REPORTAGE – AFRICA.Da Khartoum al Darfur è crisi sanitaria. Nella capitale le RSF si prendono 12 cliniche e i loro medici. A rischio parti e dialisi
Federica Iezzi, KHARTOUM
Secondo i dati del Preliminary Committee of Sudan Doctors’ Trade Union, dei 130 ospedali pubblici e privati della capitale sudanese, solo il 16% è parzialmente funzionante e con una capacità molto limitata.
La mancanza di energia per le attrezzature salvavita, i danni alle infrastrutture, la disperata carenza di forniture, acqua e personale sanitario, disegnano il quadro comune del settore sanitario attuale a Khartoum, a un mese dall’inizio dello scontro militare tra le Forze di supporto rapido (RSF) e l’esercito regolare guidato dal generale al-Burhan, capo di stato de facto del Sudan.
NONOSTANTE le condizioni strazianti, gli operatori sanitari sudanesi continuano a lavorare gratuitamente negli ospedali rimasti aperti e nei cosiddetti Resistance Committees, gruppi di medici e infermieri che cercano di compensare la carenza di assistenza sanitaria fornendo il primo soccorso nei quartieri martoriati.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha verificato 28 attacchi deliberati a strutture sanitarie, tra cui il centralissimo Baraha Medical City, a Khartoum north. Il Jaafar Ibnouf Children’s Hospital, uno dei maggiori ospedali pediatrici della città, è stato costretto alla chiusura temporanea.
Sono 19 invece gli ospedali evacuati con la forza. Le tipologie di attacchi comprendono saccheggi, ostruzione all’accesso e all’assistenza sanitaria, attacchi violenti con armi e occupazione forzata delle strutture.
Numerosi gli appelli alla comunità internazionale per istituire un meccanismo investigativo di monitoraggio, raccolta e denuncia delle violazioni al diritto internazionale umanitario.
Secondo il rapporto del Sudan Doctors’ Trade Union, i paramilitari delle Rsf hanno evacuato interi edifici del Khartoum Teaching Hospital, del Fedail Hospital, clinica privata nel distretto di Al Khartoum Basr, e dell’East Nile Hospital, usandoli come basi e ospedali militari. Il ministero della salute conferma l’occupazione da parte delle Rsf di 12 ospedali della capitale.
NAZEER, ricercatrice all’Università di Khartoum, ci racconta: «Lo staff medico è stato trattenuto all’interno degli ospedali. Sono stati arruolati nelle fila del personale sanitario militare».
Secondo la Sudan’s Union of Pharmacists, i combattenti delle Forze di supporto rapido hanno occupato anche il Medical Supplies Center, maggior punto di raccolta di materiale sanitario a Khartoum, interrompendo la catena di fornitura di farmaci salvavita, come l’insulina.
Al Kassala Teaching Hospital, ospedale pubblico nella capitale dello stato di Kassala, è parzialmente funzionante una sala operatoria e mancano completamente le cure critiche. E nell’ospedale di Atbara, nel River Nile State, a nord-est del Paese, mancano materiale ostetrico, attrezzature per trasfusioni, anestetici e farmaci di urgenza. Entrambi gli ospedali stanno fronteggiando il crescente afflusso di sfollati interni.
Ad Al Fasher, nel nord del Darfur, solo due ospedali sono in funzione e alcuni centri sanitari sono stati riaperti in seguito all’ultimo cessate il fuoco. Mentre ad Al Geneina, capitale del West Darfur tutti gli ospedali e i centri sanitari sono fermi.
Per le donne in gravidanza rimane critico l’accesso alle cure mediche e ai controlli. Grave rischio dunque per le emergenze ostetriche: già prima del conflitto il Sudan aveva un tasso di mortalità materno di 295 decessi ogni 100mila nati vivi, secondo i dati delle Nazioni unite.
