BURUNDI. Proteste contro il terzo mandato di Nkurunziza

Nena News Agency – 29 aprile 2015

Manifestazioni dell’opposizione in tutto il paese. Le autorità hanno stretto la morsa su radio e televisioni, le scuole sono rimaste chiuse e gruppi di studenti sono scesi in piazza. La candidatura dell’attuale presidente alle elezioni del 26 giugno viola gli accordi di Arusha, che hanno messo fine a oltre un decennio di guerra civile

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di Federica Iezzi

Bujumbura (Burundi) – Terzo giorno di feroci proteste nella capitale del Burundi. Secondo i dati dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA), dopo l’annuncio della candidatura, alle prossime elezioni del 26 giugno, dell’attuale presidente Pierre Nkurunziza, i partiti di opposizione e i leader della società civile hanno organizzato manifestazioni in tutto il Paese.

Nkurunziza vinse le ultime elezioni presidenziali con l’88% di preferenze. Salito al potere nel 2005, dopo aver guidato un gruppo di ribelli durante la guerra civile di 12 anni che ha annientato socialmente ed economicamente il piccolo stato africano, è rimasto poi in carica per due mandati. Oggi il tentativo di cercare un terzo incarico appare incostituzionale e contrario allo spirito dell’accordo di pace e riconciliazione di Arusha del 2000, che ha chiuso un decennio di guerra civile nel Paese.

Gli Accordi di Arusha, hanno accompagnato all’epilogo il sanguinario conflitto, che ha ucciso più di 300.000 persone, tra l’esercito di minoranza tutsi e i gruppi ribelli hutu. Essi limitano la funzione presidenziale a due mandati e prevedono la condivisione del potere tra i gruppi etnici del Paese.

L’ultimo rapporto di Amnesty International segnala violenze pre-elettorali, aggressioni e intimidazioni da parte dei membri dell’Imbonerakure, ala giovanile del CNDD-FDD (Conseil National pour la Défense de la Démocratie-Forces de Défense et de la Démocratie), partito di Nkurunziza.

Per l’impunita condotta di abusi, 20.408 burundesi hanno cercato rifugio in Rwanda nel corso delle ultime due settimane, secondo gli ultimi dati dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR). Almeno 16.000 rifugiati, sono stati spostati dai due centri di accoglienza di Bugesera e Nyanza, nel Rwanda orientale e meridionale, al nuovo campo profughi Mahama, nel distretto orientale di Kirehe. I numeri dell’UNHCR, in rapida crescita, parlano di 4.000 civili burundesi rifugiati nella Repubblica Democratica del Congo e poco più di un centinaio in Tanzania.

L’esercito governativo del Burundi ha arrestato 157 persone durante le ultime proteste. Secondo Human Rights Watch, la polizia, guidata da André Ndayambaje, ha usato gas lacrimogeno, cannoni ad acqua e proiettili veri contro i manifestanti.

Le emittenti locali, come Radio Isanganiro, parlano di almeno sei morti. Le autorità hanno posto restrizioni ai media locali, già bloccate le trasmissioni di tre stazioni radio popolari. Linee telefoniche tagliate. Scuole, università e negozi del centro di Bujumbura sono chiusi. Le proteste si sono concentrate nei quartieri periferici. Cortei di studenti anche nella città di Gitega, sulla linea della campagna dell’opposizione “Stop the Third Term”.

Già qualche settimana fa, erano state arrestate 65 persone che manifestavano contro un terzo mandato dell’attuale Presidente, notizia tenuta celata dalle autorità locali. Nel mese di febbraio licenziato, dopo soli tre mesi di lavoro, il leader dell’intelligence del Burundi, Godefroid Niyombare, apertamente schierato contro il terzo mandato di Nkurunziza. Nena News

Nena News Agency “BURUNDI. Proteste contro il terzo mandato di Nkurunziza” – di Federica Iezzi

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REPORTAGE. Miseria e sangue a Yarmouk

