Morire di fame ‘il giorno dopo’ a Gaza

EDITORIALE
-Federica Iezzi-

E’ incredibilmente sprezzante come la gerarchia tra vittime del terrorismo e vittime della guerra contribuisca a disumanizzare i palestinesi. Israele continua nell’imbarazzante tentativo di normalizzare quello che sembra sempre più essere un massacro deliberato di civili, sulla Striscia di Gaza e in Cisgiordania.

Non è un modo nuovo di condurre una guerra. Netanyahu sta percorrendo scrupolosamente gli stessi passi del presidente russo, Vladimir Putin, e di quello siriano, Bashar al-Assad, prendendo di mira civili e infrastrutture di sostentamento. E pure del dittatore iracheno Saddam Hussein, che deliberatamente gasò la popolazione curda.
Ma torniamo al 2013 a Yarmouk, campo profughi palestinese alla periferia di Damasco, in Siria. Cosa è successo? Il campo assediato dalle forze del regime siriano e dai suoi alleati, causò la morte di migliaia di palestinesi. Per fame. Per guerra.

I TEMPI DELLA FAME
La fame e il cibo hanno i loro tempi, che non corrispondono necessariamente al tempo politico o al tempo economico. Le persone non smettono di morire di fame il giorno in cui vengono firmati gli accordi di pace, né quando finisce un assedio.

Il ruolo svolto da Hafiz al-Assad, padre di Bashar al-Assad, nel massacro del campo profughi palestinese di Tell al-Zaatar – nella zona nordorientale di Beirut, in Libano – commesso dalle milizie fasciste cristiano-maronite nel 1976, ha mostrato molto presto la vera natura del regime siriano, per il quale la “questione palestinese” non è altro che un oggetto di propaganda.

Ed ecco come si svolge il piano di Netanyahu. Il livello di distruzione delle infrastrutture civili a Gaza è direttamente proporzionale all’abbandono nel ricostruire pochi miseri metri quadrati di terreno solido. Nel territorio devastato ricompaiono dunque i campi di tela, che negli anni erano scomparsi.

La maggioranza dei palestinesi oggi costituisce una popolazione senza terra né patria. Il regime israeliano spinge per porre fine allo status di rifugiato “ereditario” dei palestinesi. Con quale conseguenza? I bambini palestinesi apolidi non potranno più godere di questo status e finiranno per essere assimilati nei loro Paesi di esilio. Invece, per i palestinesi lo status di rifugiato è la prova tangibile di un’ingiustizia storica.

MIOPIA DELLA GUERRA
Alla luce della miopia della guerra, si continua a cercare una soluzione nel futuro e non nel presente. L’argomento fu particolarmente vivace per gli intellettuali ebrei, che discussero del futuro già nei primi mesi dall’inizio della seconda guerra mondiale. Sfuggiva, però, un dettaglio determinante: se “il giorno dopo” le minoranze etniche sarebbero continuate ad esistere.

Così come la questione della fame decise il futuro dell’Europa nel dopoguerra, parlare di fame a Gaza, oggi, ci impone di riconoscere il fatto che Israele gestisce la carestia nei territori palestinesi da quasi due decenni.

Per comprendere la fame come forza politica internazionale è stato necessario rendere la ricerca sulla fame una scienza che non sia uno strumento al servizio della diplomazia ma un’alternativa ad essa. Qualcosa che oltrepassa i confini e modella la mappa del mondo più velocemente degli accordi diplomatici.

Dunque, la preoccupazione per il “giorno dopo” dovrebbe essere arginata e dovrebbe partire una realistica discussione con la consapevolezza che il momento attuale a Gaza è un momento di fame. È un periodo dalle caratteristiche uniche che rimodella la politica dello spazio.

Dall’inizio dell’assedio sulla Striscia di Gaza nel 2007, il cibo è diventato uno strumento centrale con cui lo Stato israeliano penetra nella vita dei palestinesi. Le centinaia di camion che portano generi di prima necessità in un’area chiusa, il controllo sulla possibilità di obbligare a mangiare un alimento piuttosto che un altro, fanno parte del metodo con cui Israele gestisce la popolazione palestinese a Gaza.

SOVRANITA’ NUTRIZIONALE
I camion colmi di cibo, che arrivano trionfanti a Gaza, sono solo l’immagine speculare di tutti gli alimenti che non provengono dalla terra palestinese. Gaza non ha quasi alcuna possibilità di sovranità nutrizionale e questo è uno dei meccanismi per il quale non ha quasi alcuna possibilità di sovranità politica.

Il risultato agli occhi della Comunità Internazionale è che Gaza è nutrita. Questo fenomeno ha una lunga storia globale. La nutrizione crea lealtà. Secondo questo paradigma, le popolazioni affamate saranno fedeli a coloro che le nutrono e non ad una entità ideologica nazionale. Il cibo è garanzia di obbedienza, e meno “docile” è una popolazione, maggiore è la necessità di gestire il cibo.

Nella storia moderna del cibo, la nutrizione è una parte essenziale del controllo coloniale. Negare i beni di prima necessità a una popolazione civile, al fine di esercitare pressione su elementi militari o politici, è evidentemente contrario al Diritto Internazionale Umanitario.

CALORIE MINIME
Ma Israele ha calcolato scientificamente le calorie minime, necessarie per raggiungere la soglia umanitaria, e le ha tradotte in numero di camion di generi alimentari che entrano a Gaza ogni giorno. L’obiettivo è mantenere Gaza affamata ma non affamarla. Ecco che la politica viscida di Netanyahu parla il linguaggio del diritto internazionale, legittimando il feroce assedio.

Peccato che le calorie sono la più grande frode nell’alimentazione moderna. Il valore energetico di un cibo non ha alcun significato dal punto di vista nutrizionale. A Yarmouk, durante l’occupazione siriana, le donne che non riuscivano ad allattare, utilizzavano latte mescolato allo zucchero. Caloricamente una bomba. Nutrizionalmente inadeguato. I neonati che morivano di fame non venivano, quindi, considerati affamati perché raggiungevano il limite calorico minimo stabilito dalla legge.

