Il milione dello Yemen

Il Manifesto – 30 settembre 2017

Golfo. L’allarme della Croce Rossa: già 700mila i casi di colera, entro l’anno altri 300mila contagiati. Ci si ammala bevendo dai pozzi. E con gli ospedali distrutti o troppo lontani si muore nel proprio letto, senza nessuna assistenza. Quando per salvarsi basterebbe acqua pulita.

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di Federica Iezzi

Il colera è ovunque. L’ultimo preoccupante report del Comitato Internazionale della Croce Rossa afferma che l’epidemia di colera in Yemen è una spirale fuori controllo.

I casi sospetti hanno sfiorato i 700mila, più di 2mila le morti correlate alla malattia. Secondo quanto riferito in un briefing a Ginevra da Alexandre Faite, capo della delegazione del Comitato Internazionale della Croce Rossa in Yemen, è verosimile che si raggiunga un milione di casi di colera entro la fine dell’anno.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità disegna un piano in cui i casi sospetti di colera ormai serpeggiano nel 95,6% dei governatorati, in particolare in 22 su 23 governatorati e 304 su 333 distretti.

SI CONTANO PIÙ DI 5MILA nuovi sospetti contagi ogni giorno. La malattia continua a diffondersi a causa del deterioramento delle condizioni igieniche e sanitarie e delle interruzioni dell’approvvigionamento idrico.

Più di 14 milioni di yemeniti sono stati tagliati fuori dall’accesso regolare all’acqua, per non parlare del servizio di raccolta di rifiuti interrotto in tutte le grandi città. Il tasso complessivo di mortalità nel paese è dello 0,31%, il più alto è nel governatorato di Raymah, a est. I governatorati più colpiti comprendono Amran, al-Mahwit e Hajjah, al nord, e al-Dhale’e e Abyan, al sud.

Il disastro umanitario in Yemen non accenna a placarsi. Il paese è imprigionato in una spirale di violenze e patimenti che irrompono nelle vite di civili inermi, senza risparmiare neppure anziani e bambini.

E PROPRIO AI BAMBINI sono riservati i numeri più crudeli: il 54,9% di possibilità di contrarre il colera. Il colera è un’infezione acuta diarroica che si diffonde attraverso cibo o acqua contaminati. Può essere efficacemente trattata con l’immediata idratazione e con il repentino ripristino dei normali livelli di sali minerali nell’organismo, ma senza trattamento può risultare fatale.

LO YEMEN È DA ANNI teatro di una spietata guerra, capitanata ardentemente dalle forze militari di Riyadh. Mentre le morti da combattimento ottengono sporadicamente attenzione, i risultati indiretti del conflitto rimangono celati.
L’epidemia di colera, la malnutrizione incalzante, l’aumento delle morti da malattia infettive curabili, rimangono i più grandi assassini.

L’acqua che arriva nelle case è contaminata e la gente non la beve più. Si incontrano grossi serbatoi, spesso vuoti, su quelli che un tempo erano i marciapiedi delle strade principali delle città, ma non c’è approvvigionamento regolare. Nel governatorato di Hajjah, la gente beve acqua contaminata da pozzi e cisterne.

E la situazione è in peggioramento nel distretto di Abs, nel governatorato di Hajjah, nel nord dello Yemen. Qui nel mese di agosto è stato colpito l’ennesimo ospedale, sostenuto da Medici Senza Frontiere, che trattava i casi di colera.

IL DISTRETTO DI ABS ospita il numero più alto di sfollati interni, ma la maggior parte delle strutture sanitarie non funziona. Non ci sono né personale medico né attrezzature, né forniture sanitarie di base.

In 49 distretti, non ci sono medici. Almeno 30mila operatori sanitari locali non hanno ricevuto i loro stipendi da più di un anno, 3.500 centri medicali non hanno ricevuto fondi per il regolare rifornimento.

Quasi tutte le strutture e i servizi sanitari del paese hanno raggiunto livelli di cedimento irreversibili, non sono in grado di rispondere alla crescente necessità della popolazione, non sono in grado di affrontare malattie e traumi legati alla guerra. E, tuttora, molti ospedali vengono utilizzati illegittimamente come presidi militari.