Il Manifesto – 18 aprile 2015

La guerra siriana. Nel campo palestinese alle porte di Damasco, dove continuano i combattimenti. popolazione senza acqua né cibo: è emergenza umanitaria. E dopo l’attacco dell’Isis gli abitanti sono passati da 160 mila a 6 mila. Restano i giovani, che “non andranno via se non per tornare in Palestina”

Damascus (Syria) -  Children walk beside a painted wall inside Jarmaq school in Yarmouk camp

Damascus (Syria) – Children walk beside a painted wall inside Jarmaq school in Yarmouk camp

di Federica Iezzi

YARMOUK (DAMASCO), 17.4.2015 – Espulsi i com­bat­tenti pale­sti­nesi di Aknaf al-Bayt al-Maqdes, lo Stato Isla­mico esce dal campo di Yar­mouk, a sud di Dama­sco, e rien­tra nella sua roc­ca­forte, il quar­tiere di Hajar al-Aswad. È così che fun­zio­nari pale­sti­nesi descri­vono ai media la situa­zione attuale a Yarmouk.

In realtà i com­bat­ti­menti con­ti­nuano all’ingresso nord del campo. Il gruppo armato pale­sti­nese legato a Hamas prende il con­trollo di strade ed edi­fici peri­fe­rici e avanza verso la parte nor­dest. Al Fronte al-Nusra, affi­liato ad al-Qaeda, rimane il con­trollo della mag­gior parte di Yarmouk.

Il campo, isti­tuito nel 1957, prima del con­flitto siriano ini­ziato nel 2011 ospi­tava circa 160.000 pale­sti­nesi. Tutti rifu­giati e discen­denti della Nakba, l’esodo pale­sti­nese del 1948. Dopo due anni di asse­dio, qual­che set­ti­mana fa l’attacco dei com­bat­tenti jiha­di­sti ha ridotto la popo­la­zione a 6000 abi­tanti. Almeno 47 civili sono stati uccisi durante gli scon­tri e 60 sono ancora in con­di­zioni critiche.

Secondo i dati for­niti dall’Organizzazione per la Libe­ra­zione della Pale­stina a Dama­sco, 500 fami­glie, circa 2.500 per­sone sono riu­scite a fug­gire da Yar­mouk all’inizio dei com­bat­ti­menti, attra­verso due uscite nel distretto di Zahira. «I gio­vani di Yar­mouk rima­sti, non andranno via se non per tor­nare in terra pale­sti­nese» dice Hus­sam, di 23 anni. «La mag­gior parte dei gio­vani ha diser­tato dall’esercito e teme di essere arre­stata dalle forze siriane». Quindi riman­gono tutti intrap­po­lati tra ele­menti armati all’interno del campo e forze gover­na­tive esterne.

Oggi nelle con­ge­stio­nate stra­dine di un ghetto impo­ve­rito, con fori di pro­iet­tile tra casa e casa, regna la mise­ria, man­canza di cibo, acqua pulita ed elet­tri­cità. I muri sono segnati dai colpi dei pro­iet­tili e dal rosso del san­gue indu­rito.
L’acqua pota­bile arriva dai pozzi aperti che fun­zio­nano gra­zie a impianti a car­bu­rante. Il costo di un litro di car­bu­rante è salito di circa il 30%. 130 syrian pounds, poco meno di un dol­laro. Allora i bam­bini riem­piono con­te­ni­tori di pla­stica gialla con acque reflue, non trat­tate, pro­ve­nienti da pozzi sca­vati sulla super­fi­cie delle strade del campo. «Ha il sapore di tutto tranne che dell’acqua», rac­con­tano i residenti.

Nelle cen­trali Pale­stine street e al-Madares street solo distru­zione e mas­sa­cri. Fram­menti di vetro, mace­rie e pol­vere inco­lore. «Finiti rava­nelli e ver­dure di base, adesso man­giamo l’erba», è l’inammissibile rac­conto di donne magre, con occhi infos­sati. In lon­ta­nanza il fumo gri­gio che sale e il rumore assi­duo di raf­fi­che di mitra e dei Mig.