E allora, quando la fame è troppo fame? Una persona che può camminare ma non può correre? Una donna che può concepire ma non può allattare? Cento sacchi di riso, mille? Il conteggio delle calorie a Gaza fa parte del concetto che esiste un modo scientifico, giustificato e sostenibile per morire di fame, espropriare e occupare. Ma anche questo, non è altro che un concetto fallito.

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Economia e finanza possono agire contro il genocidio a Gaza

Speciale per Africa ExPress
-Federica Iezzi-

A seguito di una causa intentata dal Sudafrica contro Israele, la Corte Internazionale di Giustizia, lo scorso dicembre, ha stabilito che esiste un “rischio reale e imminente” che Israele stia commettendo un genocidio contro i palestinesi sulla Striscia di Gaza.

Le implicazioni dell’ordinanza sono chiare per Israele, ma quali sono quelle per le multinazionali che intrattengono legami commerciali con Israele e per i Paesi in cui tali società hanno sede?

L’articolo 1 della Convenzione sul genocidio (1948) impone, agli Stati parte, il dovere di “impiegare tutti i mezzi ragionevolmente a disposizione” per prevenire e punire il crimine di genocidio. Ma cosa significa in pratica?
Come già affermato nella sentenza sul caso Bosnia-Erzegovina contro Serbia e Montenegro (2007), un fattore chiave nel determinare ciò che uno Stato deve fare è la sua “capacità di influenzare efficacemente le azioni di chi potrebbe commettere un genocidio”.

La forza e la profondità dei legami che uno Stato terzo ha con Israele, oggi, aiuta a determinare la capacità stessa di impedire atti di genocidio. Dunque, l’articolo 1 stabilisce un obbligo di sforzo, non di risultato.

Nel caso Bosnia-Erzegovina contro Serbia e Montenegro, la Corte Internazionale di Giustizia decretò che l’obbligo di prevenire il genocidio sorge “nell’istante in cui uno Stato viene a conoscenza dell’esistenza di un grave rischio di esecuzione di un genocidio”. Ecco che l’ordinanza della Corte Internazionale di Giustizia, attiva così l’obbligo per gli Stati terzi di intraprendere azioni preventive a Gaza.

E allora, come possono gli Stati terzi prevenire il genocidio, usando le loro relazioni commerciali ed economiche?

Come primo punto, attraverso il disinvestimento da società complici delle violazioni del Diritto Internazionale Umanitario da parte di Israele.

Ne è un esempio la Elbit Systems, il più grande produttore privato di armi in Israele e uno dei maggiori appaltatori della difesa israeliana. Dal lontano 2007, organizzazioni per la difesa dei diritti umani invitano gli Stati a sospendere i contratti con la Elbit Systems e a disinvestire i fondi pubblici dalla società, con sede ad Haifa.

Per rispettare l’articolo 1 della Convenzione sul genocidio, gli Stati devono adottare misure efficaci per impedire alle aziende, domiciliate nella loro giurisdizione, di essere coinvolte in atti di genocidio a Gaza e sanzionarle se lo fanno. Inoltre, i Principi guida delle Nazioni Unite su imprese e diritti umani forniscono ulteriori indicazioni su come uno Stato d’origine – il Paese in cui è domiciliata un’azienda – può adempiere a questo dovere.

E ancora, nelle relazioni commerciali, ogni Stato fornisce quadri giuridici e istituzionali per la cooperazione economica con altre entità. I Paesi che intrattengono rapporti commerciali con Israele devono considerare queste relazioni come un mezzo ragionevolmente disponibile per prevenire il genocidio.

L’Unione Europea è il principale partner commerciale di Israele attraverso un flusso bidirezionale di beni, servizi e investimenti diretti. Questi legami possono essere efficacemente sfruttati per influenzare la condotta di Israele a Gaza. Le sanzioni economiche, compresi gli embarghi commerciali, sono strumenti chiave con cui gli Stati possono esercitare pressioni su partner commerciali e conseguentemente influenzare il comportamento di uno Stato.

Ne è un chiaro esempio la risposta ai crimini di guerra perpetrati dalla Russia in Ucraina. Dal marzo 2014, l’Unione Europea ha progressivamente imposto sanzioni alla Russia, progettate per indebolire la base economica del Paese, privandola di tecnologie e mercati critici e riducendo significativamente la sua capacità finanziaria.

In che modo le aziende potrebbero essere responsabili di complicità nel genocidio? La complicità aziendale negli atti di genocidio viene equiparata ad una relazione di “favoreggiamento”, dove il favoreggiamento si riferisce alla fornitura di sostegno fisico o materiale all’attore che commette un crimine internazionale.

Secondo l’organizzazione Oil Change International, le principali compagnie petrolifere, tra cui BP (British Petroleum), Chevron, ExxonMobil, Shell, Eni e TotalEnergies, sono coinvolte – attraverso le loro quote di proprietà o operazioni – nella fornitura di carburante a Israele.

Veicoli e carburante costituiscono una catena di approvvigionamento essenziale per le attività dell’aeronautica militare, delle forze di terra e della marina israeliane volte ad assediare e attaccare i palestinesi, che godono di uno status di protezione speciale ai sensi del Diritto Internazionale Umanitario, in tutta la Striscia di Gaza.

Altro esempio è il sistema di intelligenza artificiale Lavender, utilizzato da Israele per la campagna di bombardamento automatizzata in aree densamente popolate della Striscia di Gaza. La tecnologia fornita dalla società israeliana Corsight, per il riconoscimento facciale, è gestita direttamente dall’unità di intelligence militare israeliana 8200, autrice di Lavender.

E veniamo alle popolari piattaforme di social media come TikTok, Instagram, X, Facebook, WhatsApp e Telegram. Queste vengono utilizzate sia dai civili che dal personale militare israeliano per diffondere contenuti che potrebbero plausibilmente incitare al genocidio, alla disumanizzazione e alla violenza.

