa tra Yemen e Arabia Saudita e attualmente annessa a quest’ultima, per l’indipendenza da Riyadh di un movimento sunnita.

Le autorità della città yemenita di Aden impongono un coprifuoco notturno alla popolazione.

Continuano gli attacchi aerei dell’aviazione saudita contro centri medici yemeniti nelle province di Taiz e di Sadaa, ripettivamente nel sud est e nel nordest dello Yemen. Dopo i bombardamenti sull’ospedale di Haydan nel governatorato di Sa’dah e sul centro di salute a Taiz, colpito ancora un ospedale gestito da Medici Senza Frontiere: l’ospedale di Shiara nel distretto di Razeh, nel nord dello Yemen.

Il Regno Unito dispone di una presenza militare in Arabia Saudita nella guerra scatenata contro lo Yemen.


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Dicembre 2015 – Secondo Save the Children 1.3 milioni di bambini, sotto i 5 anni soffre di malnutrizione acuta e 8 milioni di minori sono senza cibo sufficiente. 21 milioni di persone in territorio yemenita ha bisogno di aiuti umanitari. 8875 violazioni dei diritti umani. 2.3 milioni di civili sfollati nei governatorati di Aden, Taiz, Hajjah e al-Dhale’e. 5700 i morti.

I combattimenti tra ribelli sciiti e forze governative, appoggiate dalla coalizione militare guidata dall’Arabia Saudita, si stanno concentrando nel sud del paese per il controllo della fondamentale provincia di Taiz.

L’ISIS, allo stesso modo di al Qaeda nelle aree costiere di Mukallah, e nel sud del Paese, ha approfittato del caos creato dalla guerra civile per cercare di diffondere le proprie istanze tra i sunniti locali.

Entrato in vigore un cessate il fuoco di sette giorni il 15 dicembre. Arrivate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità 100 tonnellate di medicinali e attrezzature mediche, distribuite a 13 ospedali nel sud del Paese. Il blocco navale imposto dall’Arabia Saudita ha ripetutamente impedito l’arrivo di cibo e medicinali.

IRIN News – “2015: Yemen’s horrible year” http://newirin.irinnews.org/yemens-horrible-year


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Novembre 2015 – Gli ultimi dati dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani parlano di 5.564 morti, tra cui 410 bambini, e 26.568 feriti in Yemen. 2,3 milioni gli sfollati interni.

Nella lotta tra i ribelli sciiti Houthi e le forze del presidente Abd-Rabbu Mansour Hadi, quasi un terzo dello Yemen è in mano ai qaedisti (che nella regione prendono il nome di Al Qaeda in Arabic Peninsula), guidati da Ayman al-Zawahiri. I qaedisti controllano la provincia di Hadramawat, che va dal confine saudita fino a sud nella città portuale di Mukalla.

I caccia della coalizione impegnata nella penisola araba hanno intensificato i raid aerei sulle postazioni degli Houthi a Taiz. L’impossibilità di accesso umanitario ha privato migliaia di persone dell’assistenza alimentare, per più di un mese. Secondo il programma di assistenza alimentare dell’ONU, dieci dei 22 governatorati dello Yemen sono a un passo dalla carestia. 7,6 milioni di persone soffrono insicurezza alimentare.

A spalleggiare l’esercito saudita i 6.000 uomini inviati dal Senegal e i 2.000 del Sudan.

Nena News Agency “YEMEN. Sanità al collasso per bombardamenti sauditi” – di Federica Iezzi


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Ottobre 2015 – Secondo le Nazioni Unite, le vittime della guerra in Yemen superano 4.500 morti, di cui la metà civili. Dopo mesi di conflitto, sono 1.7 milioni i bambini a rischio malnutrizione e 500 quelli uccisi negli ultimi mesi. Dall’inizio del conflitto, a marzo 2015, 41 scuole e 61 ospedali sono stati danneggiati o distrutti. Inoltre più di 15 milioni di persone non hanno più accesso ai servizi sanitari e più di 1,8 milioni di bambini hanno interrotto il loro percorso scolastico.

Nell’ultimo rapporto diffuso da Amnesty International sotto accusa per crimini di guerra almeno 13 attacchi condotti dalla coalizione a guida saudita nella zona di Sa’da, nello Yemen nord-orientale. Il rapporto denuncia inoltre l’uso delle bombe a grappolo, armi vietate a livello internazionale. Bombardamenti della coalizione contro i ribelli houthi, guidata dall’Arabia Saudita, hanno colpito un ospedale di Medici Senza Frontiere, nel distretto di Heedan, nel governatorato di Sa’da, nel nord dello Yemen.

