RWANDA. Cento giorni di massacri: nessuna etnia, ma classi sociali figlie del colonialismo

Nena News Agency – 10/04/2019

Questa settimana si commemorano i 25 anni dall’inizio del genocidio ruandese, cominciato il 6 aprile 1994. Vi proponiamo un testo scritto dalla nostra collaboratrice Federica Iezzi dopo un soggiorno nel Paese

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Kigali (Rwanda) – Gisozi Genocide Memorial Center

#genocidiorwanda #25anni

di Federica Iezzi

Roma, 10 aprile 2019, Nena News – In kinyarwanda la popolazione ruandese è chiamata abanya. Sono completamente assenti specifici nomi comuni dati ai tre gruppi etnici: twa, hutu e tutsi. Questo ha il chiaro significato che i gruppi etnici in realtà non si riferiscono a una categoria biologica ma solo a una condizione sociale. Il nome hutu è stato dato agli agricoltori: abahinzi. I tutsi è il popolo errante di pastori: abarozi. Il nome twa indica il gruppo di professionisti che lavora la ceramica: ababumbyi.

I tutsi riuscirono a formare facilmente la classe agiata, visto che l’abbondanza, in passato, è sempre stata misurata in numero di capi di bestiame posseduti. Gli hutu diedero forma a un gruppo di mezzo e più numeroso. La classe povera era quella dei twa, vista la professione meno remunerativa.

Quando il 6 aprile del 1994 fu ucciso l’allora Presidente del Rwanda, Juvénal Habyarimana, iniziarono ad “eliminare” tutte le persone alte. L’altezza dei tutsi tradizionalmente era dovuta al consumo di latte, ricavato dai capi di bestiame da loro allevati, che evidentemente aiuta la crescita ossea. Gli hutu, al contrario, essendo agricoltori per costumanza, avevano sviluppato una corta e robusta muscolatura.

Venivano uccisi i dissidenti, gli hutu amici dei tutsi e chiunque non fosse d’accordo con la politica del massacro. Nel celebre “Hotel des mille collines”, conosciuto da tutti come Hotel Rwanda, i tutsi e i “traditori” hutu che rimasero nascosti nei sottoscala, erano autorizzati a bere solo l’acqua della piscina in cui nuotavano i facoltosi.

Oggi nessuno parla di appartenenza a un gruppo etnico, non esistono hutu, tutsi e twa. Dal genocidio è come se si fosse arrivati a una fine. Da lì parte una nuova esistenza. Le persone di ogni angolo del Paese sembra si vergognino di quello che è stato fatto dai propri fratelli, da uomini dalla stessa loro pelle e dallo stesso loro sangue. Se si prova a scavare nel passato di ognuna di queste persone, compare un muro spesso e invalicabile, una protezione che non fa entrare né la curiosità né la bramosia della conoscenza e non fa uscire nemmeno una scheggia di quei giorni.

La concezione dell’esistenza di tre razze nella popolazione rundese è stata solo un prodotto del colonialismo belga. Nel 1959 i belgi diedero potere esclusivo nelle mani dei tutsi, escludendo gli hutu dalla vita intellettuale. Il cambio di alleanza belga fu dovuto al solo fatto di evitare l’indipendenza del Paese.

I belgi nominarono bruscamente e in massa gli hutu ai posti di potere. Così la popolazione fu divisa in due blocchi e la conseguenza finale più amara di quella politica divisionista fu il genocidio del 1994, che ufficialmente affonda le sue basi nel 1959.

Ingente affluente del Nilo è il fiume Nyabarongo che solca la fertile terra ruandese. Nei 100 giorni del genocidio venivano gettati in queste acque i corpi senza vita dei tutsi. Seguendo il corso dell’acqua il sangue e i corpi sfigurati da colpi di machete, arrivavano in Etiopia. Dicevano: “Così tornate da dove siete arrivati”.

Lungo le strade compaiono d’improvviso grossi mucchi di pietre nere vulcaniche. Sotto mettevano i corpi dei tutsi raccogliendoli da vie, chiese e campagne. Fino al 1996 le colline che circondavano Kigali erano niente altro che sconfinati cimiteri, oggi sulla stessa terra sorgono le ville dei benestanti e gli agricoltori seminano patate e carote.