Il divieto del genocidio è una norma di ius cogens – un principio di diritto internazionale consuetudinario – così fondamentale per i valori della comunità internazionale, da non poter essere derogato da nessuna delle parti.

Se in un momento di lucidità, è stato necessario adottare la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948), si è indirettamente riconosciuto che se non incontrano ostacoli, gli Stati, le Nazioni e i popoli, possono diventare indifferenti all’umanità e, quindi, pericolosi e criminali.

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Un parallelo tra Rwanda e Palestina: cosa ha fatto e cosa sta facendo la stampa internazionale?

EDITORIALE
-Federica Iezzi-

Dal Rwanda alla Palestina, da un genocidio all’altro, quali responsabilità hanno gli Stati occidentali?

In quanto ex potenze coloniali, Belgio e Francia, sono state coinvolte nella catena di rivalità interetniche in Rwanda. Contrariamente a tante smentite, come quella del rapporto d’informazione parlamentare francese Quilès-Jospin del 1998, è ormai accertato che, lungi dal proteggere i civili rwandesi, l’Opération Turquoise ha permesso di esfiltrare le forze genocidarie Hutu nella Repubblica Democratica del Congo.

Il rammarico del presidente francese, Emmanuel Macron, arriva proprio mentre continuano indisturbate le vendite di armi a Israele, che da mesi conduce una guerra di sterminio del popolo palestinese nella Striscia di Gaza.
Ma come mantenere la credibilità quando le principali democrazie liberali del mondo sono complici di crimini internazionali?

Quello che sta succedendo a Gaza è chiarificatore. Ciò che doveva essere nascosto è stato portato alla luce. Ciò che doveva essere oscurato è stato nettamente messo a fuoco. Si parla di una violazione della legge che corre velocemente, prima che la mente abbia il tempo di assorbire e soppesare la gravità e la portata del crimine.

Questa volta, l’errore dell’Occidente è difficile da mascherare, e il nemico è così irrisorio – poche migliaia di combattenti all’interno di una ‘prigione’ assediata per anni – che l’asimmetria è ardua da ignorare.

Per eliminare domande e riflessioni, le élite occidentali hanno dovuto lavorare duramente su due aspetti. Hanno cercato di persuadere l’opinione pubblica che gli atti di cui sono complici non sono così gravi come sembrano. E poi che il male perpetrato dal nemico è così eccezionale, così inconcepibile da giustificare una catastrofica risposta.

Questo è esattamente il ruolo svolto dai media occidentali, in un’inquadratura perversa, che purtroppo non è nuova.

Come hanno affrontato i media il fatto che più di due milioni di palestinesi a Gaza stanno gradualmente morendo di fame a causa del blocco degli aiuti umanitari, azione che evidentemente non ha alcuno scopo militare evidente, se non quello di infliggere una vendetta selvaggia sui civili palestinesi?

Piuttosto che parlare di una politica dichiarata di Israele, ecco cosa racconta la stampa internazionale: i combattenti di Hamas sopravvivranno a bambini, malati e anziani in qualsiasi guerra di logoramento in stile medievale, che neghi a Gaza cibo, acqua e farmaci.

Se ad imporre la fame sulla Striscia di Gaza non è Israele, l’impotenza dell’Occidente è assolutamente sottostimata. Ma l’Occidente non è impotente. Sta consentendo un realistico crimine contro l’umanità, rifiutandosi di esercitare il proprio potere per condannare Israele.

Nel frattempo, la stampa liberale occidentale ha abilmente assistito Washington nelle sue varie deviazioni dai crimini di guerra imputati allo stato israeliano, non ultimo sul veto diplomatico che gli Stati Uniti esercitano regolarmente per tutelare Israele, riciclando le accuse verso i palestinesi.

Colte di sorpresa dall’attacco di Hamas, lo scorso ottobre, le forze di difesa israeliane hanno lanciato furiosamente munizioni da carri armati e missili Hellfire, incenerendo indiscriminatamente combattenti di Hamas e prigionieri israeliani. La lunga fila di auto bruciate, distrutte e accatastate, come simbolo visivo del sadismo di Hamas, è infatti la prova, nel migliore dei casi, dell’incompetenza di Israele e, nel peggiore, della sua ferocia.

Da quella data, sono esplosi online discorsi disumanizzanti profondamente inquietanti, retorica genocida e incitamento alla violenza contro il popolo palestinese, da parte di funzionari e personaggi pubblici israeliani [https://law4palestine.org/wp-content/uploads/2024/02/Final-Jan.-26-Statements-DB.pdf].

Ma l’arma peggiore è stata la cospirazione del silenzio. Se c’è qualcosa che si è rivelato sistematico, sono le gravi carenze nella copertura, da parte dei media occidentali, di un plausibile genocidio in corso a Gaza. Le mani dei media sono state fondamentali per rendere possibile la collusione.

Per tutte le piattaforme web, i Principi guida delle Nazioni Unite su imprese e diritti umani chiariscono che le aziende dovrebbero rispettare i diritti umani, identificare e mitigare i danni e porre rimedio agli abusi ovunque operino. Sia attraverso l’azione che per omissione, i social media hanno il record di alimentare conflitti, come nei casi del Myanmar e dell’Etiopia.

Nonostante le atrocità senza precedenti sulla Striscia di Gaza, nessuna delle piattaforme di social media – tra cui Facebook, Instagram, YouTube, X e TikTok, o app di messaggistica come WhatsApp e Telegram – ha condotto e comunicato pubblicamente i propri sforzi per mitigare i rischi derivanti da questo massacro. Invece, ognuna di queste piattaforme è carica di propaganda di guerra, discorsi disumanizzanti, dichiarazioni di genocidio, inviti espliciti alla violenza, discorsi di odio razzista e celebrazioni di crimini di guerra.