Ad oggi la coalizione saudita sta impiegando oltre 10 mila militari stranieri, in gran parte sauditi, emiratini e qatarioti. Continuano i pesanti bombardamenti su Hudaydah, Marib, Haja’ah, Dhamar e Taiz. Sono almeno 1300 i civili uccisi dai bombardamenti dei ribelli sciiti yemeniti contro i quartieri residenziali della città. La città di Aden e la zona meridionale dello Yemen è preda oggi del gruppo al-Qaeda nella Penisola Arabica.

Secondo il World Food Programme, 22 province yemenite e almeno 26 milioni di abitanti, sono in uno stato di emergenza alimentare.


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Settembre 2015 – Secondo dati delle Nazioni Unite, gli obiettivi civili parzialmente o completamente distrutti in Yemen sono almeno 207. Più di 4300 i morti. 15,2 milioni di persone non hanno accesso alle cure mediche e 20 milioni non hanno a disposizione acqua potabile. Secondo dati UNOCHA, il 95% delle morti nel conflitto in Yemen è dovuto all’uso di armi esplosive in aree residenziali.

Nell’area di Aden, le forze houthi sono state costrette a ritirarsi, incalzate dalle forze leali all’ex Presidente Hadi. Decisivo è stato l’intervento di truppe degli Emirati. Una divisione corazzata è penetrata in Yemen con centinaia di mezzi e almeno tremila uomini tra sauditi e soldati del Golfo, con la successiva riconquista delle province di Lahj, Ibb e della città di Lawder. Il gruppo al-Hirak (Movimento indipendentista del sud), i cui membri hanno combattuto ad Aden, non ha alcun interesse a raggiungere la capitale Sana’a con le truppe della coalizione saudita.

Sollecitato l’United Nations Human Rights Council, da organizzazioni non governative ad istituire una commissione d’inchiesta, per indagare sulle gravi violazioni del diritto internazionale umanitario commesse dalle parti in lotta nel conflitto in Yemen.

Chiuso per 48 ore l’al-Sabeen Hospital, il maggiore ospedale di Sana’a, per mancanza di farmaci e materiale sanitario.

Le truppe saudite entrano nel nord del Paese, per la prima volta dall’inizio del conflitto. Supportate da Qatar, Egitto e Emirati Arabi Uniti. Continuano i bombardamenti governativi sulle postazioni houthi. Distrutta dalla coalizione sunnita, guidata dall’Arabia Saudita, una base militare dei ribelli houthi nella provincia di Marib. Raid aerei anche sulla capitale Sana’a e sulle città di Sarwah e al-Jufaineh, nello Yemen centrale. Colpite postazioni dei miliziani sciiti Houthi. Raid aerei colpiscono depositi di armi a Hagga, Marib, Hodeida, Bayda e Sana’a.

Dopo avere riconquistato Aden, le truppe dei Paesi del Golfo sono impegnate in un’avanzata di terra che mira a conquistare tutta la provincia di Mareb e in particolare l’altura di Talal al Balas, per poi avvicinarsi alla capitale Sana’a. Sono circa 10mila i soldati dei Paesi arabi alleati entrati a Mareb via terra dal confine saudita, muniti di armi pesanti.

Dopo 6 mesi di esilio in Arabia Saudita, il presidente yemenita Abd Rabbo Mansur Hadi rientra a Aden, nel Sud del Paese.


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Agosto 2015 – Dall’inizio del conflitto almeno 3.800 morti, tra cui 398 bambini, 19.000 feriti, tra cui 605 bambini, e 1.267.590 milioni di rifugiati, tra cui 624.000 bambini. Solo nelle prime due settimane di agosto, uccisi 34 e feriti 85 civili. Secondo i dati dell’UNHCR, dallo scorso marzo 28.596 rifugiati yemeniti sono arrivati in Somalia, tra cui 12.000 bambini, 23.360 a Gibuti, 706 in Etiopia. Tra i Paesi di arrivo degli yemeniti in fuga dalla guerra anche Oman e Arabia Saudita. Nel sultanato mediorientale sono stati registrati 5 mila arrivi dell’inizio del conflitto, mentre il numero di yemeniti in Arabia Saudita è salito a circa 30 mila negli ultimi quattro mesi.

Sotto i colpi di un raid aereo ogni dieci minuti, 16 milioni di persone necessita di assistenza internazionale, 330 mila sono gli sfollati interni, 12 milioni gli individui a rischio insicurezza alimentare. Un milione e 300mila bambini non hanno cibo in Yemen mentre l’Arabia Saudita blocca gli aiuti delle organizzazioni umanitarie. 5,9 milioni di bambini combattono contro la denutrizione.