LA MAGGIORPARTE della gente rimasta nelle proprie case non può permettersi nemmeno il trasporto dalle aree rurali ai centri medici più vicini. E allora diarrea, vomito, lento e tormentato spegnimento: si muore di colera in casa.

Nel suo piano di affrontare la malattia, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha previsto la distribuzione di vaccini per contenere il colera e sradicare il 90% dei casi entro il 2030. Ma contenere un’epidemia di tale entità è estremamente difficile e le probabilità di perdere sono molto elevate.

Secondo il Cholera Emergency Operations Centre, i partner umanitari in Yemen supportano 250 centri di trattamento, con più di 4mila posti letti e almeno mille punti di reidratazione orale in 20 governatorati. Una campagna di sensibilizzazione porta a porta continua a coinvolgere 40mila volontari, raggiungendo circa 14 milioni di abitanti persone.

Ma il 12% dei distretti in Yemen è ancora classificato come estremamente difficile da raggiungere, tra questi Marib, al-Jawf, Sa’ada, Hajjah, Taizz, al-Bayda. E più di 1,7 milioni di persone, in questi distretti, ha urgente necessità di assistenza umanitaria.

SECONDO I DATI DIFFUSI delle Nazioni Unite, più di 10mila persone sono state uccise dal conflitto, almeno 50mila sono i feriti e i disabili, 1,6 milioni di civili sono stati costretti ad abbandonare il paese e 3 milioni sono gli sfollati interni.

Gli anni di sanguinari abusi hanno trasformato l’agonizzante Yemen nel più grande bacino di insicurezza alimentare. In base ai dati diffusi dalla piattaforma Humanitarian Needs Overview, circa 20 milioni di persone hanno bisogno di assistenza o protezione.

Di questi, per almeno 9 milioni, il bisogno si trasforma in impellente urgenza. Inoltre 17 milioni di persone non si alimentano adeguatamente.

E tra questi, quasi due milioni sono bambini e un milione sono donne in gravidanza. Direttamente correlata alla mancanza di cibo è la malnutrizione: più di 400mila bambini sotto i cinque anni sono affetti da malattie connesse alla malnutrizione acuta.

Il Manifesto 30/09/2017 “Il milione dello Yemen” di Federica Iezzi

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TUNISIA. Revocata la restrizione matrimoniale per le donne

Nena News Agency – 20/09/2017

La scorsa settimana il governo tunisino ha annunciato l’abolizione del divieto che non permetteva alle donne musulmane di sposare non-musulmani. L’abrogazione giunge dopo importanti mutamenti subiti dalle leggi sulla violenza domestica e sulle molestie sessuali negli spazi pubblici

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di Federica Iezzi

Roma, 20 settembre 2017, Nena News – È stata annunciata la scorsa settimana dal governo tunisino l’abolizione del divieto decennale di matrimonio tra donne musulmane e uomini non-musulmani. Il presidente Beji Caid Essebsi ha condotto una campagna per la parità tra i sessi, dalla sua presa in carica nel dicembre 2014. Nel corso degli anni ha annunciato diverse proposte per arrivare all’uguaglianza di genere.

La revoca del decreto di restrizione matrimoniale, istituito nel 1973, rappresentava un ostacolo alla libertà di scelta del coniuge e una violazione della costituzione tunisina, adottata nel 2014 a seguito delle proteste legate alla primavera araba, secondo il presidente tunisino.

La legge sul matrimonio costrinse per anni gli uomini non-musulmani, che volevano sposare una donna tunisina, alla conversione all’islam. Mentre gli uomini tunisini erano liberi di sposare donne non-musulmane, ma la conversione religiosa non era un obbligo. L’abrogazione della legge sul matrimonio viene dopo importanti mutamenti subiti dalle leggi sulla violenza domestica e sulle molestie sessuali negli spazi pubblici. Pietre miliari importanti in un Paese in cui la religione, nei legami coniugali, può essere al centro di numerosi conflitti familiari e lunghe lotte contro le leggi statali.

E’ evidente che il nuovo decreto non allontana le donne tunisine dagli ostacoli culturali e tradizionali in caso di matrimonio misto, ma comunque offre loro la libertà di scelta da una prospettiva giuridica. Ma mentre il governo Essebsi è riuscito ad affinare le leggi in materia di uguaglianza e violenza familiare, si trova ad affrontare un’opposizione più rigida, da parte dei teologi tunisini e dei membri del parlamento, sugli storici codici che regolano l’ereditarietà in Tunisia.