Meta, sul podio tra tutte le altre piattaforme nel censurare le voci palestinesi, è pienamente consapevole dell’eccessiva moderazione dei contenuti legati alla Palestina.
Ma il problema qui va oltre la semplice moderazione dei contenuti. Valutare l’illegalità di un contenuto e il modo in cui può facilitare o contribuire alla perpetrazione di crimini è solo una dimensione della comprensione del ruolo svolto dalle piattaforme nei conflitti armati, in cui le asimmetrie di potere sono pronunciate e dannose.

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Le organizzazioni umanitarie si schierano contro la vendita di armi a Israele

Speciale per Africa ExPress
-Federica Iezzi-

Più di 250 organizzazioni della società civile in tutto il mondo hanno aderito all’appello, rivolto a tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite, affinché si cessi di alimentare il trasferimento di armi al governo israeliano.

La scorsa settimana gli uffici legali di otto Organizzazioni Non Governative francesi (ASER – Action Sécurité Ethique Républicaines, Attac, FTCR – Fédération des Tunisiens pour une Citoyenneté des deux Rives, AFPS – Association France Palestine Solidarité, AMF – Association des Marocains de France, CRLDHT – Comité pour le Respect des Libertés et des Droits de l’Homme en Tunisie, Union Syndicale Solidaires, Amnesty International France) hanno rispettivamente depositato, tre procedimenti sommari, dinanzi al Tribunale amministrativo di Parigi, relativi alle autorizzazioni di esportazioni di armi dalle autorità francesi verso Israele.

I tre distinti approcci giuridici mirano a garantire il rispetto degli impegni internazionali della Francia. L’azione portata avanti mira ad ottenere la sospensione delle licenze di esportazione di materiale bellico per le categorie ML5 (attrezzature antincendio) e ML15 (equipaggiamento militare per la ripresa di immagini) con destinazione Israele.

Esiste infatti il rischio evidente che le armi esportate vengano utilizzate per commettere crimini contro la popolazione civile nella Striscia di Gaza occupata. In tal modo, la Francia viola le norme internazionali, in particolare il Trattato sul commercio delle armi (2013) e le norme comuni dell’Unione Europea per il controllo delle esportazioni di tecnologia e attrezzature militari (2008), e rischia di diventare complice di violazioni del diritto internazionale – compresi crimini di guerra.

Il Trattato sul commercio delle armi proibisce qualsiasi trasferimento di armi se lo Stato esportatore è a conoscenza, al momento dell’autorizzazione, che tali armi potrebbero essere utilizzate per commettere genocidi, crimini contro l’umanità, gravi violazioni delle Convenzioni di Ginevra, attacchi diretti contro civili o beni di natura civile e dunque protetti come tali, o altri crimini di guerra, come definito dagli accordi internazionali.

Sono già stati avviati contenziosi in Danimarca e nei Paesi Bassi. Oxfam Danimarca, Amnesty International Danimarca, Mellemfolkeligt Samvirke (ActionAid Denmark) e l’organizzazione palestinese per i diritti umani Al-Haq hanno intentato una causa alla polizia nazionale danese e al ministero degli affari esteri, per fermare le esportazioni di armi verso Israele. A febbraio, la Corte olandese ha ordinato l’interruzione della fornitura di parti di caccia F35 a Israele.

A febbraio, il Belgio ha annunciato la sospensione temporanea di due licenze di esportazione di polvere da sparo verso Israele.

In Italia, è stata solo sospesa la concessione di nuove autorizzazioni all’esportazione di armamenti. Non sono stati invece adottati provvedimenti di sospensione o revoca delle esportazioni, verso Israele, autorizzate prima dello scorso ottobre.

Spagna e Canada hanno temporaneamente e parzialmente sospeso i trasferimenti di armi verso lo stato israeliano.

Di fronte al rischio plausibile di genocidio a Gaza, denunciato dalla Corte Internazionale di Giustizia, tutti gli Stati parti della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio (1948) hanno l’obbligo di impedire e di astenersi dal contribuire alla realizzazione di atti di genocidio.

All’inizio del mese, il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha approvato una risoluzione (A/HRC/55/L.30) per cessare la vendita, il trasferimento e il dirottamento di armi, munizioni e altro equipaggiamento militare verso Israele.

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Rwanda 1994 e Gaza 2024. Il seme del razzismo germoglia e cresce ancora

Speciale per Africa ExPress
-Federica Iezzi-

Durante il secolo scorso, il flagello dei genocidi è tornato come un’epidemia. Lo sterminio dimenticato dei Moriori, delle Isole Chatham, in Nuova Zelanda, ricorda che decine di popoli, nel corso della storia, sono stati metodicamente cancellati dalle carte geografiche.

Si comincia con l’Impero Ottomano che giustiziò 1.200.000 armeni, secondo un piano ideato dalle autorità ed eseguito da migliaia di carnefici civili e militari. Questa natura sistematica lo rende un genocidio indiscutibile. Nel 1975, a Timor Est, 200.000 abitanti furono massacrati dalle forze armate indonesiane.

Nello stesso anno e fino al gennaio 1979, il regime dei Khmer rossi in Cambogia, in nome del fuoco del razzismo sociale, uccise circa due milioni di persone. Poi le orribili pulizie etniche nei Balcani. E il secolo si conclude con un crepuscolo sanguinoso, con la “stagione dei machete”, nel 1994, in Rwanda. Quasi un milione di persone uccise. Uccise mentre le grandi potenze guardavano altrove.

Si potrebbe per un momento pensare che con l’evoluzione della morale e il progresso del diritto, con l’essenza dell’habeas corpus, con la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, con le Convenzioni di Ginevra e i Protocolli Aggiuntivi, le pratiche di sterminio sarebbero cessate. E no. Non è successo.

E a Gaza oggi ritorna l’onda sterminatrice. Il conflitto tra Israele e Palestina è iniziato con una terribile ingiustizia, commessa in Palestina, per ripararne un’altra, nata nell’orrore dei campi nazisti.