«Le strade sono abban­do­nate e piene di detriti – rac­conta Hadeel -, le per­sone riman­gono nasco­ste nelle loro case, molte senza porte né fine­stre. Usciamo sotto il fuoco dei cec­chini siste­mati sugli edi­fici più alti e dei bom­bar­da­menti a cer­care acqua. L’Isis ha col­pito il pani­fi­cio Ham­dan, nel mezzo di Yar­mouk Street. Ci andavo ogni mat­tina».
Zayna, gio­vane madre, ci dice che nel campo manca tutto. Non sa cosa dare da bere ai suoi due bam­bini. Non sa come lavarli. Non sa come curarli dalla tosse. «Com­pro il pane arabo che entra nel campo insieme ai con­trab­ban­dieri a più di 10 dol­lari. Scendo a pren­dere acqua sporca nei ser­ba­toi. La rete elet­trica e i rubi­netti nelle case non fun­zio­nano».
Rama, un’infermiera senza più lavoro, ci dice: «Fuad e Salah, i miei figli, non sapranno mai cos’è un melo­grano. Non lo vedranno mai. Non man­giano frutta. Non la cono­scono». Il marito di Rama è nella pri­gione di Tad­mor, a nor­dest di Dama­sco, dal 2013. «Il motivo? Aver par­te­ci­pato a una mani­fe­sta­zione con­tro l’assedio del campo da parte delle forze di al Assad».

Mac­chie di san­gue e detriti segnano gli ingressi delle scuole. Nei due chi­lo­me­tri qua­drati di Yar­mouk, ci sono almeno 20 scuole gestite dall’Unrwa e altre ambi­gua­mente sov­ven­zio­nate dal ricco Occi­dente. I raid aerei e i colpi di mor­taio sulla densa area civile, non per­met­tono ai bam­bini di con­ti­nuare a stu­diare. Le scuole sono chiuse. Le lezioni sospese. Gli inse­gnanti non lavo­rano. I bam­bini non escono di casa.

Nella prima set­ti­mana di aprile il cor­tile della Jar­maq school è stata tea­tro degli scon­tri tra ribelli siriani, com­bat­tenti dell’Isis e forze gover­na­tive. Men­tre più di 50.000 inse­gnanti sono fug­giti dalla Siria o sono stati uccisi e 2 milioni e mezzo di bam­bini non vanno a scuola all’interno del Paese, deva­stato dalla guerra, alla Jar­maq school, le lezioni non si sono fermate.

Nidal, un’insegnante nata a Yar­mouk, ricorda la madre, cre­sciuta nel vil­lag­gio di Qisa­rya, a sud di Haifa, costretta a lasciare la sua casa e a rifu­giarsi in Siria. «Anche lei inse­gnava. E lo faceva con armo­nia nono­stante la rab­bia, il risen­ti­mento e la malin­co­nia che la divo­rava». La voce di Nidal si ferma per un attimo: «Non mi fanno paura i mor­tai e i kala­sh­ni­kov. Mi fa più paura l’ignoranza. Così con­ti­nuo ad andare a scuola. Fac­ciamo le lezioni in can­tina. Non ven­gono tutti i bam­bini. Ma anche se ce ne fosse solo uno, io con­ti­nue­rei a par­lare di let­te­ra­tura e mate­ma­tica».
Secondo i dati Unrwa, oggi si rie­sce a for­nire a Yar­mouk un aiuto irri­so­rio. Le razioni di cibo che entrano, bastano per assi­cu­rare appena 400 calo­rie al giorno per persona.

Gli abi­tanti non hanno accesso a cure medi­che. Qual­che giorno fa è stato bom­bar­dato dalle forze gover­na­tive il Pale­stine Hospi­tal. Da allora è chiuso. I com­bat­tenti hanno bloc­cato l’ingresso di aiuti uma­ni­tari da parte del Comi­tato Inter­na­zio­nale della Croce Rossa, nell’al-Basil Hospi­tal. E non hanno per­messo l’evacuazione dei feriti più gravi, secondo l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani.

