L’Eritrea stretta nel giogo della repressione di Stato

Nena News Agency – 29 settembre 2015

Assenza totale di libertà di espressione, di manifestazione e di dissenso: sono 10mila i prigionieri politici del regime del presidente Afewerki. Uno stato di oppressione che si aggiunge alla mancanza di diritti del lavoro

UNHCR Eritrea

di Federica Iezzi

Asmara (Eritrea), 29 settembre 2015, Nena News – Diplomazia pubblica e associazioni umanitarie segnalano da anni uno dei regimi più repressivi e segreti di tutto il mondo. Quello di Isaias Afewerki. Dopo l’euforia post-liberazione del 1993, la foschia del regime del presidente Afewerki, ex capo dei ribelli del Fronte di Liberazione del Popolo Eritreo, ha chiuso i confini eritrei.

Bandita la libertà di espressione. Dal 2001, nessuna agenzia di stampa nazionale indipendente ha ottenuto l’autonomia di operare, nella sua campagna di vasta repressione del dissenso. Ammessi solo media filo-governativi. Attualmente nel Paese ci sono solo tre quotidiani, due emittenti televisive e tre stazioni radio, tutte sottoposte a stretta sorveglianza da parte del governo. Trasmettono via satellite alcune stazioni eritree che cercano di raggiungere dall’estero gli ascoltatori nel Paese. Ne sono esempi Radio Erena, che trasmette da Parigi, e le stazioni schierate con l’opposizione che trasmettono dall’Etiopia.

L’organizzazione non governativa, Reporter Senza Frontiere, parla di uno ‘stato di paranoia ovunque’ in Eritrea. All’ultimo posto per Press Freedom Index e rispetto dei diritti di comunicazione ed informazione, subito dopo la Corea del Nord. Ogni dissidente politico, sociale, militante ha in comune la stessa sorte nei percorsi prestabiliti dagli uomini del Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia, partito al potere attualmente in Eritrea: arresto, tortura o non ritrovamento.

Secondo i dati di Amnesty International, in Eritrea si contano almeno 10.000 prigionieri politici, tra i quali critici, dissidenti, scrittori, uomini e donne che hanno eluso il servizio militare obbligatorio e giornalisti. Detenuti nel campo militare di Wi’a. Sottoposti a rigida sorveglianza e forzati a soprusi.

Nessuna elezione democratica è stata tenuta da quando il Paese ha ottenuto l’indipendenza. Nessuna costituzione, nessun sistema giudiziario indipendente. Non esistono partiti di opposizione, nè media indipendenti. Vietata, di fatto, la formazione di qualsiasi associazione o organizzazione privata. Non sono ammessi incontri pubblici culturali o religiosi, raduni e riunioni di piazza superiori alle sette persone, che vengono sistematicamente smantellati dalle forze dell’ordine con interrogatori, violenze e registrazione del nome dei partecipanti. Le organizzazioni non governative, politiche, sociali e quelle che lavorano per la promozione dei diritti umani non sono autorizzate ad operare nel regime autoritario del Paese.

Non c’è nessuna guerra civile in Eritrea, né un intervento militare internazionale. C’è un disumano, sanguinario, spietato e totalitario stato di polizia da oltre 20 anni. Ecco perchè si fugge dall’Eritrea. 112.283 rifugiati eritrei hanno trovato una casa nei campi profughi di Gadaref e Kassala, regioni orientali aride sudanesi. Almeno altri 200.000 sono stati accomodati nei principali quattro campi profughi della regione del Tigray, e nei due della regione di Afar, nel nord-est dell’Etiopia.

Rifugiati e membri del Tigray People’s Democratic Movement, gruppo eritreo di opposizione in esilio, intensificano la lotta armata contro il governo di Asmara, accusato di gravi violazioni dei diritti umani, tra cui esecuzioni, reclusioni arbitrarie e senza processo, persecuzioni, sparizioni, molestie e intimidazioni.

Secondo il rapporto redatto lo scorso giugno, dalla commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite, le esecuzioni extragiudiziali, le torture, il servizio militare illimitato e il lavoro forzato, rappresenterebbero crimini contro l’umanità, che potrebbero esporre i funzionari eritrei a giudizio nella Corte Penale Internazionale. Il Ministero degli Affari Esteri eritreo ha respinto ogni accusa, che definisce solo come atto volto a indebolire la sovranità del presidente Afewerki e il progresso del Paese.

Il futuro dell’Eritrea si destreggia con instabilità tra costo della vita improponibile, infrastrutture al collasso, ombre di nuovi scontri armati. I genitori vivono nella paura del diciottesimo compleanno dei figli, data che segna l’inevitabile arruolamento nell’esercito eritreo. Lavoro coatto per sfruttare le ricchezze minerarie eritree come oro, rame e potassio, nel deserto dancalo. E mentre è proibito uscire clandestinamente dal Paese, il resto della popolazione lavora duramente, con basse retribuzioni, in aziende agricole e progetti pubblici. Nena News

Nena News Agency “L’Eritrea nel giogo della repressione di Stato” – di Federica Iezzi

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Sabra and Shatila

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di Robert Fisk

“Furono le mosche a farcelo capire. Erano milioni e il loro ronzio era eloquente quasi quanto l’odore. Grosse come mosconi, all’inizio ci coprirono completamente, ignare della differenza tra vivi e morti. Se stavamo fermi a scrivere, si insediavano come un esercito – a legioni – sulla superficie bianca dei nostri taccuini, sulle mani, le braccia, le facce, sempre concentrandosi intorno agli occhi e alla bocca, spostandosi da un corpo all’altro, dai molti morti ai pochi vivi, da cadavere a giornalista, con i corpicini verdi, palpitanti di eccitazione quando trovavano carne fresca sulla quale fermarsi a banchettare.