LE MALATTIE croniche, che prima del conflitto erano trattate regolarmente, ora mettono ogni giorno a rischio di vita centinaia di civili. La situazione nei centri di dialisi renale a Khartoum sta diventando seriamente preoccupante, secondo il Sudan Doctors’ Trade Union.
Tutti i centri, che prima del conflitto gestivano 140mila sessioni di dialisi al mese, stanno esaurendo le scorte: ben presto i pazienti si vedranno costretti ad affrontare le temibili complicanze dell’insufficienza renale.
REPORTAGE. Nel Sudan martoriato dai combattimenti. Mentre a Gedda si tratta per un cessate il fuoco umanitario, dalla capitale si cerca di fuggire con ogni mezzo e a qualunque costo. Sull’unica strada che oggi porta alla stazione di Sherwani prima c’erano i venditori di tè con le loro grosse teiere e le ciotole di incenso. Adesso c’è solo un odore di morte. E anche partire significa dover pregare per la propria vita
Federica Iezzi, KHARTOUM
Gli occhi delle persone che fuggono dalla guerra raccontano tutti la stessa cosa: «Non c’è tempo per piangere né per pensare a un piano». E mentre a Gedda proseguono i colloqui tra membri delle Forze armate sudanesi (SAF) e membri delle Forze di supporto rapido (RSF), a Khartoum i civili sono ancora incapaci di uscire di casa perché hanno paura di essere uccisi sotto gli occhi dei propri bambini. I rumori dei colpi di arma da fuoco e degli aerei da guerra che volano sopra le case, tormentano i giorni e le notti. Senza elettricità, acqua potabile, cibo e cure mediche le giornate si sovrappongono tutte uguali, tutte diverse.
QUARTIERI COMPLETAMENTE devastati disegnano la città dove si incontrano il Nilo Azzurro e il Nilo Bianco. Da qui i civili possono entrare o uscire solo attraverso strade secondarie e vicoli. Le aree intorno al palazzo presidenziale sono circondate da veicoli blindati da un lato e depositi di armi dall’altro, e a pochi chilometri di distanza ci sono la sede centrale e i depositi di materiale bellico pesante dell’esercito.
«Sono uscita di casa senza più cibo né acqua», ci racconta Manar. Ha preso un autobus alla stazione di Sherwani. «C’è sempre stata carenza di veicoli qui. Adesso ancora di più». Prima dell’inizio del conflitto, fin dalle prime ore del mattino, su El Qasr Avenue South, oggi l’unica strada percorribile che porta alla stazione di Sherwani, non mancavano i venditori di tè, i settat-chai con le loro stufe in alluminio, le loro grosse teiere e le ciotole di incenso. Adesso nelle strade c’è solo un odore di morte.
A Sherwani, prima della guerra, partiva ogni giorno un autobus per Wad Madani e Manar dopo giorni di attesa ai margini della stazione, tra caldo, fame, paura, notti insonni e punture di zanzara, è riuscita ad avere un biglietto. Nessun autobus parte se non è completamente pieno. 202 chilometri al prezzo di 240 dollari, prima del conflitto il biglietto costava solo poche sterline sudanesi. «Tutto il denaro è congelato nelle banche e non c’è alcuna possibilità di ritirarlo», ci dice.
UN GALLONE DI BENZINA è arrivato a 25mila sterline sudanesi (circa 40 dollari) sul mercato nero, ci racconta un autista di autobus a Sherwani. Il prezzo è più alto di otto volte rispetto all’inizio della guerra. L’aumento impazzito dei prezzi del carburante e l’esodo di residenti disperati hanno costretto le compagnie a un aumento dei prezzi dei biglietti degli autobus, in un Paese che già partiva con un’inflazione a tre cifre e un tasso di povertà del 65%.
Uscire da Khartoum significa attraversare almeno 20 posti di blocco di entrambe le fazioni. I confini non sono netti, così come il controllo delle aree della città. E fermarsi in una stazione di servizio per fare rifornimento significa dover pregare per la propria vita.