Rad­wan è un anziano medico siriano, che vive a Yar­mouk da quando l’esercito gover­na­tivo ha col­pito la sua casa a Dara’a. La sua fami­glia è stata ster­mi­nata. Gli rimane una figlia che è riu­scita a lasciare la Siria: «Ora è in Libano – dice – ma il posto è cam­biato, il dolore l’ha seguita». Rad­wan lavo­rava nel Pale­stine Hospi­tal. Quel giorno, quando sono ini­ziati i raid aerei siriani, le sue mani veni­vano implo­rate da una stanza all’altra, tra tra­sfu­sioni e ferite da arma da fuoco. «Le ferite alla testa e le ossa rotte sono sem­pli­ce­mente curate con le bende», ci rac­conta affa­ti­cato. Fermo nelle sue idee, con­ti­nua: «Tutti quelli che com­bat­tono qui sono spon­so­riz­zati da qual­cuno. Sono tutti gio­ca­tori nella guerra in Siria: Ara­bia Sau­dita, Tur­chia, Qatar e Iran, e potenze mon­diali come gli Stati Uniti e la Russia».

L’ospedale non ha stru­menti chi­rur­gici, solo un eco­grafo e un appa­rec­chio per fare radio­gra­fie. Niente cure pre o post-natali. Il governo siriano for­ni­sce solo sali per la rei­dra­ta­zione e anti­do­lo­ri­fici di base.

«Viviamo in 98, tra cui 40 bam­bini, nelle tre classi della scuola di mio figlio». Non c’è rab­bia o iste­ria nella voce di Enaya, solo un rac­conto calmo dei fatti. «Un chilo di riso lo paghiamo quasi tre dol­lari, più di tre dol­lari un chilo di pomo­dori. Non c’è zuc­chero. L’acqua è sporca. E non abbiamo il per­messo di attra­ver­sare la terra di nes­suno sui bordi del campo, una volta al mese, per rac­co­gliere pac­chi alimentari».

Il Manifesto 18/04/2015 – “REPORTAGE. Miseria e sangue a Yarmouk” – di Federica Iezzi

Nena News Agency “REPORTAGE. Miseria e sangue a Yarmouk” – di Federica Iezzi

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REPORTAGE. I racconti dei sopravvissuti di Garissa «Cristiani da un lato, musulmani dall’altro»

Il Manifesto – 06 aprile 2015

Kenya. Tra gli studenti feriti durante l’attacco di al-Shabab al campus universitario. Chi non conosceva il Corano non ha avuto scampo. Ma in ospedale scatta la gara di solidarietà: persone di diverse etnie e religioni in fila per donare il sangue

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di Federica Iezzi

GARISSA (KENYA) – Le 16 ore dram­ma­ti­che nel cam­pus universitario di Garissa, nel Kenya del nord, a 150 chi­lo­me­tri dal con­fine somalo, sono ini­ziate gio­vedì scorso subito dopo l’alba, ora della salat al-fajr, la pre­ghiera isla­mica del mat­tino. Almeno cin­que uomini con volto coperto e pesan­te­mente armati, affi­liati al gruppo jiha­di­sta somalo al-Shabaab, hanno aperto il fuoco con­tro i custodi dei dor­mi­tori, riu­scendo a infil­trarsi in stanze, aule, biblio­te­che e labo­ra­tori dell’università. Char­les, stu­dente di scienze informatiche, rac­conta che dalla sua stanza al piano terra, ha sen­tito colpi di arma da fuoco e grida. Nel suo dor­mi­to­rio gli stu­denti sono stati divisi in gruppi, in base alla loro reli­gione. I non-musulmani sono stati giu­sti­ziati e i musul­mani sono stati liberati.