Se non ci muovevamo abbastanza velocemente, ci pungevano. Perlopiù giravano intorno alle nostre teste in una nuvola grigia, in attesa che assumessimo la generosa immobilità dei morti. Erano servizievoli quelle mosche, costituivano il nostro unico legame fisico con le vittime che ci erano intorno, ricordandoci che c’è vita anche nella morte. Qualcuno ne trae profitto. Le mosche sono imparziali. Per loro non aveva nessuna importanza che quei corpi fossero stati vittime di uno sterminio di massa. Le mosche si sarebbero comportate nello stesso modo con un qualsiasi cadavere non sepolto. Senza dubbio, doveva essere stato così anche nei caldi pomeriggi durante la Peste nera.

All’inizio non usammo la parola massacro. Parlammo molto poco perché le mosche si avventavano infallibilmente sulle nostrae bocche. Per questo motivo ci tenevamo sopra un fazzoletto, poi ci coprimmo anche il naso perché le mosche si spostavano su tutta la faccia. Se a Sidone l’odore dei cadaveri era stato nauseante, il fetore di Shatila ci faceva vomitare. Lo sentivamo anche attraverso i fazzoletti più spessi. Dopo qualche minuto, anche noi cominciammo a puzzare di morto.

Erano dappertutto, nelle strade, nei vicoli, nei cortili e nelle stanze distrutte, sotto i mattoni crollati e sui cumuli di spazzatura. Gli assassini – i miliziani cristiani che Israele aveva lasciato entrare nei campi per «spazzare via i terroristi» – se n’erano appena andati. In alcuni casi il sangue a terra era ancora fresco. Dopo aver visto un centinaio di morti, smettemmo di contarli. In ogni vicolo c’erano cadaveri – donne, giovani, nonni e neonati – stesi uno accanto all’altro, in quantità assurda e terribile, dove erano stati accoltellati o uccisi con i mitra. In ogni corridoio tra le macerie trovavamo nuovi cadaveri. I pazienti di un ospedale palestinese erano scomparsi dopo che i miliziani avevano ordinato ai medici di andarsene. Dappertutto, trovavamo i segni di fosse comuni scavate in fretta. Probabilmente erano state massacrate mille persone; e poi forse altre cinquecento.

Mentre eravamo lì, davanti alle prove di quella barbarie, vedevamo gli israeliani che ci osservavano. Dalla cima di un grattacielo a ovest – il secondo palazzo del viale Camille Chamoun – li vedevamo che ci scrutavano con i loro binocoli da campo, spostandoli a destra e a sinistra sulle strade coperte di cadaveri, con le lenti che a volte brillavano al sole, mentre il loro sguardo si muoveva attraverso il campo. Loren Jenkins continuava a imprecare. Pensai che fosse il suo modo di controllare la nausea provocata da quel terribile fetore. Avevamo tutti voglia di vomitare. Stavamo respirando morte, inalando la putredine dei cadaveri ormai gonfi che ci circondavano. Jenkins capì subito che il ministro della Difesa israeliano avrebbe dovuto assumersi una parte della responsabilità di quell’orrore. «Sharon!» gridò. «Quello stronzo di Sharon! Questa è un’altra Deir Yassin.»

Quello che trovammo nel campo palestinese di Shatila alle dieci di mattina del 18 settembre 1982 non era indescrivibile, ma sarebbe stato più facile da raccontare nella fredda prosa scientifica di un esame medico. C’erano già stati massacri in Libano, ma raramente di quelle proporzioni e mai sotto gli occhi di un esercito regolare e presumibilmente disciplinato. Nell’odio e nel panico della battaglia, in quel paese erano state uccise decine di migliaia di persone. Ma quei civili, a centinaia, erano tutti disarmati. Era stato uno sterminio di massa, un’atrocità, un episodio – con quanta facilità usavamo la parola «episodio» in Libano – che andava ben oltre quella che in altre circostanze gli israeliani avrebbero definito una strage terroristica. Era stato un crimine di guerra.

Jenkins, Tveit e io eravamo talmente sopraffatti da ciò che avevamo trovato a Shatila che all’inizio non riuscivamo neanche a renderci conto di quanto fossimo sconvolti. Bill Foley dell’Ap era venuto con noi. Mentre giravamo per le strade, l’unica cosa che riusciva a dire era «Cristo santo!». Avremmo potuto accettare di trovare le tracce di qualche omicidio, una dozzina di persone uccise nel fervore della battaglia; ma nelle case c’erano donne stese con le gonne sollevate fino alla vita e le gambe aperte, bambini con la gola squarciata, file di ragazzi ai quali avevano sparato alle spalle dopo averli allineati lungo un muro. C’erano neonati – tutti anneriti perché erano stati uccisi più di ventiquattro ore prima e i loro corpicini erano già in stato di decomposizione – gettati sui cumuli di rifiuti accanto alle scatolette delle razioni dell’esercito americano, alle attrezzature mediche israeliane e alle bottiglie di whisky vuote.