Sono passati 30 anni dal genocidio in Rwanda. Il percorso di onde e frequenze di Radio Télévision Libre des Mille Collines è ancora vivo nella carne dei sopravvissuti. Come si disegna un genocidio? La radio ha avuto un potere unico, incomparabile e terrificante, perché è stata capace di penetrare, senza alcun controllo, nell’intimità profonda degli individui. 1000 colline, come la chiamavano, era una emittente “trendy”, che aveva fatto della sua libertà di tono con espressioni insidiose, un marchio di fabbrica, da diffondere.

Il linguaggio disumanizzante che fuoriesce da Israele e da alcuni dei suoi sostenitori esteri, non è nuovo. Già sentito in altri tempi e in altri luoghi, ha contribuito a creare un clima in cui hanno avuto vita crimini terribili.

Coloro che hanno guidato e portato avanti il genocidio rwandese, definivano l’omicidio come un atto di autodifesa – se non lo facciamo noi a loro, lo faranno loro a noi.
I tutsi furono degradati a “scarafaggi”. Leader politici, militari e religiosi israeliani hanno in tempi diversi descritto i palestinesi come un “cancro”, come “parassiti”, e hanno chiesto che fossero “annientati”. Generazioni di studenti israeliani sono stati imbevuti dell’idea che gli arabi siano degli intrusi e siano semplicemente tollerati grazie alla beneficenza di Israele.

In Rwanda non c’è stata alcuna mobilitazione per fermare e prevenire ciò che stava accadendo. Ci si è illusi che fosse stata lasciata l’opportunità di imparare dalle atrocità viste. Non è necessaria una laurea in Letterature e Culture Comparate per interpretare segnali e dichiarazioni, nei discorsi mediatici e politici in Israele, che richiamano un uso esplicito della retorica genocida.

Trent’anni dopo, Emmanuel Macron rompe un tabù riconoscendo che la Francia non ha fatto nulla per impedire il genocidio in Rwanda. François Mitterrand, ex presidente francese, all’epoca ha sostenuto consapevolmente il genocidio contro tutsi e hutu moderati e ha offerto rifugio sicuro agli esecutori. La spada di damocle del genocidio rwandese, sospesa sopra le teste dei banyarwanda nella Repubblica Democratica del Congo, sotto forma di minaccia, oggi è reale.

Quale lezione ha lasciato la storia? Dal processo di Norimberga del 1945 l’opinione pubblica reclama la punizione dei colpevoli. Ecco non sfuggire alla giustizia.

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‘Dov’è papà’ – un software di intelligenza artificiale con cui Israele ha sterminato intere famiglie

Speciale per Africa ExPress
-Federica Iezzi-

Secondo le dichiarazioni di sei ufficiali dell’intelligence israeliana, raccolte in un’esplosiva inchiesta dei canali di informazione di Tel Aviv +972 Magazine e Local Call (Sikha Mekomit, in ebraico), pubblicati da Just Vision, l’esercito israeliano sta utilizzando un programma avanzato di intelligenza artificiale, per guidare gli spietati bombardamenti sulla Striscia di Gaza. Si chiama Lavender.

Arrivata l’immediata smentita da parte del portavoce militare israeliano, tenente colonnello riservista Peter Lerner, scandendo che le Forze di Difesa Israeliane non hanno designato target umani con un algoritmo di intelligenza artificiale, che viene invece impiegata solo come strumento ausiliario.

‘Dov’è papà’ è uno dei software di Lavender, sviluppato dall’oscura Unità 8200 – unità militare, delle forze armate israeliane, incaricata dello spionaggio di segnali elettromagnetici ed elettronici e decrittazione di informazioni e codici cifrati.

‘Dov’è papà’ ha risolto il collo di bottiglia umano sia per l’individuazione di nuovi obiettivi, sia per il processo decisionale militare che porta a approvazione e successivo abbattimento. La crudeltà del nome spiega esattamente cosa le Forze di Difesa Israeliane intendano per ‘obiettivi’.

Formalmente, il sistema Lavender è stato progettato per contrassegnare tutti i sospetti elementi dell’ala militare di Hamas e della Jihad Islamica Palestinese – compresi quelli di basso rango – come potenziali obiettivi di bombardamento. L’esercito israeliano si è affidato quasi completamente a Lavender, che ha individuato fino a 37.000 palestinesi come sospetti militanti. E con essi le loro case. E le loro famiglie.

E’ noto che spesso il sistema contrassegna individui che hanno semplicemente un legame debole con gruppi militanti, o nessun legame. Quanto vicina deve essere una persona ad Hamas per essere considerata, da un freddo, spietato, sterile algoritmo, affiliata all’organizzazione?

Soprattutto durante le prime fasi della guerra, l’élite dell’esercito israeliano diede ampia approvazione agli ufficiali affinché adottassero le liste di uccisione di Lavender, senza alcun obbligo di esaminare e verificare i dati grezzi di intelligence su cui si basavano.

Venivano dedicati solo 20 secondi a ciascun obiettivo prima di puntare il mirino e autorizzare un bombardamento. Per l’uccisione di ogni militante di basso rango era consentito considerare come danno collaterale l’uccisione di 15-20 civili. Nel caso in cui l’obiettivo fosse un alto funzionario di Hamas, con il grado di comandante di battaglione o di brigata, ecco che veniva autorizzata l’uccisione di più di 100 civili. In questo orrore, si rientrava nella definizione di ‘danni collaterali’.

E’ altrettanto noto che l’esercito israeliano ha preso di mira sistematicamente i presunti militanti mentre si trovavano nelle proprie case – con le proprie famiglie – piuttosto che nel corso di un’attività militare. Agghiacciante è scoprire che spesso l’obiettivo individuale, il soldato del gradino più basso della gerarchia militare, non si trovava nemmeno all’interno della casa colpita, visto che gli ufficiali militari israeliani non verificavano l’informazione in tempo reale. Nel frattempo però lo sterminio della famiglia era compiuto. L’abbattimento dell’edificio, solo per causare distruzione, era compiuto.