Il bilan­cio delle vit­time, ancora oggi prov­vi­so­rio, parla di 153 morti, tra cui 148 stu­denti e cin­que addetti alla sicu­rezza, e 104 feriti, tra cui 19 in con­di­zioni cri­ti­che. Già nella notte di gio­vedì il Natio­nal Disa­ster Ope­ra­tion Cen­ter kenyano, par­lava di 587 stu­denti eva­cuati dal cam­pus, su 850 iscritti. Almeno in cento man­cano all’appello, ma potreb­bero essere anche di più i gio­vani ancora nelle mani dei mili­ziani. Le forze armate di Nai­robi con­ti­nuano a pat­tu­gliare l’università. Jacob Kai­me­nyi, segre­ta­rio di Gabi­netto per l’Educazione, ha annun­ciato che la strut­tura rimarrà chiusa. A Garissa, Wajir, Man­dera e nella con­tea di Tana River, rimarrà il copri­fuoco dalle ore 18.30 alle ore 6.30, per due settimane.

Il mini­stro dell’Interno Joseph Nkais­sery, ha comu­ni­cato l’uccisione di quat­tro pre­sunti aggres­sori e dell’arresto di altri cin­que. Uno dei mili­ziani che hanno preso parte all’assalto sarebbe Abdi­ra­him Moham­med Abdul­lahi, kenyano, figlio del gover­na­tore della con­tea di Man­dera. Mente dell’attacco viene invece con­si­de­rato Mohammed Moha­mud Kuno, fino al 2000 diret­tore del Madrasa Najah Insti­tute a Garissa, una scuola cora­nica, ben noto come lea­der di al-Shabaab nella regione auto­noma di Juba­land, a sud della Soma­lia, che con­di­vide più di 700 chi­lo­me­tri di con­fine con il Kenya. Kuno ha riven­di­cato anche l’attacco a Man­dera, pic­colo centro al con­fine tra Kenya e Soma­lia, dove lo scorso novem­bre vennero uccisi 28 civili non musul­mani, a bordo di un auto­bus diretto a Nai­robi. Ed è col­le­gato all’attacco del set­tem­bre 2013 nel cen­tro com­mer­ciale West­gate a Nai­robi, quando 67 per­sone per­sero la vita in quat­tro giorni di asse­dio. Lati­tante dallo scorso dicem­bre, le forze dell’ordine kenyane hanno messo sulla sua testa una taglia di 220 mila dol­lari. E al-Shabaab minac­cia nuovi attac­chi fin­ché il Kenya man­terrà le truppe in Somalia.

La rispo­sta del Kenya Defence For­ces è arri­vata imme­diata domenica, con bom­bar­da­menti a tap­peto nei campi di Gon­do­dowe e Ismail, entrambi nella regione di Gedo, al con­fine tra Kenya, Etiopia e Soma­lia, fer­tile rete dei mili­ziani di Kuno.
I mili­ziani di Kuno hanno inten­zio­nal­mente scelto la Garissa Univer­sity Col­lege, per­ché iden­ti­fi­cata come facile obiet­tivo, pienamente con­sa­pe­voli della cor­ru­zione para­liz­zante e della carente gestione della sicu­rezza nella scuola. «Rumori di gra­nate, di colpi di arma da fuoco e di esplo­sioni ci hanno sve­gliate», raccontano Jene e Nadja, che divi­de­vano la stessa stanza del dormito­rio fem­mi­nile da 360 posti. «Con­ti­nua­vano a chie­dere se tutti noi era­vamo cri­stiani o musul­mani. Ci chie­de­vano di pronunciare versi del Corano in arabo. Chi non l’ha fatto è stato ucciso».

Jene ha volato con i pic­coli aerei dei fly­ing doc­tors al Kenyatta Natio­nal Hospi­tal di Nai­robi, dopo essere stata col­pita da una scheggia all’addome. È stata sot­to­po­sta a un deli­cato inter­vento chirur­gico. Era entrata solo da pochi mesi al Garissa Uni­ver­sity College. Ci rac­conta che i colpi di kala­sh­ni­kov dei guer­ri­glieri sono diven­tati più fitti quando l’esercito kenyano ha rag­giunto e circondato il col­lege, ben sette ore dopo l’irruzione.