Dov’erano gli assassini? O per usare il linguaggio degli israeliani, dov’erano i «terroristi»? Mentre andavamo a Shatila avevamo visto gli israeliani in cima ai palazzi del viale Camille Chamoun, ma non avevano cercato di fermarci. In effetti, eravamo andati prima al campo di Burj al-Barajne perché qualcuno ci aveva detto che c’era stato un massacro. Tutto quello che avevamo visto era un soldato libanese che inseguiva un ladro d’auto in una strada. Fu solo mentre stavamo tornando indietro e passavamo davanti all’entrata di Shatila che Jenkins decise di fermare la macchina. «Non mi piace questa storia» disse. «Dove sono finiti tutti? Che cavolo è quest’odore?»

Appena superato l’ingresso sud del campo, c’erano alcune case a un piano circondate da muri di cemento. Avevo fatto tante interviste in quelle casupole alla fine degli anni settanta. Quando varcammo la fangosa entrata di Shatila vedemmo che tutte quelle costruzioni erano state fatte saltare in aria con la dinamite. C’erano bossoli sparsi a terra sulla strada principale. Vidi diversi candelotti di traccianti israeliani, ancora attaccati ai loro minuscoli paracadute. Nugoli di mosche aleggiavano tra le macerie, branchi di predoni che avevano annusato la vittoria.

In fondo a un vicolo sulla nostra destra, a non più di cinquanta metri dall’entrata, trovammo un cumulo di cadaveri. Erano più di una dozzina, giovani con le braccia e le gambe aggrovigliate nell’agonia della morte. A tutti avevano sparato a bruciapelo, alla guancia: la pallottola aveva portato via una striscia di carne fino all’orecchio ed era poi entrata nel cervello. Alcuni avevano cicatrici nere o rosso vivo sul lato sinistro del collo. Uno era stato castrato, i pantaloni erano strappati sul davanti e un esercito di mosche banchettava sul suo intestino dilaniato.

Avevano tutti gli occhi aperti. Il più giovane avrà avuto dodici o tredici anni. Portavano jeans e camicie colorate, assurdamente aderenti ai corpi che avevano cominciato a gonfiarsi per il caldo. Non erano stati derubati. Su un polso annerito, un orologio svizzero segnava l’ora esatta e la lancetta dei minuti girava ancora, consumando inutilmente le ultime energie rimaste sul corpo defunto.

world.34.main.Reut(1)Dall’altro lato della strada principale, risalendo un sentiero coperto di macerie, trovammo i corpi di cinque donne e parecchi bambini. Le donne erano tutte di mezza età ed erano state gettate su un cumulo di rifiuti. Una era distesa sulla schiena, con il vestito strappato e la testa di una bambina che spuntava sotto il suo corpo. La bambina aveva i capelli corti, neri e ricci, dal viso corrucciato i suoi occhi ci fissavano. Era morta.

Un’altra bambina era stesa sulla strada come una bambola gettata via, con il vestitino bianco macchiato di fango e polvere. Non avrà avuto più di tre anni. La parte posteriore della testa era stata portata via dalla pallottola che le avevano sparato al cervello. Una delle donne stringeva a sé un minuscolo neonato. La pallottola attraversandone il petto aveva ucciso anche il bambino. Qualcuno le aveva squarciato la pancia in lungo e in largo, forse per uccidere un altro bambino non ancora nato. Aveva gli occhi spalancati, il volto scuro pietrificato dall’orrore.

Tveit cercò di registrare tutto su una cassetta, parlando lentamente in norvegese e in tono impassibile. «Ho trovato altri corpi, quelli di una donna con il suo bambino. Sono morti. Ci sono altre tre donne. Sono morte.»

Di tanto in tanto, premeva il bottone della pausa e si piegava per vomitare nel fango della strada. Mentre esploravamo un vicolo, Foley, Jenkins e io sentimmo il rumore di un cingolato. «Sono ancora qui» disse Jenkins e mi fissò. Erano ancora lì. Gli assassini erano ancora nel campo. La prima preoccupazione di Foley fu che i miliziani cristiani potessero portargli via il rullino, l’unica prova – per quanto ne sapesse – di quello che era successo. Cominciò a correre lungo il vicolo.

Io e Jenkins avevamo paure più sinistre. Se gli assassini erano ancora nel campo, avrebbero voluto eliminare i testimoni piuttosto che le prove fotografiche. Vedemmo una porta di metallo marrone socchiusa; l’aprimmo e ci precipitammo nel cortile, chiudendola subito dietro di noi. Sentimmo il veicolo che si addentrava nella strada accanto, con i cingoli che sferragliavano sul cemento. Jenkins e io ci guardammo spaventati e poi capimmo che non eravamo soli. Sentimmo la presenza di un altro essere umano. Era lì vicino a noi, una bella ragazza distesa sulla schiena.

Era sdraiata lì come se stesse prendendo il sole, il sangue ancora umido le scendeva lungo la schiena. Gli assassini se n’erano appena andati. E lei era lì, con i piedi uniti, le braccia spalancate, come se avesse visto il suo salvatore. Il viso era sereno, gli occhi chiusi, era una bella donna, e intorno alla sua testa c’era una strana aureola: sopra di lei passava un filo per stendere la biancheria e pantaloni da bambino e calzini erano appesi. Altri indumenti giacevano sparsi a terra. Quando gli assassini avevano fatto irruzione, probabilmente stava ancora stendendo il bucato della sua famiglia. E quando era caduta, le mollette che teneva in mano erano finite a terra formando un piccolo cerchio di legno attorno al suo capo.