Continuano i bombardamenti governativi su aree della provincia di ‎Taiz‬, ‎Hodeida‬, ‎Abyan‬, ‎Saada‬ e ‎Hajjah‬. Le forze lealiste riprendono il controllo della città di Loder, l’ultima città rimasta in mano ai ribelli houthi, nell’area di Abyan, e delle città di Shabwa e Taiz. Sotto assedio la città di Ibb dalle unità della Resistenza Popolare yemenita (pilastro delle forze fedeli al presidente Hadi). Gli Houthi mantengono il controllo su Sana’a e sull’estremo nord dello Yemen, nelle aree delle montagne di Saada.

Nell’ultimo report Amnesty International accusa di attacchi indiscriminati ai civili la Coalizione saudita e i gruppi armati che supportano e si oppongono agli houti. In particolare documenta le violenze nelle città meridionali di Aden e Taiz.

Secondo i dati dell’UNICEF, chiuse in due mesi di conflitto almeno 3600 scuole in Yemen. 1,8 milioni di bambini sono rimasti attualmente senza educazione scolastica.

Amnesty International “Nowhere safe for civilians. Airstrikes and ground attacks in Yemen”

Nena News Agency “In Yemen si muore nel silenzio” di Federica Iezzi

Il Manifesto 26.08.2015 “Se la terra promessa è la Somalia” di Federica Iezzi


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Luglio 2015 – È salito a circa quattromila morti il bilancio del conflitto in Yemen. Lo ha denunciato a Ginevra il portavoce dell’Organizzazione mondiale della sanità, Tarik Jasarevic. Le vittime della guerra sono 3.984, compresi 1.859 civili e 365 bambini. I feriti sono circa 19.300, tra i quali 4.200 civili e 484 bambini.

Il blocco imposto al Paese impedisce l’afflusso di carburante, cibo e generi di prima necessità, un disastro per un paese nel quale più di 3 milioni di persone contavano sugli aiuti alimentari internazionali prima della guerra.

Nella città di Taiz i militanti di al-Qaeda e gli uomini armati del gruppo jihadista al-Islah hanno attaccato il carcere centrale e liberato 1.200 ribelli. Questa è la terza operazione terroristica contro un carcere yemenita per liberare i terroristi. In precedenza i militanti avevano attaccato la prigione centrale di Sana’a e un carcere della provincia di Amran.

Bombardamenti sauditi sulla città di Beni-Hassan, in Yemen nord-occidentale, colpito un mercato, al termine del digiuno del Ramadan. Gli Houthi hanno per settimane bombardato in modo indiscriminato le aree residenziali della città di Aden.

I ribelli sciiti hanno respinto la proposta di tregua di cinque giorni offerta ieri dall’Arabia Saudita, dopo violenti raid condotti contro la città portuale di Mokha.

Sfruttando il sostegno logistico dell’esercito di Riyad e la copertura aerea dei suoi caccia, le milizie della Resistenza Popolare, fedeli al presidente Abdrabbuh Mansour Hadi, hanno ripreso il controllo del palazzo presidenziale sulla collina di Al-Maashiq. Tornano sotto il controllo delle forze governative anche: lo scalo aeroportuale di Aden, la provincia meridionale di Dalea, la città di ‎Zinjibar e la base militare di al-Anad e la città di Huta a ‎Lahej‬, nel sud del Paese.

I crimini di guerra e la carenza di cibo e rifornimenti stanno provocando per la popolazione una doppia sofferenza, causata non solo dalle diverse parti del conflitto, ma anche dalla Risoluzione 2216 (2015) adottata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ad aprile. Proposta dalla Giordania e supportata attivamente da Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, l’obiettivo dichiarato della Risoluzione, ai sensi del capitolo 7 della Carta dell’ONU, era di porre fine alla violenza in Yemen, anche attraverso un embargo sulle armi agli houthi. In questo modo la coalizione militare ha avuto carta bianca per bombardare tutte le infrastrutture, come strade, aeroporti e distributori di benzina, che potevano avvantaggiare i ribelli dal punto di vista militare e imporre restrizioni sul commercio aereo e marittimo che hanno rapidamente isolato l’intero paese dal mondo esterno.


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Giugno 2015 – Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, le vittime civili hanno raggiunto le 2.584, mentre i feriti sarebbero 11.065.