Ma tutti a Khartoum sapevano che, nel momento in cui i cittadini stranieri sarebbero stati evacuati, i combattimenti sarebbero aumentati. Quindi la fuga degli uni era per gli altri la piccola porta per poter uscire dalla capitale. Le Nazioni Unite hanno stimato il movimento di almeno 334.000 sfollati interni. E quattordici dei 18 stati del Sudan sono già stati interessati dallo sfollamento. La maggior parte dei civili in fuga si è riversata nelle città di Wad Madani e El Manaqil, nello stato di Al Jazirah, a est di Khartoum, ospitati in edifici pubblici, scuole, moschee e mercati coperti.
GLI SCONTRI QUI sono meno duri che nella capitale, ma il suono della guerra accompagna l’intero viaggio. Le strade polverose portano le cicatrici dei bombardamenti, sotto il sole cocente e i 42°C di temperatura. Resti di ordigni, mezzi bruciati e posti di blocco abbandonati fanno da contorno.
Il viaggio di molti civili da Wad Madani continua verso l’Egitto. La prima tappa è Port Sudan, tramite autobus o camion. La parte orientale del Sudan è montuosa, spesso impervia. Da Port Sudan, la via è quella verso Argeen, cittadina di confine, appena visibile su Google Maps. Lì, dopo più di 2mila chilometri e due giorni di viaggio, si pagano 200 sterline sudanesi (30 centesimi di dollaro) a persona per avere il timbro di uscita sul passaporto. Il visto di ingresso in Egitto invece costa 140 sterline sudanesi (circa 4 dollari).
SECONDO LE ULTIME STIME ONU il numero di rifugiati sudanesi potrebbe sfiorare gli 860.000 nei prossimi mesi. Ciad, Sud Sudan, Egitto, Etiopia e Repubblica Centrafricana, sono i Paesi maggiormente coinvolti. Ogni storia dipinge un quadro cupo di come il conflitto possa distruggere istantaneamente la vita. «Ho perso la mia casa, la mia famiglia e il mio Paese. Ho messo tutta la mia vita in uno zaino». È così che gli occhi di Manar ci lasciano.
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REPORTAGE – LA GUERRA DEI GENERALI. Terza settimana di duri combattimenti tra esercito e paramilitari, con i civili chiusi in casa, privi di accesso a cibo e acqua potabile. Chi può fugge con ‘un biglietto per ovunque’, ma per i profughi è una penosa odissea verso i Paesi confinanti. Reportage da Khartoum, dove si concentrano gli scontri armati più feroci. Una partita senza misericordia
Federica Iezzi, KHARTOUM
Entrare a Khartoum è come entrare in un incubo a occhi aperti. Gambe di piombo e polmoni che bruciano, in questo pezzo di terra dimenticato da Dio, in cui le famiglie sopravvivono con poco più di 3 dollari al giorno e le persiane di colori spaiati fanno vivere le strade di polvere.
LA MORTE SEGUE CHIUNQUE passo passo. Ogni sparo, ogni esplosione, ti riporta alla realtà. Giorno e notte, senza tregua. I corpi straziati e la facilità con cui le persone scivolano nella morte chiudono una partita senza misericordia. Il resto non esiste, il resto non conta, il resto non c’è.
Si è aperta la terza settimana di feroci combattimenti tra l’esercito sudanese (Sudanese Armed Forces, SAF) guidato dal generale Abdel Fattah al-Burhan, leader de facto del Paese e il gruppo paramilitare Rapid Support Forces, comandato dall’ex generale Mohamed Hamdan Dagalo, detto “Hemeti”. Insieme, presero il potere con un colpo di stato nel 2021, ribaltando una fragile transizione al governo civile che era stata avviata dopo l’allontanamento, nel 2019, del sovrano Omar al-Bashir. Le tensioni sono sorte durante i negoziati per integrare le Rapid Support Forces nell’esercito governativo come parte del piano di ripristino del governo civile. Dunque, quale sarebbe stata la nuova gerarchia?