Solo il minuscolo foro che aveva sul seno e la macchia che si stava man mano allargando indicavano che fosse morta. Perfino le mosche non l’avevano ancora trovata. Pensai che Jenkins stesse pregando, ma imprecava di nuovo e borbottava «Dio santo», tra una bestemmia e l’altra. Provai tanta pena per quella donna. Forse era più facile provare pietà per una persona giovane, così innocente, una persona il cui corpo non aveva ancora cominciato a marcire. Continuavo a guardare il suo volto, il modo ordinato in cui giaceva sotto il filo da bucato, quasi aspettandomi che aprisse gli occhi da un momento all’altro.

Probabilmente quando aveva sentito sparare nel campo era andata a nascondersi in casa. Doveva essere sfuggita all’attenzione dei miliziani fino a quella mattina. Poi era uscita in giardino, non aveva sentito nessuno sparo, aveva pensato che fosse tutto finito e aveva ripreso le sue attività quotidiane. Non poteva sapere quello che era successo. A un tratto qualcuno aveva aperto la porta, improvvisamente come avevamo fatto noi, e gli assassini erano entrati e l’avevano uccisa. Senza pensarci due volte. Poi se n’erano andati ed eravamo arrivati noi, forse soltanto un minuto o due dopo.

Rimanemmo in quel giardino ancora per un po’. Io e Jenkins eravamo spaventati. Come Tveit, che era momentaneamente scomparso, Jenkins era un sopravvissuto. Mi sentivo al sicuro con lui. I miliziani – gli assassini della ragazza – avevano violentato e accoltellato le donne di Shatila e sparato agli uomini, ma sospettavo che avrebbero esitato a uccidere Jenkins e l’americano avrebbe cercato di dissuaderli. «Andiamocene via di qui» disse, e ce ne andammo. Fece capolino in strada per primo, io lo seguii, chiudendo la porta molto piano perché non volevo disturbare la donna morta, addormentata, con la sua aureola di mollette da bucato.

Foley era tornato sulla strada vicino all’entrata del campo. Il cingolato era scomparso, anche se sentivo che si spostava sulla strada principale esterna, in direzione degli israeliani che ci stavano ancora osservando. Jenkins sentì Tveit urlare da dietro una catasta di cadaveri e lo persi di vista. Continuavamo a perderci di vista dietro i cumuli di cadaveri. Un attimo prima stavo parlando con Jenkins, un attimo dopo mi giravo e scoprivo che mi stavo rivolgendo a un ragazzo, riverso sul pilastro di una casa con le braccia penzoloni dietro la testa.

Sentivo le voci di Jenkins e Tveit a un centinaio di metri di distanza, dall’altra parte di una barricata coperta di terra e sabbia che era stata appena eretta da un bulldozer. Sarà stata alta più di tre metri e mi arrampicai con difficoltà su uno dei lati, con i piedi che scivolavano nel fango. Quando ormai ero arrivato quasi in cima persi l’equilibrio e per non cadere mi aggrappai a una pietra rosso scuro che sbucava dal terreno. Ma non era una pietra. Era viscida e calda e mi rimase appiccicata alla mano. Quando abbassai gli occhi vidi che mi ero attaccato a un gomito che sporgeva dalla terra, un triangolo di carne e ossa.

Lo lasciai subito andare, inorridito, pulendomi i resti di carne morta sui pantaloni, e finii di salire in cima alla barricata barcollando. Ma l’odore era terrificante e ai miei piedi c’era un volto al quale mancava metà bocca, che mi fissava. Una pallottola o un coltello gliel’avevano portata via, quello che restava era un nido di mosche. Cercai di non guardarlo. In lontananza, vedevo Jenkins e Tveit in piedi accanto ad altri cadaveri davanti a un muro, ma non potevo chiedere aiuto perché sapevo che se avessi aperto la bocca per gridare avrei vomitato.

Salii in cima alla barricata cercando disperatamente un punto che mi consentisse di saltare dall’altra parte. Ma non appena facevo un passo, la terra mi franava sotto i piedi. L’intero cumulo di fango si muoveva e tremava sotto il mio peso come se fosse elastico e, quando guardai giù di nuovo, vidi che solo uno strato sottile di sabbia copriva altre membra e altri volti. Mi accorsi che una grossa pietra era in realtà uno stomaco. Vidi la testa di un uomo, il seno nudo di una donna, il piede di un bambino. Stavo camminando su decine di cadaveri che si muovevano sotto i miei piedi.

I corpi erano stati sepolti da qualcuno in preda al panico. Erano stati spostati con un bulldozer al lato della strada. Anzi, quando sollevai lo sguardo vidi il bulldozer – con il posto di guida vuoto – parcheggiato con aria colpevole in fondo alla strada.

Mi sforzavo invano di non camminare sulle facce che erano sotto di me. Provavamo tutti un profondo rispetto per i morti, perfino lì e in quel momento. Continuavo a dirmi che quei cadaveri mostruosi non erano miei nemici, quei morti avrebbero approvato il fatto che fossi lì, avrebbero voluto che io, Jenkins e Tveit vedessimo tutto questo, e quindi non dovevo avere paura di loro. Ma non avevo mai visto tanti cadaveri in tutta la mia vita.