Rapporti delle organizzazioni per i diritti umani affermano che nello Yemen ci sono state consistenti violazioni del diritto internazionale: l’uso, da parte dei sauditi, di bombe a grappolo, fabbricate negli Stati Uniti, il bombardamento indiscriminato di Saada, attacchi vendicativi e punitivi contro i civili e le loro proprietà ad Aden da parte degli Houthi, l’uso di bambini soldato.

Un embargo, garantito da forze navali statunitensi, impedisce l’arrivo di qualunque aiuto umanitario. Mancano acqua, medicine, cibo, energia elettrica e carburante per milioni di persone.

Gli ospedali del Paese non sono in grado di far fronte alle urgenze in quanto mancano le medicine. Chiusi 160 centri medici per mancanza di sicurezza, materiali e carburante. Nell’area di Aden focolai epidemici di febbre emorragica Dengue.

Attacco sferrato dalla coalizione a guida saudita ha causato la distruzione di tre edifici della città vecchia della capitale yemenita Sana`a.


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Maggio 2015 – Duemila morti, ottomila feriti e 16 milioni di persone senza più accesso all’acqua potabile: sono i risultati della guerra in Yemen fra ribelli houthi e forze arabe guidate dall’Arabia Saudita, secondo un recente rapporto di Amnesty International. Per l’Organizzazione Mondiale della Sanità, fra le vittime 234 bambini. Milioni di persone vivono assediate dai combattimenti, senza accesso ad acqua potabile e servizi ospedalieri. L’ONU documenta circa mezzo milione di yemeniti sfollati, in fuga dalle bombe e dai combattimenti.

I colloqui voluti dalle Nazioni Unite per porre fine al conflitto nello Yemen, previsti per il 28 maggio a Ginevra, sono stati posticipati allontanando così l’ipotesi di mettere fine al conflitto nel Paese.

Continuano i combattimenti in diverse zone di Aden: nei distretti centrali di Mualla e Khor Maksar. Aerei da guerra della coalizione hanno colpito una base militare houthi nella capitale Sana’a.


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Aprile 2015 – I bombardamenti nel paese, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, avrebbero provocato già 750 morti dallo scorso marzo. Secondo l’ONU, sono almeno 405 i civili uccisi nei bombardamenti e oltre 120. 000 gli sfollati del paese.

L’offensiva militare guidata dall’Arabia Saudita continua con bombardamenti quotidiani contro i ribelli sciiti Houthi. Questi ultimi hanno il controllo di Bab el-Mandeb e gran parte della città di Aden. Intanto continuano i combattimenti tra i ribelli houthi e i sostenitori del presidente del Paese Hadi, a Taiz, Ataq e al-Said, nel sud dello Yemen.

Cambi di alleanze stanno segnando il conflitto: allontanamento diplomatico dell’Algeria, che si è rifiutata di entrare nella coalizione anti-Houthi, neutralità del Pakistan, prima al fianco di Riyadh, avvicinamento dell’Oman all’Iran, distacco della Turchia, che continua a combattere e finanziare insieme al Qatar i jihadisti contro i governi e le milizie sciite. Rimangono schierati con determinazione al fianco dei sauditi Egitto e Emirati Arabi Uniti.


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Marzo 2015 – Nella notte tra mercoledì 25 e giovedì 26 marzo raid aerei dell’Arabia Saudita e della coalizione dei paesi arabi (Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Bahrein, Qatar, Egitto, Marocco, Giordania, Sudan, Pakistan) hanno colpito postazioni dei ribelli sciiti houthi, che nelle ultime settimane hanno preso il controllo della capitale Sana’a e di altri territori nell’ovest del Paese.
Bombardati l’aeroporto di Sana’a, le provincie nord-occidentali di Sa’dha e di Hajjah, vicino al confine con l’Arabia Saudita, roccaforte degli sciiti, la base militare al-Dulaimi, il campo sfollati di El-Mazraa.

L’Arabia Saudita ha dispiegato 100 aerei da caccia, 150mila militari e unità navali.

L’intervento saudita è stato condannato dai paesi a maggioranza sciita, con in testa l’Iran . Critiche da Russia, Siria, Iraq e dal partito sciita libanese Hezbollah. Stati Uniti e Gran Bretagna, insieme alla Lega Araba, sostengono invece l’incursione in Yemen.

Militanti dello Stato Islamico hanno compiuto attentati in due moschee sciite della capitale Sana’a, uccidendo 137 persone.