I mesi di marzo e aprile, insieme ai mesi di settembre e ottobre, rappresentano le stagioni delle piogge. L’acqua scende dal cielo accigliato e colora la terra di tutte le tonalità di verde. La gente cammina ai lati delle strade, sembra non accorgersi della pioggia che gli segna aggressivamente la pelle, prosegue indisturbata alla stessa velocità, per raggiungere un obiettivo non delineato.

La terra rossa africana vira la sua forma e il suo colore quando ci si avvicina alle montagne vulcaniche. La terra diventa scura, punteggiata da grosse pietre nere e l’acqua bagna delicatamente la superficie dell’erba.

Su ogni angolo di terra, delle valli che serpeggiano tra le colline, nascono coltivazioni di mais, tè, sorgo (usato dai contadini come preparato per la polenta o per la birra locale), carote, patate. I papiri nascondono i confini dei fiumi. Le colorate piantagioni di banano guardano, dall’alto dei pendii delle colline, questa terra nera, in continuo movimento.

Le mille colline si perdono all’orizzonte, in posti dove lo sguardo non può entrare. Dove l’uomo non può coltivare, arare, fertilizzare, bonificare e allevare, ecco che nasce indisturbata e austera, l’impenetrabile foresta pluviale.

Alle pendici dei vulcani cresce una fitta vegetazione arborea con liane e felci. Con le lobelie giganti, le ordinate file di eucalipti, le palme da olio, le acacie, boschi di bamboo e iperici, la luce quasi non arriva alla terra, che rimane perennemente lambita dalle pregiate acque piovane, celata e protetta da muschi e rosacee. La foresta è ricca di preziosi legni: il tek, l’ebano, il cedro d’Africa, arabescati da lauri, rose, ibiscus e orchidee.

Ed ecco maestose, le cime dello stesso risultato geologico che diede vita alla Rift Valley: le montagne vulcaniche di Virunga. Karisimbi. Significa montagna con cappello bianco, perché la sua cima non si vede quasi mai, visto che è per la maggior parte dell’anno coperta da un “cappello” di nebbia. Il Karisimbi è affiancato dal Bisoke. Insieme plasmano armoniosamente la casa dei gorilla di montagna.

Sabyinyo. In kinyarwanda “iryinyo” significa dente, la sua forma ricorda il profilo di una dentatura speciale che sembra masticare le nuvole grigie pesanti di pioggia. Muhabura è “la guida”, ospita un piccolo lago sul suo cratere. Gahinga è il “mucchio di pietre”.

Il confine tra Ruanda e Congo è segnato dal vulcano Nyamuragira, che ha ricordato la sua presenza alla natura pochi anni fa, coprendo di cenere e fosca lava i lussureggianti arbusti dalle sfumature del verde. Ad abitare le dormienti montagne vulcaniche sono famiglie di creature affini all’essere umano, per carattere, capacità comunicativa, abitudini, comportamento e vita sociale. I gorilla.

La famiglia “Umubano” è una di quelle vecchie famiglie, in cui i nonni insegnano ai nipoti la vita. Umubano significa “vivere insieme”. Il gruppo ha a capo un silverback di circa 20 anni che un giorno lontano lasciò le sue origini “Amahoro”, per creare una sua famiglia.

Oggi non è più solo ma ha accanto 13 membri che lo riconoscono come padre e maestro e lo rispettano. I più grandi insegnano ai più piccoli come ci si comporta in un gruppo: come e cosa si mangia, come si prepara il “letto” per dormire nel bel mezzo della foresta equatoriale, come ci si pulisce per non ammalarsi. Nena News

Nena News Agency “RWANDA. Cento giorni di massacri: nessuna etnia, ma classi sociali figlie del colonialismo” di Federica Iezzi

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REPORTAGE. Nei Balcani la guerra dopo la guerra