Saltai giù e corsi verso Jenkins e Tveit. Suppongo che stessi piagnucolando come uno scemo perché Jenkins si girò. Sorpreso. Ma appena aprii la bocca per parlare, entrarono le mosche. Le sputai fuori. Tveit vomitava. Stava guardando quelli che sembravano sacchi davanti a un basso muro di pietra. Erano tutti allineati, giovani uomini e ragazzi, stesi a faccia in giù. Gli avevano sparato alla schiena mentre erano appoggiati al muro e giacevano lì dov’erano caduti, una scena patetica e terribile.

Quel muro e il mucchio di cadaveri mi ricordavano qualcosa che avevo già visto. Solo più tardi mi sarei reso conto di quanto assomigliassero alle vecchie fotografie scattate nell’Europa occupata durante la Seconda guerra mondiale. Ci sarà stata una ventina di corpi. Alcuni nascosti da altri. Quando mi inchinai per guardarli più da vicino notai la stessa cicatrice scura sul lato sinistro del collo. Gli assassini dovevano aver marchiato i prigionieri da giustiziare in quel modo. Un taglio sulla gola con il coltello significava che l’uomo era un terrorista da giustiziare immediatamente. Mentre eravamo lì sentimmo un uomo gridare in arabo dall’altra parte delle macerie: «Stanno tornando». Così corremmo spaventati verso la strada. A ripensarci, probabilmente era la rabbia che ci impediva di andarcene, perché ci fermammo all’ingresso del campo per guardare in faccia alcuni responsabili di quello che era successo. Dovevano essere arrivati lì con il permesso degli israeliani. Dovevano essere stati armati da loro. Chiaramente quel lavoro era stato controllato – osservato attentamente – dagli israeliani, dagli stessi soldati che guardavano noi con i binocoli da campo.

Sentimmo un altro mezzo corazzato sferragliare dietro un muro a ovest – forse erano falangisti, forse israeliani – ma non apparve nessuno. Così proseguimmo. Era sempre la stessa scena. Nelle casupole di Shatila, quando i miliziani erano entrati dalla porta, le famiglie si erano rifugiate nelle camere da letto ed erano ancora tutti lì, accasciati sui materassi, spinti sotto le sedie, scaraventati sulle pentole. Molte donne erano state violentate, i loro vestiti giacevano sul pavimento, i corpi nudi gettati su quelli dei loro mariti o fratelli, adesso tutti neri di morte.

C’era un altro vicolo in fondo al campo dove un bulldozer aveva lasciato le sue tracce sul fango. Seguimmo quelle orme fino a quando non arrivammo a un centinaio di metri quadrati di terra appena arata. Sul terreno c’era un tappeto di mosche e anche lì si sentiva il solito, leggero, terribile odore dolciastro. Vedendo quel posto, sospettammo tutti di che cosa si trattasse, una fossa comune scavata in fretta. Notammo che le nostre scarpe cominciavano ad affondare nel terreno, che sembrava liquido, quasi acquoso e tornammo indietro verso il sentiero tracciato dal bulldozer, terrorizzati.

Un diplomatico norvegese – un collega di Ane-Karina Arveson – aveva percorso quella strada qualche ora prima e aveva visto un bulldozer con una decina di corpi nella pala, braccia e gambe che penzolavano fuori dalla cassa. Chi aveva ricoperto quella fossa con tanta solerzia? Chi aveva guidato il bulldozer? Avevamo una sola certezza: gli israeliani lo sapevano, lo avevano visto accadere, i loro alleati – i falangisti o i miliziani di Haddad – erano stati mandati a Shatila a commettere quello sterminio di massa. Era il più grave atto di terrorismo – il più grande per dimensioni e durata, commesso da persone che potevano vedere e toccare gli innocenti che stavano uccidendo – della storia recente del Medio Oriente.

Incredibilmente, c’erano alcuni sopravvissuti. Tre bambini piccoli ci chiamarono da un tetto e ci dissero che durante il massacro erano rimasti nascosti. Alcune donne in lacrime ci gridarono che i loro uomini erano stati uccisi. Tutti dissero che erano stati i miliziani di Haddad e i falangisti, descrissero accuratamente i diversi distintivi con l’albero di cedro delle due milizie.

Sulla strada principale c’erano altri corpi. «Quello era il mio vicino, il signor Nuri» mi gridò una donna. «Aveva novant’anni.» E lì sul marciapiede, sopra un cumulo di rifiuti, era disteso un uomo molto anziano con una sottile barba grigia e un piccolo berretto di lana ancora in testa. Un altro vecchio giaceva davanti a una porta in pigiama, assassinato qualche ora prima mentre cercava di scappare. Trovammo anche alcuni cavalli morti, tre grossi stalloni bianchi che erano stati uccisi con una scarica di mitra davanti a una casupola, uno di questi aveva uno zoccolo appoggiato al muro, forse aveva cercato di saltare per mettersi in salvo mentre i miliziani gli sparavano.

C’erano stati scontri nel campo. La strada vicino alla moschea di Sabra era diventata sdrucciolevole per quanto era coperta di bossoli e nastri di munizioni, alcuni dei quali erano di fattura sovietica, come quelli usati dai palestinesi. I pochi uomini che possedevano ancora un’arma avevano cercato di difendere le loro famiglie. Nessuno avrebbe mai conosciuto la loro storia. Quando si erano accorti che stavano massacrando il loro popolo? Come avevano fatto a combattere con così poche armi? In mezzo alla strada, davanti alla moschea, c’era un kalashnikov giocattolo di legno in scala ridotta, con la canna spezzata in due.