Lun­ghe file di uomini e donne di diverse nazio­na­lità, etnie e religioni, si sono river­sate nel cor­tile del pic­colo ospe­dale di Garissa, in attesa di donare il pro­prio san­gue alle vit­time dell’attacco jiha­di­sta. Il per­so­nale della Croce Rossa locale ha alle­stito una sorta di cen­tro di primo soc­corso nel cor­tile del Garissa Pro­vin­cial General Hospi­tal, per lo smi­sta­mento dei pazienti. Anche un’equipe di Medici Senza Fron­tiere ha sup­por­tato l’ospedale nella fase di emer­genza. I ragazzi soprav­vis­suti insieme alle fami­glie ora sono al Nai­robi Nyayo Natio­nal Sta­dium, adi­bito a cen­tro di gestione dei disa­stri. Gra­zie al lavoro dello staff della St Johns Ambu­lance e del Kenya Blood Tran­sfu­sion and Sto­rage Ser­vi­ces, pro­prio dallo sta­dio è partita una staf­fetta di soli­da­rietà, della durata di tre giorni, per continuare la dona­zione di san­gue alle vit­time dell’attacco che ancora lottano per la vita, nelle sale ope­ra­to­rie dell’ospedale di Nairobi.

Tra la gente in fila anche la madre di Faith, che ha perso la vita nell’attentato. «Faith non c’è più – dice -, ho visto e rico­no­sciuto il suo corpo. Ma sua sorella è ancora in tera­pia inten­siva e ha biso­gno di me ora. Non posso per­met­termi di pian­gere».
Intanto nelle strade della capi­tale si sono dispie­gati cor­tei di protesta e di soli­da­rietà. Ieri mat­tina pre­si­dio di fronte alla succursale della Moi Uni­ver­sity, a Nai­robi. Decine di car­telli a ricordare i nomi e le foto degli stu­denti uccisi. «I ragazzi di Garissa pos­sono stu­diare con noi», scan­di­vano a gran voce i gio­vani universi­tari, dopo la nota dira­mata dal Mini­stero dell’Istruzione di tenere ancora chiuso il Col­lege e di tra­sfe­rire gli stu­denti nella sede prin­ci­pale della Moi Uni­ver­sity a Eldo­ret, nel Kenya dell’ovest.

Aleela è la sorella mag­giore di Nadira e quest’ultima è in sala d’attesa al Kenyatta Natio­nal Hospi­tal di Nai­robi da almeno 29 ore. Aspetta che Aleela esca dalla tera­pia inten­siva. «È stata col­pita alla testa – ci dice – Non so come sta, i dot­tori non mi sanno dire ancora nulla. Io voglio solo sapere se si sve­glierà». Ci rac­conta che Aleela vuole diven­tare una mae­stra per inse­gnare nelle scuole elemen­tari di Mar­sa­bit, il vil­lag­gio dei loro geni­tori. Aveva otte­nuto dal suo col­lege una borsa di stu­dio, per con­ti­nuare ad andare a scuola. Si era tra­sfe­rita poi a Garissa, a 360 chi­lo­me­tri da casa sua. «Non la vedevo da mesi, ma sapevo che era contenta».

Il Manifesto 06/04/2015 – I racconti dei sopravvissuti di Garissa «Cristiani da un lato, musulmani dall’altro» di Federica Iezzi

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KENYA. Al-Shabaab fa strage di studenti e minaccia nuovi attacchi

Nena News Agency – 04 aprile 2015

L’università di Garissa è rimasta sotto l’assedio dei miliziani islamisti somali per 16 ore. Almeno 150 i morti, in un attacco terroristico che ha preso di mira gli studenti cristiani. “Molti compagni uccisi davanti alle aule”, il racconto di una sopravvissuta