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La storia recente dello Yemen, è cambiata tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012, quando, dopo molte pressioni, Ali Abdullah Saleh, il capo del Paese da oltre trent’anni, ha accettato di lasciare il potere e Abdel Rabbo Monsour Hadi è diventato il nuovo presidente.

Contro Hadi i ribelli di al-Qaeda, guidati da Nasser al Wuhayshi, nel sud del Paese, e gli sciiti houthi, appoggiati dalle forze fedeli all’ex presidente Saleh e dall’Iran, nel nord del Paese.

L’insurrezione yemenita vede in prima fila, gli houthi, un gruppo armato sciita che negli ultimi mesi ha conquistato il potere. Lo scorso settembre gli houthi, originari del nord del paese, sono entrati a Sana’a, la capitale e l’hanno conquistata. Hanno dissolto il parlamento, posto agli arresti domiciliari il capo dello Stato e istituito un processo di transizione di due anni sotto la loro leadership. Si tratta, praticamente, di un colpo di stato anche se non ufficialmente riconosciuto.
Abdel Rabbo Monsour Hadi trova rifugio a Aden, poi a Riyadh, la capitale saudita, da dove ha messo insieme forze leali per combattere gli sciiti.

Intanto a Sana’a è cresciuta l’opposizione contro gli houthi, in prima fila c’è al-Qaeda, nella penisola arabica, il movimento rivoluzionario dei giovani e i gruppi secessionisti provenienti dalle tribù del sud.
In pericolo la stabilità dell’intera regione dove i focolai di guerra civile sono già molti e dove lo Stato Islamico si presenta come la migliore soluzione politica per i sunniti.

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Il nuovo Iraq che non ha posto per i cristiani

Nena News Agency – 06 agosto 2015

Da più di un milione, oggi la popolazione cristiana in Iraq arriva appena a 300 mila anime. ISIS e sostegno straniero le cause di un eccidio silenzioso 

An Iraqi Christian child rests on a phew inside the Church of the Virgin Mary in the town of Bartala, on June 15, 2012, east of the northern city of Mosul, as some Iraqi security remain in the town to protect the local churches and community.  The exiled governor of Mosul, Iraq's second city which was seized by Islamist fighters last week, has called for US and Turkish air strikes against the militants.  AFP PHOTO/KARIM SAHIB

di Federica Iezzi

Baghdad, 6 agosto 2015, Nena News – Le perplessità dei cristiani da Mosul a Qaraqosh sono le stesse. Quale sarà il nostro futuro qui? Come possiamo convincere i nostri giovani a rimanere nel loro Paese? Come possiamo ricostruire le nostre case? Come possiamo avere indietro il nostro lavoro? Da più di un milione, oggi la popolazione cristiana in Iraq arriva appena a 300 mila anime.

“I jihadisti dello Stato Islamico, i sunniti più estremisti, agli ordini di al-Baghdadi possono essere fermati oggi solo da una reazione dei sunniti moderati, in Medio Oriente” ci dice un sacerdote secolare siro-cattolico dell’arcieparchia di Hassaké-Nisibi.

Lo Stato Islamico autonominato non è nato nel vuoto. Si è nutrito di città sunnite una dopo l’altra, del sostegno delle popolazioni sunnite che subirono brutali rappresaglie settarie dal governo di al-Maliki, appoggiato dagli Stati Uniti. La storia dell’Iraq non è legata all’ISIS, ma è quella di una guerra faziosa eternamente in corso tra musulmani sunniti e sciiti.

Quando i combattenti dell’ISIS presero il controllo di aree sunnite nell’Iraq occidentale un anno fa, incoraggiarono violenza e rabbia contro il governo sciita di Baghdad, al potere dal 2003. Per i sunniti e l’ISIS, il governo di Baghdad è stato un nemico comune. Si creò un matrimonio di necessità. Oggi attriti e crepe si rincorrono nel rapporto ISIS-sunniti per le pesanti richieste di fedeltà del Califfato nero e l’assillante esigenza di attuare la shari’a.

La dottrina fondamentalista sunnita è complice dunque nell’eccidio dei cristiani in Iraq. Terreno fertile coltivato poi dalla legge dell’ISIS. Non sono consentiti simboli cristiani. Introdotta la “tassa religiosa”, obbligatoria ai non musulmani. Le case dei cristiani a Mosul sono marchiate dalla lettera araba N (nun) che sta per ‘Nasara’ (nazareni). I luoghi di culto oggi sono cenere. Conversione, fuga o morte. E’ questo che potevano scegliere i cristiani nel nord dell’Iraq. “I cristiani in Iraq, per ironia della sorte, si sentivano più sicuri sotto Saddam Hussein” racconta avvilito padre Issah, il sacerdote siro-cattolico.