Camminammo in lungo e in largo per il campo, trovando ogni volta altri cadaveri, gettati nei fossi, appoggiati ai muri, allineati e uccisi a colpi di mitra. Cominciammo a riconoscere i corpi che avevamo già visto. Laggiù c’era la donna con la bambina in braccio, ecco di nuovo il signor Nuri, disteso sulla spazzatura al lato della strada. A un certo punto, guardai con attenzione la donna con la bambina perché mi sembrava quasi che si fosse mossa, che avesse assunto una posizione diversa. I morti cominciavano a diventare reali ai nostri occhi.

“Sabra and Shatila” – Robert Fisk

“The Kahan Commission of Inquiry”

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AFRICA. Ebola, abbiamo già dimenticato

Nena News Agency – 10 settembre 2015

Il virus rallenta la sua diffusione e cala la mortalità ma la malattia è ancora presente in molti Paesi e richiede l’attenzione e l’aiuto della comunità internazionale a Stati che restano poveri di risorse e strutture 

ebola john moore

di Federica Iezzi

Roma, 10 settembre 2015, Nena News Passati più di 40 giorni dall’ultimo caso conosciuto e l’Organizzazione Mondiale della Sanità dichiara per la seconda volta la Liberia ‘Ebola free’. Iniziano ora i 90 giorni di stretta sorveglianza. La trasmissione dell’infezione sembrava essersi arrestata, in Liberia, durante lo scorso maggio ma la malattia riemerse alla fine del mese di giugno, con sei nuovi casi e 143 nuovi contagi.

Dal dicembre 2013 in Liberia a causa del virus ebola sono morte 4.808 persone. I contagi sono stati 10.672.

Tutto parte da Guéckédou, una zona boschiva della Guinea Conakry, vicino al confine con Liberia e Sierra Leone. Dal primo caso riportato di ebola, nel dicembre 2013, l’Africa occidentale è stata devastata dall’infezione, con 28.073 casi confermati in Guinea, Liberia e Sierra Leone, e con 11.290 decessi. Documentati casi anche in Italia, Mali, Nigeria, Senegal, Spagna, Inghilterra e Stati Uniti.

Dopo quasi due anni, statisticamente, la velocità di trasmissione del virus in Guinea e Sierra Leone è arrivata al punto più basso. Nel mese di agosto ci sono stati dieci casi confermati in Guinea e quattro casi confermati in Sierra Leone, a fronte rispettivamente di 526 e 1.997 casi, durante il picco di trasmissione della malattia, nel novembre 2014.

Strategie di sanità pubblica sono tuttora in corso per rafforzare la sorveglianza contro l’infezione da ebola, per migliorare le capacità e le attività dei laboratori medici, per intensificare la formazione epidemiologica.

Secondo l’ultimo rapporto dell’OMS ci sono stati due casi confermati, segnalati la scorsa settimana in Guinea, nell’area di Ratoma della città di Conakry, un nuovo caso in Sierra Leone, il primo dopo due settimane. 410 pazienti rimangono ancora in follow-up nelle regioni occidentali di Conakry, Dubreka e Forecariah, in Guinea. Solo 48 in Sierra Leone, nel distretto di Kambia. Nessun paziente in follow-up in Liberia, tutti sono stati seguiti per 21 giorni dopo la guarigione.

Già in quarantena la piccola località di Sella Kafta, nel distretto di Kambia, nel nordovest della Sierra Leone, dove pare risiedesse la donna, che dopo aver contratto l’ebola, è deceduta la scorsa settimana. E proprio nella provincia di Sella Kafta, le prime 150 persone hanno ricevuto il vaccino sperimentale contro l’ebola VSV-EBOV, frutto della ricerca canadese. Testato già su circa 4.000 persone in Guinea, i risultati sembrano molto incoraggianti e definiscono la terapia ‘efficace al cento per cento’. In Guinea, dei circa 2.000 soggetti venuti a contatto con ebola, nessuno ha sviluppato il virus, dopo una vaccinazione immediata. Tra le 2.380 persone che invece hanno ricevuto il vaccino tardivamente, ci sono stati 16 contagi.

Mentre continua la discussione sul Favipiravir, farmaco antivirale messo a punto da ricercatori giapponesi, usato nella profilassi post-esposizione al virus. Nei test clinici, nei pazienti con bassa carica virale ematica, può fare la differenza, abbassando il tasso di mortalità dal 30 al 15%. Trial clinici sono ancora in corso a Guéckédou, Nzérékoré e Macenta in Guinea.