Secondo la legge islamica, alla donna spetta la metà di quanto spetta all’uomo del lascito ereditario. E una donna riceve la metà dell’eredità del defunto marito, rispetto al figlio. Nell’alta borghesia tunisina, si ovvia alle convenzioni grazie a donazioni o cessioni di proprietà ante-mortem. Sono invece le donne cresciute in ambienti rurali, tradizionalisti o meno istruiti, a pagarne le conseguenze più dure.

Il presidente ha istituito una commissione, formata da esperti per i diritti umani, incaricata di rivedere le politiche legate ai diritti di matrimonio e alle leggi di eredità e discriminazione economica, per cercare un equilibrio tra l’uguaglianza di genere da un lato e la religione e la costituzione dall’altra. Promuovendo l’istruzione per le ragazze, abolendo la poligamia e non avallando il rifiuto di una moglie fuori dalla procedura di divorzio, ufficialmente decretata da un tribunale, il codice di status personale della Tunisia ha accresciuto il suo apprezzamento, come modello progressivo per i diritti delle donne in Nord Africa e Medio Oriente.

Dura invece la risposta del mondo sunnita, da parte del Grande Imam egiziano di al-Azhar, Ahmed el-Tayeb, che ha denunciato la riforma matrimoniale, come contrapposta agli insegnamenti islamici, incitando alla violenza contro la leadership tunisina. La Tunisia ha garantito i diritti fondamentali alle donne fin dagli anni ‘60: accesso al voto, divorzio, aborto. Oggi nel parlamento tunisino il 31% dei deputati sono donne. E il numero di lavoratori di sesso femminile raggiunge il 27%. La Tunisia è considerata uno dei Paesi arabi più progressisti in termini di diritti delle donne, anche se Amnesty International ha riferito l’anno scorso che ci sono ancora pochi segni tangibili per dimostrare il miglioramento. Nena News

Nena News Agency “TUNISIA. Revocata la restrizione matrimoniale per le donne” di Federica Iezzi

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IMMIGRAZIONE. L’inferno dei centri di detenzione libici

Nena News Agency – 12/09/2017

Gli immigrati sono detenuti in celle sovraffollate, con scarsa luce naturale e ventilazione e con un inadeguato numero di latrine o bagni. Per loro non è previsto alcun processo legale, né hanno la possibilità di contestare la legittimità della loro prigionia o del loro trattamento. Secondo la ONG internazionale Medici Senza Frontiere, l’Unione Europea finanzia e perpetua il ciclo di sofferenza degli immigrati nello stato africano

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di Federica Iezzi

Roma, 12 settembre 2017, Nena News – L’Unione Europea finanzia e perpetua il ciclo di sofferenza dei migranti in Libia, costringendoli a reclusioni arbitrarie in centri di detenzione. Questo è quanto affermato nell’ultima conferenza stampa da Joanne Liu, il presidente internazionale di Medici Senza Frontiere.

Dunque la pesante accusa, appoggiata anche dall’agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite, è che la politica dei governi europei, alimentando un sistema criminale di abusi, è diretta complice delle violenze subite dai migranti in Libia. Il governo di al-Sarraj controlla ufficialmente circa due dozzine di centri di detenzione in territorio libico, attraverso la sua direzione per la lotta alla migrazione irregolare (DCIM), secondo gli ultimi dati dell’EUBAM (European Border Assistence Mission in Libya).

I finanziamenti previsti dai Paesi europei per le attività dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM) e dell’UNHCR per migliorare le condizioni nei centri di detenzione governativi libici rappresentano oggi solo un’illusione di fronte al milione di profughi intrappolati in Libia.

L’unica soluzione ragionevole e civile sarebbe quella di aprire percorsi legali per chi fugge da guerre, fame e violenze. La rotta migratoria africana maggiore parte da Agadez, passa per Dirkou in Niger, per arrivare alla città libica di Sabha. I migranti vengono poi dirottati dai contrabbandieri verso i porti di Tripoli o Zawiya.

La rotta percorsa dai migranti dei Paesi africani dell’ovest, invece, parte sempre dalla porta di Agadez in Niger, passa per Bamako e Gao, in Mali, e arriva a Tamanrasset, in Algeria. L’ultima parte del viaggio è comune per tutti fino alle coste libiche.