Quando qualche mese fa Rahel tornò nella casa dove viveva a Tel Tamar, nel nord-est della Siria, trovò davanti la sua terra un cartello che diceva ‘Proprietà dello Stato Islamico’. L’ISIS ha preso il controllo delle città cristiane, a maggioranza curda, nella valle del fiume Khabur, lo scorso giugno. A febbraio centinaia di cristiani sono stati costretti a lasciare i propri villaggi per le violente incursioni del gruppo estremista nelle aree di al-Hasakah e Qamishli. Si sono susseguiti sanguinosi assedi. La gente era affamata, le case bruciate, le chiese profanate e saccheggiate, i figli mutilati e i feriti trascinati lontani dalle granate. I miliziani hanno nascosto mine nelle case, nelle fattorie, nei campi e nelle antiche rovine cattoliche. I risultati sono stati: l’uccisione di più di due dozzine di civili, il sequestro di circa 300 e la fuga di almeno 2.500 persone.

Costretti a lasciare le proprie case e passare anni in campi profughi, i cristiani di Siria e Iraq restano nel mirino dei gruppi jihadisti. Circa 200 mila cristiani iracheni hanno trovato rifugio in Kurdistan. Almeno 138 mila cristiani siriani hanno oggi lo status da rifugiato in Libano e paesi limitrofi.

In città come Aleppo i cristiani imbracciano le armi contro i ribelli dell’Esercito Siriano Libero. In altre, combattono contro i jihadisti dell’ISIS a fianco dei peshmerga curdi ad Arbil in Iraq, o dell’Esercito Nazionale Siriano ad al-Hasakah, in Siria. Comunità decimate e in frantumi in mezzo al lungo conflitto in Siria, e nella terra dello Stato Islamico di Mosul e della piana di Ninive in Iraq.

La maggior parte dei siriani siriaci sostiene il governo di al-Assad. “I ribelli locali, perfidamente spalleggiati dal governo turco, hanno interamente distrutto case e chiese cristiane in villaggi come Kassab, nella provincia di Latakia, Maaloula, a nord-est di Damasco, Homs e non certo come danni collaterali da colpi lanciati contro le forze governative. L’esercito di Damasco ha ripreso il controllo di città cristiane, come prova della determinazione di al-Assad di proteggere le minoranze religiose”, ci dice esaltato Ouseph. E continua “Dall’altra parte non c’è opposizione democratica, solo gruppi estremisti. Nè Daesh nè ribelli sono i nostri vicini islamici con cui abbiamo convissuto serenamente per anni”.

Yacoubieh è un villaggio a maggioranza cristiana nella provincia nord-occidentale di Idlib, sotto il controllo dei miliziani di Jabhat al-Nusra, braccio siriano di al-Qaeda, da quando all’inizio di quest’anno sono state allontanate le forze di regime. “I nostri figli sono senza cibo, acqua e medicine. Non c’è elettricità per 15 ore al giorno”, ci raccontano le voci dei frati francescani, dal convento colpito da un missile solo una settimana fa. Limitati da posti di blocco militari gli ingressi e le uscite ai quartieri. “Annientare chiese e monasteri, rapire ecclesiastici, affamare la popolazione sono solo alcuni dei crimini che i ribelli commettono contro la comunità cristiana di Siria e Iraq”, continuano.

I cristiani hanno camminato per le strade irachene e siriane per più di mille anni. Oggi c’è silenzio. Ogni strada è deserta. Case e beni abbandonati alle depredazioni anti-governative che Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Israele, Arabia Saudita, Qatar, Turchia e i loro alleati sostengono. Nena News

Nena News Agency “Il nuovo Iraq che non ha posto per i cristiani” di Federica Iezzi

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Tra i minatori di carbone a Donetsk

Frontiere News – 04 agosto 2015

Donetsk oggi sembra una città fantasma, eppure è tutt’altro che vuota. Negli scantinati sotto le macerie delle case vivono, rannicchiate sotto le coperte, ancora centinaia di persone. Raccolgono l’acqua dalle pozzanghere sporche, mangiano e dormono in spazi segnati da secchi traboccanti di acqua piovana

Eastern Ukraine - Donetsk underground shelter 2 - Photo by Pavel Makeev

di Federica Iezzi

Donetsk (Ucraina) – Con pochi soldi, poco cibo e poche medicine, la gente a Donetsk ha ancora paura di lasciare i rifugi sotterranei.