Attualmente i combattimenti sono concentrati nella capitale, Khartoum, ma si registrano scontri in tutto il Paese, incluse le città settentrionali di Merowe e Port Sudan, le città orientali di Kassala, Gadarif, Kosti e Damazin, le città del Darfur di El Fasher, Kabkabiya e Nyala.
IL BILANCIO DELLE VITTIME, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha tragicamente superato le 500 persone, tra cui 190 bambini, insieme a almeno 4.600 feriti e 330.000 sfollati interni riversati nelle aree di Wad Madani, Gadarif, Kassala e Port Sudan.
I bombardamenti in strada consumano il centro di Khartoum, nonostante la tregua sia stata ufficialmente prorogata di una settimana. Scontri armati particolarmente intensi continuano nelle aree intorno alle principali infrastrutture governative e militari nel centro della città. Duri gli scontri anche nelle zone commerciali settentrionali di Omdurman e Al-Khartoum Bahri.
Il Paese è entrato in uno stato di terrore permanente, gli attacchi aerei e gli scontri a fuoco colpiscono interi quartieri residenziali. Nella periferia sud di Khartoum manca l’elettricità da quattro giorni.
LA VIOLENZA NON RISPARMIA l’assistenza sanitaria che è a rischio di collasso a causa di una grave carenza di forniture mediche, acqua, carburante e elettricità. Il 60% delle strutture ospedaliere di Khartoum sono chiuse. La pressione sugli ospedali ancora parzialmente funzionanti è intensa. E la chiusura delle frontiere impedisce la consegna di forniture sanitarie. Oltre alla mancanza di accesso all’assistenza di emergenza, le malattie croniche diventano incurabili. E si apre anche lo scenario delle temibili epidemie di colera e febbre dengue.
Il deterioramento della situazione in Sudan arriva in un momento in cui circa 15,8 milioni di persone nel Paese – un terzo della popolazione – dipendono da aiuti umanitari. Era già evidente una grave carenza di personale medico – quattro medici ogni 10mila civili – e grandi differenze tra i servizi disponibili per gli abitanti delle città e i residenti nelle aree rurali.
Mentre il fumo nero dei bombardamenti sale sulla capitale, la maggior parte dei civili resta intrappolata nelle proprie abitazioni senza accesso a cibo, acqua potabile, medicine o carburante. Solo in pochi quartieri, quelli situati nella periferia nord della capitale, è rimasto aperto qualche mercato.
A MEZZOGIORNO, l’ora in cui l’intensità dei combattimenti sembra ridursi un po’, lunghe file per comprare il pane appaiono e scompaiono come fantasmi. E sembra un momento di pace e normalità in un mondo impazzito. Molti prodotti, come latte, uova, frutta e verdura, sono scomparsi dagli scaffali da settimane.
I combattimenti hanno spinto migliaia di civili a fuggire nei Paesi vicini, Repubblica Centrafricana, Ciad, Egitto, Etiopia, Libia e Sud Sudan, spesso tra comunità già vulnerabili. Finora i movimenti transfrontalieri più significativi sono stati verso Ciad e Sud Sudan. Almeno 52mila civili sudanesi sono entrati in Egitto dall’inizio del conflitto, 42mila in Ciad e 14mila in Sud Sudan, secondo i dati dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati.
I VIAGGI SONO DISORDINATI e molto costosi. I biglietti degli autobus costano più di cinque volte rispetto al periodo precedente al conflitto. La gente compra ‘un biglietto per ovunque’. E nei posti di blocco i controlli sono irruenti e violenti. Membri armati appartenenti a entrambe le fazioni in lotta salgono sugli autobus e controllano ogni passeggero, bambini compresi.