Pane, burro e acqua è tutto ciò che i migranti ricevono nell’unico pasto giornaliero, nei centri di detenzione libici. Malattie legate alle scadenti condizioni sanitarie, malnutrizione e violenze fisiche sono cicatrici indelebili di ogni migrante, secondo le molteplici denunce del Comitato Internazionale della Croce Rossa. Vengono rinchiusi in celle sovraccariche, con scarsa luce naturale e ventilazione. Gli edifici sono spesso vecchie fabbriche o magazzini, con un inadeguato numero di latrine o bagni. Per i migranti è prevista una detenzione ma non è previsto nessun processo legale, nessuna possibilità di contestare la legittimità della loro prigionia o del loro trattamento.

Secondo i report dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, un considerevole numero di profughi che entra in Libia, viene scambiato nei cosiddetti mercati di schiavi, prima di finire nei centri di detenzione. A questo segue una richiesta di riscatto da parte dei trafficanti, in accordo con i militari libici, verso le famiglie dei più giovani. Se il denaro non arriva, il viaggio si ferma in Libia.

Dopo Medici Senza Frontiere, anche Save The Children e la maltese MOAS (Migrant Offshore Aid Station) sospendono le operazioni di salvataggio nel mar Mediterraneo, a causa delle forzature dettate dal codice di condotta per le ONG, imposto dal Viminale con il benestare dell’Europa, e a causa di una guardia costiera libica ostile alle attività di soccorso.

La Commissione europea risponde decantando un programma di 46 milioni di euro, per formare e rafforzare la guardia costiera libica, e stimando un brusco calo degli arrivi in Italia nel mese di agosto, scesi dell’80% rispetto allo stesso mese dello scorso anno. E’ cieca invece di fronte a quanto accade nei centri di detenzione in Libia, dove torture, stupri, fame e uccisioni, sono la quotidianità. I migranti arrestati in mare dalla guardia costiera libica, modellata irresponsabilmente dai nostri militari, vengono inviati, senza dignità, nel sistema di detenzione del Paese. Qui inizia la fiorente impresa di rapimento, tortura e estorsione, di cui l’Europa è corresponsabile.

Dunque, per raggiungere un accordo con gli attori coinvolti nel traffico di esseri umani, il prezzo da pagare è quello di accettare un certo grado di violenza e violazioni dei diritti umani? L’Europa sembra disposta a pagare quel prezzo per porre fine alla crisi migratoria. A sei anni dalla rivoluzione che rovesciò la dittatura Gaddafi, una Libia, senza regole né governo, è diventata la meta per migliaia di profughi pronti a rischiare la vita, su sovraffollate imbarcazioni, pur di attraversare il Mediterraneo. Gli abusi che i rifugiati affrontano durante il pericoloso viaggio verso l’Europa, meritano una risposta globale, secondo l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Zeid Ra’ad al-Hussein.

L’accordo di Parigi, tra i leader di Francia, Germania, Italia, Spagna, Ciad, Niger e Libia sponsorizza un poco lungimirante piano per affrontare il traffico illegale di esseri umani, sostenendo i Paesi che combattono per bloccare il flusso di richiedenti asilo, attraverso prima il Sahara e poi il Mar Mediterraneo. E’ molto sottile la linea che divide queste attività dalla tutela dei diritti umani dei migranti. Nena News

Nena News Agency “IMMIGRAZIONE. L’inferno dei centri di detenzione libici” di Federica Iezzi

“Human suffering. Inside Libya’s migrant detention centres”

“MSF President Dr Joanne Liu on horrific migrant detention centres in Libya”

 

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YEMEN. I bambini e le bombe saudite

Nena News Agency – 04/09/2017

Buthina ha sei anni e ha perso otto membri della sua famiglia la scorsa settimana quando un ‘errore tecnico’ di Riyadh ha devastato la sua casa seppellendola viva per ore sotto le macerie. L’ennesimo massacro di civili a cui la Comunità Internazionale ha risposto con il consueto silenzio

La campagna mediatica #I_speak_for_Buthina

di Federica Iezzi

Roma, 4 settembre 2017, Nena News – Neppure una bambina di sei anni appena, rimasta per ore seppellita viva dalle macerie, riesce a scuotere le coscienze dei potenti sulla sanguinosa guerra che sta frantumando lo Yemen. E intanto il grido sul web non trova pace: #I_speak_for_Buthina. Questa è la storia di Buthina Muhammad Mansour Saad al-Raimi, uno squarcio sul mondo dei bambini in Yemen.