L’atteggiamento degli uomini di Aleksandr Zakharcenko, leader dell’autoproclamata repubblica di Donetsk, nei confronti di tutti coloro che hanno voluto o potuto lasciare le loro case nella zona controllata dai ribelli, si è indurito.

Per l’ingresso nelle aree orientali ucraine, non controllate dal governo di Porošenko, nuove procedure di autorizzazione bloccano i movimenti degli sfollati e intralciano l’ingresso di aiuti umanitari.

Vanko, un lavoratore delle miniere di carbone del Donbass, ci dice che la percezione della gente sui negoziati di pace di Minsk sembra quella di forzare il reinserimento della regione di Donetsk nella repubblica Ucraina. E come? Rendendo la vita miserabile per uomini e donne che rimangono nelle zone ribelli, arrivando perfino ad utilizzare la carestia forzata.

“L’azione militare su Donetsk ha solo aggravato problemi già esistenti”, continua Vanko. “Strade ghiacciate per tutto l’inverno, negozi sbarrati, case fatiscenti ferite da esplosioni. Nessuna abitazione ha il telefono fisso e non esiste un gasdotto che serve la città”.

Vanko ci racconta che ha dormito per mesi in uno scantinato umido, senza sentire mai l’aria fresca di Donetsk. La miniera di carbone dove lavorava è stata abbandonata e quando i lavoratori sono tornati, hanno trovato crolli e allagamenti. Distrutti circa quattro milioni di sterline di attrezzature. Oggi i minatori sono tornati a lavoro con turni estenuanti, l’ultimo salario risale a mesi fa.

Aneta ci racconta che tutti preferiscono rimanere a dormire nei seminterrati. “Non c’è niente da mangiare, non c’è niente da fare”. La gente dei sotterranei, come viene chiamata qui, non sarà conteggiata ufficialmente tra le oltre 5.000 persone che hanno perso la vita, nella guerra nell’Ucraina dell’est, ma l’esistenza per loro ha assunto un gusto amaro, ha raggiunto un peso inaccettabile.

Alla stazione degli autobus si parla di dove è possibile ottenere aiuti alimentari. “Fino a poche settimane fa era pericoloso anche uscire e mettersi in coda per avere la tua razione di cibo” ci dice Aneta, con le lacrime agli occhi, “non mi fido delle strade crivellate di Donetsk”.

Molti anziani durante i combattimenti sono rimasti nelle loro case senza riscaldamento, mentre le temperature fuori scendevano regolarmente sotto i 22 gradi. Mortai e razzi non hanno risparmiato i loro muri e le loro porte. Non hanno potuto lasciare le loro case perché senza soldi e perché non avevano un posto in cui andare. Aspettano da mesi farmaci troppo costosi, che a Donetsk non entrano con i convogli di aiuti umanitari.

Oggi le persone anziane continuano a morire per polmoniti e altre infezioni, a causa della scarsità di medicine e della difficoltà di accesso alle cure mediche.

Colpiti duramente i quartieri periferici della città, come quello di Kievsky, dove vivevano i più poveri. Strade una volta trafficate sono oggi deserte, case totalmente distrutte dall’artiglieria oggi sono abbandonate.

La disoccupazione è incalcolabile nelle regioni ribelli di Donetsk e Luhansk. Le imprese hanno chiuso e gli imprenditori sono fuggiti. A questo si aggiunge la decisione del governo di Kiev di smettere di pagare le pensioni nelle aree controllate dai ribelli. Molti uomini sono tentati dalla promessa di uno stipendio con le milizie filorusse. “Kiev sembra aver dimenticato il suo popolo”, ci dicono.

Quando è ancora buio, piccoli gruppi di donne e bambini, nascosti sotto vecchi vestiti e sciarpe, si radunano davanti a cadenti magazzini da cui si distribuiscono prodotti alimentari e per l’igiene.

Ogni giorno gli sfollati si organizzano in una coda, tutti con grandi ombre scure sotto gli occhi. Aspettano pazientemente in silenzio. Scandiscono i loro nomi e si registrano, mentre chiacchierano tra di loro. I volontari delle Nazioni Unite chiedono alle mamme se i bambini hanno bisogno di assistenza particolare. La risposta delle donne è simile a quella data da Dasha, una ragazza magra e sfiorita di poco più di 25 anni “Mio figlio è rimasto troppi mesi in un rifugio sotterraneo, senza vedere mai il cielo e il sole, mentre le bombe distruggevano il nostro quartiere. È solo spaventato”.