Costa d’Avorio, Guinea-Bissau, Mali e Senegal, che dividono i loro confini con uno dei tre Paesi maggiormente colpiti, sono nella lista dei Paesi africani ad altà priorità di supporto, stilata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. L’obiettivo è la copertura del livello minimo di scorte sanitarie per fronteggiare un eventuale spirale di contagi. Nena News

Nena News Agency “AFRICA. Ebola, abbiamo già dimenticato” di Federica Iezzi

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GAZA: ospedali al collasso, mancano i farmaci

Il Manifesto – 05 agosto 2015

Sanità. Senza il 32% dei medicinali di prima assistenza. Le cause: embargo, crisi economica e mancata collaborazione tra Hamas e Ramallah

Rafah (Striscia di Gaza) - Al-Najjar hospital

Rafah (Striscia di Gaza) – Al-Najjar hospital

di Federica Iezzi

Gaza City (Striscia di Gaza) – Ogni strut­tura sani­ta­ria rima­sta in piedi nella Stri­scia di Gaza dopo Mar­gine Pro­tet­tivo, sta soprav­vi­vendo ad una grave carenza di far­maci e for­ni­ture medi­che. Risul­tato degli otto anni di embargo impo­sto da Israele e Egitto, di un lungo anno di crisi finan­zia­ria all’interno dell’Anp e di una mar­cata man­canza di coo­pe­ra­zione tra il governo di Ramal­lah e Hamas a Gaza. Attual­mente manca il 32% dei far­maci di assi­stenza pri­ma­ria, il 54% dei far­maci immu­no­lo­gici e il 30% dei far­maci onco­lo­gici. Sono dispo­ni­bili solo 260 dei 900 mate­riali sani­tari di con­sumo essen­ziali. Secondo il Mini­stero della Sanità pale­sti­nese nella Stri­scia sono assenti 118 tipi di far­maci (25%) e 334 pre­sidi sani­tari (37%).
Alcuni ane­ste­tici man­cano del tutto. Solo 33 dei 46 far­maci psi­chia­trici essen­ziali sono disponibili.

La con­di­zione dei malati di can­cro a Gaza è segnata dalla carenza di far­maci anti­tu­mo­rali dovuta al blocco impla­ca­bile di Israele del ter­ri­to­rio costiero pale­sti­nese, e dall’impossibilità di rag­giun­gere ospe­dali fuori dalla Stri­scia. Ogni mese solo il 10%, dei 1500 gazawi che chie­dono il per­messo di ingresso in Cisgior­da­nia, Israele e Egitto per cure medi­che, riceve un appro­priato trat­ta­mento anti-tumorale. Negli ultimi dieci anni il numero dei pazienti con can­cro nella Stri­scia di Gaza è lie­vi­tato. Car­ci­noma tiroi­deo, leu­ce­mia e mie­loma mul­ti­plo sono i tumori con più alta fre­quenza. Sotto accusa: l’uso di armi da guerra da parte di Israele in zone alta­mente popo­late, l’uso indi­scri­mi­nato di fosforo bianco già dall’offensiva mili­tare israe­liana del 2008, i con­sumi di acqua inqui­nata, l’uso di ter­reni inqui­nati per la coltivazione.

Nel dipar­ti­mento di onco­lo­gia dell’al-Shifa hospi­tal, a Gaza City, ven­gono trat­tati 150 pazienti onco­lo­gici al giorno, con tre medici, cin­que infer­mieri e solo 15 posti letto. Ogni mese 70–100 nuovi casi. Si lavora con poco meno del 40% dei far­maci anti­tu­mo­rali neces­sari. Proi­bita la radio­te­ra­pia e la tera­pia mole­co­lare, per­ché dal valico com­mer­ciale di Kerem Abu Salem, al con­fine con Israele, non entrano né i mac­chi­nari per la radio­te­ra­pia esterna né i nuovi far­maci onco­lo­gici. Dia­gnosi sem­pre meno accu­rate per la man­canza dei rea­genti di labo­ra­to­rio e dei mac­chi­nari per esami stru­men­tali. I voluti e per­pe­trati ritardi da parte delle auto­rità israe­liane nel rila­scio del nulla osta di sicu­rezza per l’importazione dei far­maci met­tono a repen­ta­glio ogni giorno la vita dei pazienti affetti da cancro.

Il pro­gramma di tra­pianti del rene, unico ini­ziato a Gaza nel 2013, è pra­ti­ca­mente fermo per­ché Israele proi­bi­sce l’ingresso degli immu­no­sop­pres­sori, cate­go­ria di far­maci uti­liz­zata per evi­tare il rigetto dell’organo. Le restri­zioni sui vali­chi di fron­tiera hanno esa­cer­bato le con­di­zioni di salute degli abi­tanti di Gaza che con­vi­vono con malat­tie cro­ni­che. I far­maci pro­ve­nienti da Israele sono molto più costosi di quelli che arri­vano dall’Egitto. Dif­fi­cili da pro­cu­rarsi per­fino anti­per­ten­sivi e anti­dia­be­tici. E una volta otte­nuti i costi sono spro­po­si­tati e le con­se­gne lente. In più l’insulina per i dia­be­tici richiede refri­ge­ra­zione costante, per poter con­ser­vare la sua effi­ca­cia, che diventa illu­so­ria in un posto in cui manca l’elettricità per 18 ore al giorno. Bloc­cate anche le dona­zioni da orga­niz­za­zioni arabe e inter­na­zio­nali attra­verso il valico di Rafah, al con­fine con l’Egitto, aperto sol­tanto per 15 giorni quest’anno.