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AGGIORNAMENTO ORE 10.30 – AL SHABAAB MINACCIA NUOVI ATTACCHI

I miliziani islamisti somali promettono nuove stragi in Kenya, dopo quella al campus universitario di Garissa in cui sono morte quasi 150 persone, per lo più studenti cristiani. “Non ci sarà luogo sicuro in Kenya fino a quando manderà le sue truppe in Somalia”, questo il monito di al -Shabaab che ha giurato che le strade delle città kenyiote diventeranno “rosso sangue”. Nena News

 

Testo e foto di Federica Iezzi

Garissa (Kenya), 4 aprile 2015, Nena News – Secondo fonti del ministero degli Interni, è di 147 morti e 79 feriti, il bilancio, ancora provvisorio, dell’attacco nel campus universitario di Garissa, nel nord-est del Kenya, a 150 chilometri dalla frontiera con la Somalia.

Quello avvenuto in Kenya, all’Università di Garissa, è solo l’ultimo di una lunga serie che prende di mira i luoghi di studio. Dal 2009 ci sono stati 9.500 attacchi terroristici nelle scuole di 70 diversi Paesi.

Giovedì all’alba, un piccolo gruppo di miliziani di al-Shabaab, armati di AK-47 e muniti di esplosivi, si è infiltrato nelle aule universitarie del campus, uccidendo studenti non-musulmani. Le prime testimonianze hanno riferito di colpi d’arma da fuoco seguiti da esplosioni. Presi in ostaggio decine di studenti nei dormitori. Gli scontri tra gli estremisti e le truppe kenyane hanno fatto salire il bilancio di morti e feriti. Uccisi anche quattro combattenti del gruppo affiliato ad al-Qaeda.

L’esercito kenyano ha circondato gli edifici universitari riuscendo a far evacuare, tra le giornate di giovedì e venerdì, 587 studenti. Potrebbero essere alcune centinaia i giovani cristiani ancora nelle mani dei miliziani islamici di al-Shabaab.

In un messaggio audio, subito dopo l’attacco, Ali Mohamoud Raghe, portavoce del gruppo al-Shabaab, ha detto che l’università di Garissa è stata presa di mira perché educa studenti cristiani. Inoltre, al-Shabaab minaccia nuovi attacchi finché il Kenya manterrà le truppe in Somalia. Il riferimento è al coinvolgimento dei militari del governo di Uhuru Kenyatta, nella missione dell’Unione Africana dispiegata in Somalia, per la sicurezza e la stabilità del Paese.

Dopo l’attacco, il ministro dell’Interno del Paese, Joseph Nkaissery, ha annunciato un coprifuoco di 12 ore nelle città di Garissa, Wajir, Mandera e nella contea di Tana River. Sono stati trasferiti in aereo, al Kenyatta National Hospital di Nairobi, i feriti più gravi, in attesa di delicati interventi chirurgici.

Jene, prima di entrare in sala operatoria, per un colpo di arma da fuoco all’addome, ci racconta che uomini a volto coperto continuavano a chiederle, urlando, se era cristiana.“Molti miei compagni di corso hanno perso la vita davanti alle aule dove studiavamo. Tutti erano di religione cristiana”. Ci dice di aver paura di non riuscire a superare l’intervento. “Tornerò a studiare una volta uscita dall’ospedale”: queste le sue ultime parole prima dell’anestesia.

L’atto terroristico si rivela il peggior attacco in Kenya, dopo l’attentato del 1998 all’ambasciata degli Stati Uniti da parte di al-Qaeda, che ha ucciso più di 200 persone. E viene dopo l’attacco al centro commerciale Westgate della capitale kenyana, che ha ucciso 67 persone, nel 2013. Dal 2012, più di 600 persone sono state uccise in Kenya dai jihadisti di al- Shabaab. Nena News

Nena News Agency “KENYA. Al-Shabaab fa strage di studenti e minaccia nuovi attacchi” – di Federica Iezzi

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Nigeria al voto nel sangue

Nena News Agency – 30 marzo 2015

Migliaia di persone scese in strada, scontri e almeno 41 morti accompagnano la sfida tra l’attuale presidente Goodluck Jonathan e Muhammadu Buhari, candidato dell’opposizione. Con la paura che si ripeta la carneficina del 2011