E proprio ‘Dov’è papà’ localizza il presunto militante al rientro a casa dalla sua famiglia, dai suoi figli. Alla distruzione poi ci pensa l’assetto degli armamenti ricevuti da Israele dall’Occidente. In testa Stati Uniti, a seguire Germania e Italia, secondo i dati più recenti pubblicati dallo Stockholm International Peace Research Institute.

Cosa ci si attende da un attacco simile? Ci si attende che provochi morti e feriti fra la popolazione civile, danni ai beni di carattere civile che risultano eccessivi rispetto al vantaggio militare concreto.

Per chiudere il cerchio, si aggiunge l’utilizzo di missili non guidati, invece di bombe di precisione assistite da GPS, capaci di massacrare interi edifici senza alcuna distinzione, né proporzionalità. Ecco, siamo di fronte all’intenzionale derisione del Diritto Internazionale Umanitario.

Le Forze di Difesa Israeliane non sono affatto interessate a demolire l’ala militare di Hamas all’interno di strutture militari o mentre impegnata in un’attività militare. Al contrario, sono interessate a sterminare, senza esitazione, l’intera famiglia di ciascun membro, come prima opzione. Nessun codice morale di condotta. L’intelligenza artificiale di Lavender è stata la scappatoia giusta.

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La CIA avvisa gli alleati “Entro 48 ore l’Iran attaccherà Israele”

Speciale per Africa ExPress
-Federica Iezzi-

Diventa di giorno in giorno più reale e preoccupante l’estensione di una guerra nella regione mediorientale. Israele appare impegnato con l’Iran in uno scontro ormai aperto, in una guerra all’interno della Striscia di Gaza e in un’escalation significativa in Libano.

Il recente attacco lanciato da un F-35 israeliano sull’ambasciata iraniana a Damasco ha spalancato il capitolo.

Il bombardamento ha provocato la morte di sette membri del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica (IRGC – Islamic Revolutionary Guard Corps), tra cui il comandante della forza Quds d’élite – unità specializzata nell’intelligence militare all’estero – in Siria e Libano, il generale di brigata Mohammad Reza Zahedi, e il suo secondo uomo, il generale Mohammed Hadi Haj Rahimi, basilari figure di collegamento tra Iran e miliziani di Hezbollah.

Non tarda ad arrivare la risposta iraniana, per voce dell’intelligence americana. La CIA ha diffuso agli alleati occidentali e a Israele un avviso molto chiara: entro 48 ore l’Iran potrebbe lanciare un’operazione militare contro Israele.

Intanto, già a inizio settimana, l’esercito di occupazione israeliano ha annunciato la mobilitazione di riservisti per rafforzare le formazioni di difesa aerea, a causa dell’accresciuto stato di allerta e come parte di una strategia di maggiore prontezza di risposta ad eventuali attacchi.

“Con l’aiuto di Dio, faremo in modo che i sionisti si pentano del loro crimine di aggressione contro il consolato iraniano a Damasco”, queste le parole, ben scandite in ebraico, indirizzate a Tel Aviv, dell’Imam Sayyid Ali Khamenei, leader supremo dell’Iran.

Quello sull’ambasciata iraniana in Siria, non è il primo attacco israeliano contro l’Iran. A fine dicembre, l’esercito israeliano aveva ucciso il generale dell’IRGC, figura chiave e consigliere esperto, Sayyed Razi Mousavi, nel quartiere di Sayyida Zeinab, a sud di Damasco.

Israele concentra da anni la sua attenzione militare su obiettivi iraniani in Siria e Libano, come parte della sua strategia di “campagna tra le guerre” (MABAM – m’aracha bein ha-milchamot, nell’acronimo ebraico), per deprimere e distruggere le minacce emergenti alla sua sicurezza. L’autodifesa preventiva israeliana ha indotto Teheran a sviluppare una deterrenza offensiva per scoraggiare Gerusalemme dal colpire per prima.

Il portavoce delle Forze di Difesa Israeliane, il contrammiraglio Daniel Hagari, ha giustificato l’attacco sostenendo che l’obiettivo non era un’ambasciata, ma una sede militare delle forze Quds. Una ritorsione sotto forma di un attacco iraniano diretto a Israele è improbabile in quanto potrebbe trascinare gli Stati Uniti in una guerra regionale.

Quali sono dunque le opzioni dell’Iran?

E’ probabile che l’Iran utilizzi le sue forze per procura, insieme agli sforzi diplomatici, per isolare Israele. In questo momento di condanna internazionale per la condotta di Israele sulla Striscia di Gaza, Teheran alimenterà i timori internazionali di una guerra regionale più ampia e isolerà ulteriormente il Paese.

L’asse della resistenza guidato dalla rete di milizie filo-iraniane nella regione può essere attivato. È improbabile che reagiscano con attacchi massicci ma piuttosto con una cascata di risposte.

Per contro, la mancanza di un’azione militare diretta crea il rischio di uno smantellamento dell’asse della resistenza, da parte di Israele, con il sostegno diretto e persino con la partecipazione della prossima amministrazione statunitense. Un simile cambiamento potrebbe avere un serio impatto sulle capacità dell’Iran nella regione.

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In attesa del Kenya, ad Haiti schierati i Marines

Speciale per Africa ExPress
-Federica Iezzi-

Il Kenya ha sospeso i suoi piani di dispiegamento di polizia ad Haiti, a causa della recente e critica ondata di violenza e del cambiamento significativo nella leadership del Paese.

Nel luglio 2023, il Kenya ha accettato di guidare la missione di Sostegno alla Sicurezza Multinazionale, approvata dalle Nazioni Unite, a supporto del Paese caraibico, avvolto dalla brutalità del conflitto tra bande armate. Tuttavia, lo scorso gennaio, la massima corte del Kenya si è pronunciata contro il dispiegamento di polizia, citando la mancanza di accordi formali tra i due Paesi.