Il Manifesto – 09 aprile 2019

La “nuova rotta”. Reportage dal confine croato-bosniaco, dove migranti, rifugiati e richiedenti asilo sono vittime dei respingimenti illegali e spesso violenti messi in atto con la complicità dell’Unione europea. Che all’assistenza umanitaria preferisce le frontiere blindate

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Bihać (Bosnia & Erzegovina) – Bira refugees centre One Life ONLUS/Renato Ferrantini

di Federica Iezzi

Velika Kladuša – Il viaggio di Nazim parte dal campo di Zeralda, a circa 30 chilometri da Algeri. È questo il punto di ritrovo per i trafficanti, ormai padroni indiscussi dei grandi deserti africani. Caricato come un numero su vecchi camion, con l’inconfondibile vessillo della Mercedes, viene trasferito a Tamanrasset, città dell’estremo sud algerino. «Lì arriva il biglietto per Agadez» ci dice Nazim con gli occhi di chi ricorda un momento di speranza. Il potente hub nigerino è la porta d’ingresso per la Libia. Abbiamo incontrato Nazim al Bira Refugees Centre di Bihac, nel nord-ovest della Bosnia. È qui che adesso vive.

I NUMERI UFFICIALI parlano di 2250 posti letto e 3914 persone registrate. Per l’81% si tratta di ragazzi soli provenienti per lo più da Siria, Afghanistan, Pakistan, Iraq, Iran. Dal gennaio 2018, oltre 23.000 migranti e richiedenti asilo sono arrivati in Bosnia. L’anno prima erano meno di 1.000.

Da Algeri sembra partire un filo diretto anche per la Turchia. Racconta Nazim: «In 24 ore e 80 euro si ottiene un visto online per la Turchia valido 180 giorni». Una volta a Istanbul la tappa successiva è la città portuale di Izmir. Da qui il passaggio nelle isole greche di Agathonisi prima e Samos poi, aprono la strada verso Atene.

DALLA GRECIA inizia la “nuova rotta balcanica” attraverso Albania, Montenegro e Serbia. «Dopo aver attraversato il confine serbo-bosniaco e passate le città di Bijeljina, Zvornik, Sapna, Kalesija, ci hanno trascinato nella città di Tuzla». Nella città nord-orientale bosniaca di Tuzla non si rimane per più di 24 ore. «Si parte presto per Sarajevo prima, e per Bihac poi».
Ufficialmente mediante una facile registrazione si ottiene il diritto legale di soggiornare in Bosnia per 14 giorni. Spesso questi documenti temporanei vengono distrutti per evitare la riammissione nel Paese e si chiede una protezione internazionale, in modo da avere almeno libertà di movimento dentro il territorio bosniaco.

«Stasera provo a prendere un autobus che da Bihac arriva direttamente a Zagabria – dice ancora Nazim -. Ho pagato il biglietto 13 euro. Spero solo che nell’autobus non ci siano controlli alla frontiera croata».

ANCHE AMNESTY International accusa l’Unione europea di essere complice dei respingimenti sistematici, illegali e spesso violenti e delle espulsioni collettive verso migranti, rifugiati e richiedenti asilo, sul confine croato-bosniaco.

Per capire le priorità dei governi europei, basta seguire il flusso di denaro. Il contributo finanziario all’assistenza umanitaria è marginale rispetto ai fondi forniti per la sicurezza delle frontiere, che includono equipaggiamenti “da guerra” per la polizia croata, aggiuntivi di generose retribuzioni.

E.B. è di nazionalità afghana. È di etnia pasthun. È un perseguitato politico. Il suo racconto è ricco di dettagli e particolari e parte da Helmand nel profondo sud dell’Afghanistan. Inizia con un’affermazione estremamente consapevole: «La distanza più breve tra l’Afghanistan e la Turchia, in linea d’aria, è di 2.947 chilometri e passa attraverso l’Iran».