I mate­riali sot­to­po­sti a spe­ci­fici per­messi da parte del Mini­stero della Difesa israe­liano spesso sono sem­plici pezzi di ricam­bio per appa­rec­chia­ture dan­neg­giate da anni di degrado. I cosid­detti mate­riali nella lista israe­liana «dual-use», quelli che secondo Tel Aviv pos­sono avere un duplice uti­lizzo, mili­tare e non, spesso sono rea­genti o pro­dotti chi­mici che entrano nel pro­cesso di pre­pa­ra­zione di medi­ci­nali nelle indu­strie far­ma­ceu­ti­che, che prima sod­di­sfa­vano il 15% del fab­bi­so­gno locale. In entrambi i casi ven­gono fer­mati a Kerem Abu Salem. Inol­tre i ser­vizi sani­tari a Gaza sono tenuti a pagare per il depo­sito in Israele delle attrez­za­ture medi­che acqui­state, durante gli inter­mi­na­bili con­trolli di sicu­rezza israeliani.

Il Manifesto 05/09/2015 “GAZA: ospedali al collasso, mancano i farmaci” di Federica Iezzi

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CONGO. La grande paura del morbillo

Nena News Agency – 05 agosto 2015

Secondo i dati riportati dall’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari, OCHA, sono almeno 320 i decessi dall’inizio dell’anno. Sottostimati i contagi che parlano di 30.000 malati. E il governo tace 

fotoMSF

di Federica Iezzi

Lubumbashi (Repubblica Democratica del Congo), 5 settembre 2015, Nena News – Esplosa lo scorso marzo, nella provincia del Katanga, l’epidemia di morbillo continua a serpeggiare pericolosamente nel sud-est della Repubblica Democratica del Congo. Un significativo aumento di casi è stato osservato all’inizio del mese di marzo, principalmente nella zona di Malemba-Nkulu. Poi verso il distretto di Haut-Lomami con 400-800 nuovi casi a settimana.

Secondo i dati riportati dall’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari, OCHA, sono almeno 320 i decessi dall’inizio dell’anno. Sottostimati i contagi che parlano di 30.000 malati, su una popolazione di 11 milioni di abitanti. Esclusi dalle statistiche gli abitanti delle vaste regioni di foreste e delle zone rurali, luoghi non facilmente accessibili.

La costante esposizione alla malnutrizione, alla malaria e alla tubercolosi, la mancanza di una capillare campagna di vaccinazione e le indigenti condizioni di vita continuano ad aggravare l’impatto con il morbillo.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità parla, in Congo, già di gravi complicazioni quali cecità, encefalite, diarrea e disidratazione, infezioni dell’orecchio, polmonite. Nella prima settimana di marzo è stato registrato un tasso di mortalità di quasi il 19%. Mentre i tassi di mortalità sono estremamente bassi nei Paesi occidentali, dell’ordine dell’1‰, i decessi possono superare il 20% nei Paesi in via di sviluppo.

Nel Katanga, le epidemie sono ricorrenti nonostante le campagne di vaccinazione. Ultima grave epidemia nel 2011 con 1.085 decessi e 77.000 contagi.

Nello scorso mese di giugno 10 distretti sanitari su 68 nel Katanga hanno affrontato situazioni di notevole diffusione dell’infezione. Oggi i distretti colpiti sono 20. In un anno, sono stati vaccinati quasi 1,5 milioni di bambini e trattati più di 50.000 casi in 31 distretti sanitari nella provincia del Katanga. I numeri oggi continuano a crescere senza alcuna dichiarazione ufficiale circa l’epidemia da parte del governo congolese.

Intanto si continua a lavorare nelle campagne di immunizzazione nelle province del Sud Kivu, Equateur e Maniema.

Risulta ancora difficoltosa la pianificazione di programmi di vaccinazione di routine per carenza di fondi, mancanza di vaccini, gravi deficienze legate alla stabilità di elettricità per la corretta conservazione dei vaccini, limitatezza di risorse umane qualificate, rifiuto della vaccinazione per motivi religiosi o culturali, insicurezza e isolamento di alcune regioni da parte di gruppi armati.

Durante gli ultimi tre mesi, trattati più di 20.000 pazienti con infezione da morbillo in 5 ospedali e in circa 100 presidi sanitari locali. 287.000 bambini di età compresa tra i sei mesi e i 15 anni sono stati vaccinati come misura preventiva.

Spesso le famiglie viaggiano per 20 chilometri a piedi per ottenere cure mediche, per l’assenza di medicine nei presidi sanitari locali e dopo aver provato i rimedi della medicina tradizionale.

I bambini arrivano nei dispensari medici già con complicazioni respiratorie del morbillo, malnutrizione e altre infezioni concomitanti, come la malaria.

Ottenere forniture mediche è arduo. Per diversi mesi, la strada principale che collega il distretto di Kabalo, centro dell’epidemia, con le altre città della provincia del Katanga è paludosa e impraticabile. A questo si aggiunge la penuria di carburante. L’unico mezzo di collegamento e di approvvigionamento è il treno. Così i pochi farmaci disponibili hanno costi smodati, che pochi possono permettersi.

Dal Ministero della Salute congolese, arriva l’impegno di cure mediche gratuite per i pazienti, vaste campagne di vaccinazione per i bambini, rafforzamento della sorveglianza epidemiologica, formazione del personale sanitario locale e sostegno a strutture mediche.

Nel Katanga, l’epidemia ha inghiottito le zone di Kikondja, Mukanga e Lwamba. E circa un terzo delle aree colpite è oggi oggetto di un esteso programma di vaccinazione. Nena News

Nena News Agency “CONGO. La grande paura del morbillo” – di Federica Iezzi

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