Dasha ci racconta che il piccolo Yaroslav, nella casa sotterranea, come la chiamava lui, piangeva perchè era sempre buio. “Avevamo bisogno di medicine, cibo, coperte. Ma quello che arrivava era solo il frastuono dei carri armati, attutito dalla neve”. Questo è il mondo di Yaroslav, il luogo in cui si trova a dover imparare a parlare e camminare.

Nei sotterranei la gente si riscaldava con il carbone delle miniere di Donetsk. Non era sicuro utilizzare legna da ardere presa nei boschi, a causa della presenza di esplosivi.

L’UNICEF ha stimato che più di 1000 bambini hanno vissuto per più di cinque mesi nei bunker di epoca sovietica di Donetsk. Ricreati parchi giochi, dietro i muri di cemento e le spesse porte di metallo, mentre il tonfo dei colpi di mortaio sostituiva il suono delle campanelle della scuola. Circa 5,2 milioni di persone vivono attualmente nelle zone di conflitto in Ucraina. 1,7 milioni dei quali sono bambini. 1.382.000 i rifugiati interni, 900.000 i rifugiati nei Paesi vicini.

Tra i letti di fortuna, vicino a Yaroslav, dormono Michael e Kostia, due fratelli di cinque anni. “A volte piace loro disegnare. Automobili, squadra di calcio preferita, persone, pianeti”, ci racconta la loro madre.

Appesi alle pareti, tuttavia, ci sono solo le immagini di carri armati, combattenti, pezzi di artiglieria e sistemi missilistici.

Le bambine si concentrano sui loro libri da colorare. Yuliya, sei anni, sfoggia la sua nuova magliettina rossa e ci dice “Voglio essere una pittrice quando sarò grande”.

La nonna di Yuliya ci dice che la bambina aveva iniziato la scuola nello scorso ottobre e la sua insegnante durante i bombardamenti la chiamava al telefono per continuare le lezioni. “Mi piacciono tutte le materie a scuola, ma le mie preferite sono il disegno e la matematica” ci dice entusiasta la piccola.

La maestra ha raccontato a Yuliya che la loro scuola nel quartiere di Petrovka, a Donetsk, è stata abbandonata. Le finestre sono state distrutte dal fuoco dell’artiglieria. Ora sono state sostituite con plastica. All’inizio del conflitto i bambini potevano andare a scuola per due giorni alla settimana.

La nonna di Yuliya ci dice che ha vissuto per settimane in un angusto rifugio sotterraneo, a dieci metri di profondità, costruito ai tempi di Stalin, insieme ad altri 26 adulti e 11 bambini. Una singola stufa per scaldarsi. Ci racconta che prima del cessate il fuoco, pesanti bombardamenti accompagnavano la notte. Iniziavano alle 23 e continuavano fino alle 5 della mattina dopo. “A volte eravamo impauriti dal silenzio”. I bambini ormai riconoscevano la differenza tra un colpo di mortaio e il rumore della botola che puntualmente batteva chiudendosi sulle loro teste.

I bambini più grandi sapevano addirittura distinguere i rumori dei lanciarazzi Smerch, dai più piccoli BM-27 Uragan e dai più grandi missili OTR-21 Tochka.

Rimangono ancora tutti nei rifugi antiaerei. “Ogni volta che usciamo, rischiamo di essere uccisi da una granata” dicono i giovani genitori. “E’ come essere in prigione”.

Le donne cucinano a volte al di fuori del rifugio su un fuoco da campo, dopo aver steso la biancheria su corde tese tra gli alberi. L’acqua è fredda e quando c’è l’elettricità viene scaldata nei bollitori. Spesso nei rifugi si usano lampade e candele.

Le famiglie con pochi risparmi, hanno aspettato in fila e lottato per stiparsi nei popolari autobus che li avrebbero allontanati da bombe e distruzione.

Molti sono fuggiti nella stazioni ferroviarie. Nelle sale d’attesa affollate, la gente è rimasta in coda per giorni per ottenere biglietti del treno gratuiti per Kiev.

Donetsk oggi sembra una città fantasma, eppure è tutt’altro che vuota. Entrando negli scantinati sotto le macerie delle case, nelle affollate stanze piene di letti, vivono rannicchiate sotto le coperte ancora centinaia di persone. Dipendono da aiuti umanitari. Raccolgono l’acqua dalle pozzanghere sporche. Mangiano e dormono in spazi segnati da secchi traboccanti di acqua piovana.

Una città di circa un milione di abitanti, ora vive per poche migliaia di anime.

Frontiere News “Tra i minatori di carbone a Donetsk” di Federica Iezzi

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