E. B. RACCONTA come la rotta terrestre dall’Afghanistan attraverso l’Iran e la Turchia sia tradizionalmente usata anche per il contrabbando di oppiacei verso l’Europa». Gli chiediamo come mai in Afghanistan scelgono di passare attraverso l’Iran. La risposta è rapida e precisa: «L’Iran è la strada che tutti gli altri prendono». Le opzioni sono solo due. La prima, la meno quotata, è quella di avere un passaporto afgano e un visto iraniano valido. La seconda è quella invece di raggiungere l’Iran attraverso il Pakistan. E.B. mostra una mappa con una serie ordinata di punti rossi: Peshawar, Quetta, valico di frontiera Taftan-Mirjaveh (sul confine tra Pakistan e Iran), Taft, Tehran, Maku (nella stretta gola tra le montagne al confine con la Turchia), Dogubayazid e Istanbul. «Nell’area tra il confine pakistano e quello iraniano – racconta -, abbiamo dovuto camminare per 10 ore al giorno, senza acqua per 15 giorni. Al mattino, i contrabbandieri ci consegnavano pane e una bottiglia d’acqua che dovevano bastare per tutto il giorno. Seppur in 40 dentro lo stesso pick-up ci siamo mossi rapidamente attraverso l’Iran, ma in Turchia ci è sembrato di vivere in una moviola. Siamo arrivati a Istanbul dopo più di un mese. Da lì, i contrabbandieri ci hanno portato a Izmir».

LA TAPPA SUCCESSIVA, ci racconta, è stata la città della Turchia occidentale di Edirne, per arrivare sulla costa greca, evitando la Bulgaria.

La porta di ingresso nei Balcani è diventata la Macedonia. Qui i migranti ricevono documenti di transito ufficiali e aspettano un treno che li porti a nord verso il confine serbo. In alternativa attraversano frastagliate montagne e fitti boschi per raggiungere l’Albania prima, il Montenegro poi, solo per ritrovarsi bloccati nel collo di bottiglia bosniaco.

E.B. conferma che per molti, è stato necessario prendere in prestito denaro da parenti e amici e addirittura ipotecare le proprie case. Le modalità di pagamento, così come il costo del viaggio in Europa, variano molto: da 1.500 a oltre 8 mila dollari a persona. Il costo iniziale è di circa 500 dollari. I successivi 1.500 dollari vengono pagati all’uscita dall’Iran. Il contrabbandiere, spesso definito come un vero e proprio agente, riceve il pagamento concordato solo se il cliente arriva a destinazione.

LA TRATTA IN AFGHANISTAN funziona per lo più in comunità o in gruppi etnici. Se provieni da una determinata provincia, il tuo contrabbandiere sarà probabilmente della stessa area, percepita come più affidabile.

E.B. racconta che ha provato ad attraversare il confine tra Bosnia e Croazia per due volte. Lo chiamano the game, «il gioco». E sembra di essere all’interno di un malsano videogioco che parte intorno al monte Plješevica, ai piedi dell’abbandonata base aerea militare di Željava, utilizzata intensamente durante la guerra d’indipendenza croata nel 1991, prima dall’armata popolare jugoslava e in seguito dai serbi fino al 1995.

I cartelli rossi con le echeggianti scritte Pazi mine («Attenzione mine») e Zabranjen prolaz («Passaggio vietato»), eredità del conflitto degli anni ’90, disegnano il cammino di una guerra dopo la guerra.

E.B. la prima volta è stato trattenuto nella stazione di polizia di Slunj in Croazia, sul confine croato-bosniaco, senza avere accesso alle procedure di asilo. Rimandato indietro, se l’è cavata con qualche livido sulla schiena. E il ministro degli Interni croato Davor Božinovic continua a dichiarare con fermezza che la Croazia sta soltanto mettendo in atto azioni per impedire l’immigrazione illegale, in conformità con le sue responsabilità verso l’Unione europea.

E.B. MOSTRA UNA CARTINA in cui sono cerchiati i nomi di città e villaggi. «Quando andrà via la neve, voglio provare a camminare a piedi lungo la strada tra Plitvice e Korenica, per arrivare a Vrhovine, una città a metà strada tra i laghi di Plitvice e la città croata di Otocac. Poi attraverso Fiume raggiungere l’Italia settentrionale. Voglio arrivare in Francia o in Belgio».

Il Manifesto “REPORTAGE. Nei Balcani la guerra dopo la guerra” di Federica Iezzi

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