Il Paese è entrato nel terzo anno di una feroce guerra civile che non accenna ancora a placarsi, dopo più di 10.000 morti, almeno 48.000 feriti, 19 milioni di persone alla disperata ricerca di aiuti umanitari, tre milioni di sfollati interni.

Lei è tra i sopravvissuti di questa cupa guerra, in cui il ruolo dei sauditi è tanto sporco quanto i venditori di armi occidentali. Altri 1.500 bambini sono stati cancellati dal mondo a suon di bombe, mortai, proiettili, crolli e malattie. E più di 2500 sono i bambini feriti, mutilati, annullati.

Ha perso otto membri della sua famiglia, Buthina, dopo che la scorsa settimana un attacco aereo guidato dall’Arabia Saudita ha rovesciato la casa dove viveva, nel quartiere residenziale di Faj Attan, nella capitale Sana’a, zona controllata dal 2014 dagli Houthi. Ha perso la madre Amal, il padre Muhammad, quattro sorelle, Ala’a, Aya, Berdis e Raghad, il fratello Ammar, e lo zio Mounir. Nei sei appartamenti dell’edificio crollato, altre 17 persone sono state uccise e almeno 16 sono i feriti che si contano a causa dello stesso bombardamento aereo.

1. Buthina con i cinque fratelli – 2. Il crollo dell’edificio dove viveva Buthina a Sana’a – 3. Buthina all’Almutawakel hospital di Sana’a – 4. La gente di Sana’a sostiene Buthina in ospedale

La coalizione saudita ha giustificato per l’ennesima volta l’attacco indiscriminato verso i civili come un ‘errore tecnico’, continuando, senza alcuna prova ufficiale, ad accusare gli Houthi della creazione di centri di comando nelle zone residenziali di Sana’a. E la Comunità Internazionale continua a guardar scorrere il massacro, immobile e in silenzio. Oggi Buthina è ancora ricoverata all’Almutawakel hospital di Sana’a. Ha un trauma cranico, ha iniziato con fatica ad aprire l’occhio sinistro. Da quell’occhio non vede nulla. Non ha miracolosamente avuto bisogno di un intervento chirurgico d’urgenza, per ridurre le multiple fratture a livello del massiccio faciale, ma la strada per una ricostruzione ossea rimane lunga.

Si unisce ai 6000 bambini yemeniti orfani di guerra, con in braccio una bambola più grande di lei, parcheggiata in un letto di ospedale. La gente di Sana’a è, anche oggi, in fila nei corridoi del vecchio ospedale per rassicurarla e per darle anche solo una carezza, un abbraccio, un saluto. Non si sveglierà mai più accanto alla sua mamma e al suo papà, non mangerà mai più insieme ai suoi fratelli, non giocherà mai più sulle spalle dello zio. La guerra in Yemen pesa su due milioni di bambini malnutriti, su otto milioni di bambini che non hanno accesso all’acqua pulita e ai servizi igienici, su centinaia di bambini che continuano a morire e ad ammalarsi di colera, su due milioni di bambini che non vanno più a scuola.

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Buthina all’Almutawakel hospital di Sana’a con lo staff sanitario

Human Rights Watch è il promotore di ripetute richieste, al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, per la conduzione di un’indagine indipendente, sulle violazioni del diritto internazionale umanitario in Yemen. Presto sarà consultabile la relazione annuale ‘Children and armed conflict’, al momento sotto revisione del segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres.

Nel 2016 la breve nomina dell’Arabia Saudita nell’elenco dei violatori dei diritti dell’infanzia, nel corso della guerra in Yemen, scatenò la collera e l’indignazione dei ricchi Paesi occidentali. Sotto una costante pressione saudita e in seguito alla sottile minaccia di interrompere i finanziamenti alle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, il segretario generale all’epoca, rimosse il Paese dall’elenco. Nena News

#I_speak_for_Buthina #StopTheWarOnYemen

Nena News Agency “YEMEN. I bambini e le bombe saudite” di Federica Iezzi

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