Sembrava che l’ostacolo fosse stato superato quando, all’inizio di marzo, il presidente kenyano, William Ruto, e il primo ministro haitiano, Ariel Henry, firmarono i reciproci accordi necessari. In ogni caso, a decidere se l’accordo firmato avesse soddisfatto o meno i requisiti legali, sarebbe spettato alla Corte d’appello del Kenya, in un’udienza in tribunale che non ha ancora avuto luogo.

Il dispiegamento di una forza di polizia internazionale, mira a sedare la crescente violenza delle bande armate, che si è preoccupantemente intensificata dalla fine di febbraio.

L’annuncio della dimissione di Henry, di qualche settimana fa, e la successiva costituzione di un consiglio di transizione ha complicato le cose.

Il ministro degli Esteri del Kenya, Korir Sing’Oei, ha dichiarato che le dimissioni del primo ministro hanno apportato un “cambiamento fondamentale nelle circostanze”. I politici dell’opposizione kenyana hanno ribadito lo scarso addestramento e equipaggiamento della polizia del proprio Paese, di fronte a un rapido deterioramento della situazione di sicurezza ad Haiti.

Obiettivo e condizione necessaria al dispiegamento della forza multinazionale è dunque la formazione di un governo ad interim haitiano, in modo da rendere concreto il coordinamento con le forze di sicurezza del Paese, per la conduzione verso elezioni libere ed eque.

Da anni Haiti registra un trend crescente di omicidi e rapimenti. L’iniziale obiettivo, dichiarato delle bande armate, era forzare le dimissioni del primo ministro Henry. Ora si ambisce ad un cambiamento completo del sistema politico haitiano.

In settimana, il Comando Meridionale degli Stati Uniti (SOUTHCOM) ha annunciato che la flotta di sicurezza antiterrorismo della marina statunitense (FAST – Marine Fleet-Anti-terrorism Security Team) è stata schierata nella capitale haitiana Port-au-Prince, per mettere in sicurezza l’ambasciata americana ed evacuare parte del personale.

Il dispiegamento del corpo dei Marines arriva pochi giorni dopo che gli Stati Uniti hanno accennato all’istituzione di misure politiche per arginare la crescente violenza a Haiti, in attesa di una nuova autorità costituzionale.

Gli Stati Uniti hanno molti interessi nello schieramento del Kenya a Haiti, essendo il principale finanziatore della missione e il luogo di predilezione per la migrazione da Haiti.

Il governatore della Florida, Ron DeSantis, ha già annunciato il dispiegamento di 250 ulteriori agenti di polizia e guardie nazionali al confine, nonché il dispiegamento di aerei e navi, in previsione di un aumento del flusso migratorio da Haiti. La Florida rimane un punto caldo per la migrazione dal Paese.

Il generale Laura Richardson, comandante del Comando Meridionale degli Stati Uniti, non esclude che le truppe statunitensi possano essere coinvolte in uno sforzo internazionale ad Haiti “Siamo preparati se chiamati dal nostro Dipartimento di Stato e dal Dipartimento della Difesa”.

Le preoccupazioni di Washington riguardo all’intervento diretto sono in parte dovute alla lunga storia di interferenza degli Stati Uniti nella politica haitiana, inclusa l’occupazione americana decennale nei primi anni del 1900 e la presunta interferenza americana nelle recenti elezioni haitiane. La fascia politica haitiana vede gli Stati Uniti come parzialmente responsabili dell’attuale crisi, a causa del sostegno americano a Henry, e ad altri leader haitiani, che hanno represso le proteste e guidato il Paese verso un governo autoritario.

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Sudafrica. Arresto per i militari con doppia cittadinanza che si uniscono a Israele

Speciale per Africa ExPress
-Federica Iezzi-

Il messaggio del Sudafrica è stato inequivocabile: coloro che hanno la doppia cittadinanza sudafricana-israeliana e che attualmente combattono nelle Forze di Difesa Israeliane, contro la Palestina, saranno perseguiti e arrestati e avranno l’immediata revoca della cittadinanza sudafricana.

A scandirlo a chiare lettere è stata Naledi Pandor, ministro delle relazioni internazionali e della cooperazione in Sudafrica, dal 2019, e membro del Parlamento per l’African National Congress, dal 1994, in uno dei meeting del partito politico a Pretoria [https://www.youtube.com/watch?v=87fyilgnwng].

Continua ad approfondirsi dunque la spaccatura tra le due nazioni, iniziata con il procedimento avviato dal Sudafrica contro lo Stato di Israele, presso la Corte Internazionale di Giustizia, per atti di genocidio contro i palestinesi della Striscia di Gaza, e proseguita con la completa sospensione dei rapporti diplomatici bilaterali.

Già lo scorso dicembre, il ministero degli Esteri sudafricano aveva avvertito i suoi cittadini, residenti permanenti in Israele, che se, senza permesso di Pretoria, si fossero uniti all’esercito israeliano per combattere sulla Striscia di Gaza o nei Territori Palestinesi Occupati, avrebbero potuto essere perseguiti. Lo stretto monitoraggio di questi cittadini, da parte delle autorità sudafricane, si motiva nel fatto che l’arruolamento nelle Forze di Difesa Israeliane può potenzialmente contribuire alla violazione del Diritto Internazionale Umanitario e alla commissione di ulteriori crimini di guerra, rendendoli quindi esplicitamente perseguibili in Sudafrica.

La legge sulla cittadinanza sudafricana (Act 88/1995) prevede che chiunque la abbia ottenuta per naturalizzazione, se dovesse esercitare la propria attività sotto la bandiera di un altro Paese in una guerra che il Sudafrica non sostiene, gli verrà revocata la nazionalità.

E’ evidente che la storia tra Sudafrica e Palestina non inizia lo scorso 7 ottobre. Per anni il governo sudafricano ha paragonato le politiche di Israele, contro i palestinesi a Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, al trattamento riservato ai non-bianchi in Sudafrica, durante l’era dell’apartheid, quando erano in vigore segregazione razziale forzata e oppressione.