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di Federica Iezzi

Lagos, 30 marzo 2015, Nena News – Problemi tecnici e ritardi hanno avviato la macchina elettorale del parlamento federale e del nuovo presidente in Nigeria. Dopo un rinvio di sei settimane per ragioni di sicurezza, urne aperte dalle 8 alle 13 dello scorso sabato, per i 70 milioni di elettori. Rallentamenti nelle procedure a causa dello sperimentale iter di registrazione dei votanti, tramite carte biometriche con le impronte digitali. Nuovo sistema progettato contro i brogli.

A causa dei recenti attacchi dei jihadisti di Boko Haram, in alcune zone del Paese, le operazioni di voto sono state sospese e rimandate a domenica. In più di 300 seggi, sui 150 mila presenti in tutto il territorio, si è continuato invece a votare. Dall’apertura dei seggi, almeno 41 persone sono state uccise nell’area di Gombe e Borno, nel nordest nigeriano, roccaforte dei militanti islamici, e nello stato di Rivers, nel sud-est del Paese.

Nei villaggi di Dukku, Birin Fulani, Tilen, Shole, Birin Bolawa e Buratai  si sono susseguiti attacchi e minacce dei militanti di Boko Haram ai funzionari elettorali. In quest’ultima località venerdì scorso i miliziani di Abubakr Shekau avevano decapitato una trentina di persone con una motosega, mentre nella provincia di Gombe avevano aperto il fuoco sulla gente in fila ai seggi.

Urne rubate e sospetti di ritardi in alcuni seggi elettorali, hanno peggiorato lo stato di veridicità delle operazioni. I confini nazionali sono chiusi da mercoledì scorso. Il traffico si è fermato nelle grandi città del Paese fino alle cinque del pomeriggio, con posti di blocco davanti ogni seggio. Ma centinaia di migliaia di nigeriani sono andati a votare, nonostante le minacce di Boko Haram.

Sono 14 i candidati alla carica di Presidente, tra cui per la prima volta anche una donna, Remi Sonaiya, del partito KOWA. Ma a contendersi davvero il mandato sono l’attuale presidente Goodluck Jonathan, attuale presidente impopolare e ampiamente accusato di corruzione, cristiano del sud, beneficiario dei ricchi introiti delle esportazioni petrolifere e il generale Muhammadu Buhari, forte del sostegno del nord islamico della Nigeria, area abbandonata dal governo centrale di Abuja e protagonista di una feroce dittatura militare nei primi anni ’80.

Una sfida che si ripete, dato che erano finiti al ballottaggio anche nel 2011. In quell’occasione vinse la popolarità di Jonathan. Almeno 800 civili, in seguito ai risultati di quelle elezioni, persero la vita durante violenti scontri. E gli sfollati interni furono 65.000.

In questi ultimi mesi, non sono mancate le critiche pesanti del generale Buhari al governo Jonathan, accusato di non saper interrompere la scia di sangue dipinta tragicamente dai combattenti di Boko Haram, che  dal 2002 hanno ucciso più di 10.000 civili, di cui 1000 solo durante quest’anno.

Il nord, a maggioranza musulmana, sembra essere il territorio sotto il controllo di Buhari e dell suo partito di opposizione, l’All Progressives Congress, mentre Jonathan e il Partito Democratico Popolare hanno maggiore sostegno nel sud, prevalentemente cristiano.

Oltre alle elezioni presidenziali, i nigeriani sono chiamati a votare per i governatori di 36 stati, per i rappresentanti dei 109 seggi del Senato e dei 360 dell’Assemblea Nazionale. L’annuncio dei risultati è atteso entro 48 ore dalla chiusura dei seggi. Senza il nome di un vincitore, le sorti della Nigeria saranno in mano al ballottaggio tra sette giorni. Il nuovo governo entrerà in carica alla fine di maggio. Nena News

Nena News Agency “Nigeria al voto nel sangue” – di Federica Iezzi

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