Ma a quando risale il legame di Pretoria con il popolo palestinese? Il Sudafrica aveva espresso solidarietà alla Palestina già negli anni ’50 e ’60, così come avevano scelto molte nazioni africane, colonie europee fino all’inizio degli anni ’60. L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina ha collaborato con numerosi movimenti rivoluzionari africani, nel sostegno reciproco alla lotta anticoloniale.

La narrativa palestinese, con repressione, crudeltà, brutalità della polizia israeliana, restrizioni ai movimenti, arresti, detenzioni arbitrarie, coloni illegali, evoca esperienze della storia di discriminazione e oppressione del Sudafrica.

Il regime di apartheid in Sudafrica, guidato dal Partito Nazionale, aveva uno stretto rapporto con Tel Aviv. Negli anni ’70, il governo israeliano, guidato dal primo ministro Yitzhak Rabin, strinse forti legami con il regime nazionalista di estrema destra sudafricano. L’allora ministro della difesa israeliano, Shimon Peres, ha avuto un ruolo determinante nella creazione di un’alleanza che ha contribuito a mantenere a galla l’apartheid.

Vale fortemente la pena ricordare che alla lotta del Sudafrica contro l’apartheid, hanno attivamente partecipato migliaia di ebrei, sopravvissuti all’olocausto o discendenti delle vittime dell’olocausto.

La voce di Cyril Ramaphosa, presidente sudafricano, sigilla in Parlamento il sostegno alla lotta del popolo palestinese “Non è semplicemente un prodotto della storia. È un rifiuto di accettare che a un popolo venga continuamente negato il diritto all’autodeterminazione, in violazione del diritto internazionale”.

E il popolo sudafricano risponde attivamente con decine di movimenti internazionali per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni, che mirano ad aumentare la pressione economica e politica su Israele, con l’obiettivo di porre fine all’occupazione della Palestina.

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Haiti nel caos e la forza di polizia del Kenya bloccata da cavilli non arriva

Speciale per Africa ExPress
-Federica Iezzi-

Firmato a inizio mese un accordo tra Kenya e Haiti per l’invio di agenti di polizia kenyani sull’isola caraibica ormai in mano alla violenza delle bande armate interne.

Di fronte alle richieste sempre più pressanti del governo haitiano e delle Nazioni Unite, nel luglio 2023, il Kenya ha accettato di guidare una missione di Sostegno alla Sicurezza Multinazionale (MSS – Multinational Security Support), composta da 2.500 agenti, a partire dal primo trimestre del 2024. Offerta accolta favorevolmente dagli Stati Uniti e da altri Paesi che avevano escluso l’invio di proprie forze sul campo.

Il capo di stato kenyano, William Ruto, e il primo ministro haitiano, Ariel Henry, appena dimissionario, avevano discusso i passi per consentire l’accelerazione della missione, in un incontro a Nairobi. Ma la firma del documento non legalizza il dispiegamento della polizia kenyana.

Infatti, non è ancora chiaro se questo accordo sia contrario alla decisione di un tribunale kenyano che aveva dichiarato illegale l’invio di agenti di polizia a Haiti. Causa portata avanti dal politico e avvocato dell’opposizione Ekuru Aukot. Il parlamento aveva convalidato il dispiegamento delle forze di polizia, prima che fosse bloccato, alla fine dello scorso gennaio, con un’ingiunzione provvisoria da parte di un tribunale di Nairobi.

Dunque l’invio di truppe a Haiti era stato congelato dopo che l’Alta Corte aveva stabilito che Nairobi non avrebbe potuto schierarsi in assenza di uno strumento bilaterale. Il caso ora spetta alla Corte d’Appello che potrà o meno revocare la decisione dell’Alta Corte. Di fronte alle critiche, Ruto aveva descritto l’impresa kenyana in linea con la sua lunga esperienza di contributo alle missioni di mantenimento della pace all’estero.

Alla fine dello scorso febbraio cinque Paesi, tra cui il Benin, che si è impegnato a inviare 1.500 uomini, hanno notificato alle Nazioni Unite la loro partecipazione alla missione. Altri Stati che hanno confermato la volontà di partecipare a MSS sono Bahamas, Bangladesh, Barbados e Chad – ha dichiarato il portavoce del segretario generale dell’ONU, Stéphane Dujarric.

Intanto Aukot ha annunciato che presenterà una causa per oltraggio alla Corte, per la decisione incostituzionale dell’invio di truppe kenyane a Haiti.

Il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha insistito sull’importanza di raggiungere una soluzione politica ad Haiti. L’obiettivo è quello di ripristinare un sistema di sicurezza che possa porre fine al dominio delle bande armate e alla crescente criminalità che sta distruggendo il Paese.

Dal 2016 a Haiti non si tengono elezioni e la presidenza resta vacante. Un collegio presidenziale indipendente transitorio a larga base, con la nomina di un premier ad interim, avrà potere fino al voto. E’ quanto appena discusso a Kingston, in Giamaica, in una riunione d’emergenza con oggetto Haiti, convocata dalla conferenza dei capi di governo della Comunità dei Caraibi (CARICOM – Caribbean Community and Common Market), a cui ha presieduto il segretario di Stato americano Antony J. Blinken.

Gli scontri a fuoco tra bande criminali nella capitale haitiana sono continui e pesanti. Le stesse gang hanno preso il controllo di intere zone del Paese. Dichiarato lo stato di emergenza e ripristinato il coprifuoco.

A Port-au-Prince le bande hanno eretto barricate per impedire alle forze di sicurezza di invadere il loro territorio, mentre le loro roccaforti nelle vaste baraccopoli della città sono ancora in gran parte bloccate. Scuole e attività commerciali sono chiuse. Almeno 15.000 persone sono state costrette a lasciare le proprie abitazioni.

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