La situazione ai valichi di frontiera rimane caotica. Decine di autobus che viaggiano in convogli di notte, tra veicoli bruciati e strade martoriate, rimangono bloccati per giorni. L’UNHCR esorta i Paesi confinanti con il Sudan di consentire un accesso «non discriminatorio» ai loro territori.
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Aprile 2023 – Gli scontri in Sudan sono scoppiati a metà aprile dopo settimane di tensione tra l’esercito sudanese, Sudanese Armed Forces (SAF), e il gruppo paramilitare, Rapid Support Forces (RSF). Insieme, presero il potere con un colpo di stato nel 2021. Le tensioni sono sorte durante i negoziati per integrare l’RSF nell’esercito governativo come parte del piano di ripristino del governo civile. Dunque, quale sarebbe stata la nuova gerarchia? Le forze armate sudanesi sono guidate dal generale Abdel Fattah al-Burhan, governatore de facto del Paese, mentre i paramilitari delle RSF seguono l’ex generale Mohamed Hamdan Dagalo. Nell’ottobre 2021, al-Burhan e Dagalo orchestrarono un colpo di stato, ribaltando una fragile transizione al governo civile che era stata avviata dopo l’allontanamento, nel 2019, del sovrano Omar al-Bashir.
Attualmente i combattimenti sono concentrati nella capitale, Khartoum, ma si registrano scontri in tutto il Paese, incluse le città settentrionali di Merowe e Port Sudan, le città orientali di Kassala, Gadarif, Kosti e Damazin, le città del Darfur di El Fasher, Kabkabiya e Nyala.
Amid continuing intense fighting across parts of #Sudan, our teams are still treating people where we're able to work. Find out how and where, and how we plan to scale up our medical response 👇https://t.co/JAckAzfhKw
Maggio 2023 – La violenza in Sudan continua a colpire l’assistenza sanitaria. I combattimenti hanno preso di mira i centri sanitari, il 60% delle strutture ospedaliere di Khartoum sono chiuse. Servizio sanitario a rischio di collasso a causa di una grave carenza di forniture mediche, acqua, carburante e elettricità.
Secondo i dati del Preliminary Committee of Sudan Doctors’ Trade Union, dei 130 ospedali pubblici e privati della capitale sudanese, solo il 16% è parzialmente funzionante e con una capacità molto limitata.
Il deterioramento della situazione in Sudan arriva in un momento in cui circa 15,8 milioni di persone nel Paese – un terzo della popolazione – dipendono da aiuti umanitari.
Decine di migliaia di civili sono fuggiti per cercare sicurezza in Repubblica Centrafricana, Chad, Egitto, Etiopia, Libia e Sud Sudan, spesso tra comunità già vulnerabili.
As the conflict in Sudan intensifies, US National intelligence chief Avril Haines says the fighting will likely be “protracted” as neither side has an incentive to seek peace ⤵️ pic.twitter.com/hrYZ13Ys8z
MSF Emergency Surgical Team at Bashair Teaching Hospital, South Khartoum, #Sudan.
We’re now running 24/7 operations. We have our operating theatre, post-operative care, and we’ve built up an intensive care unit. And we’re hoping, day-by-day, to increase the quality of care. pic.twitter.com/iqt8X8U25p
After 6 weeks of the conflict in Sudan: ▶️Fighting has continued despite the ceasefire agreement. ▶️Increased gender-based violence. ▶️Humanitarian partners have worked intensively to move relief supplies but faced insecurity and transportation challenges.https://t.co/xguF4dTHj6pic.twitter.com/2ZNT71hAmQ
REPORTAGE – DI CATASTROFE IN CATASTROFE. Un Paese tra i più poveri e densamente popolati al mondo. Dove fame e malattie sono solo uno dei tanti modi per morire e l’escalation violenta delle gang che tiene in ostaggio la popolazione diventa anche un problema di salute pubblica per l’impatto rovinoso che ha sull’accesso alle cure. Unitamente a corruzione, instabilità politica, governi falliti e disastri naturali. Prima e dopo l’assassinio del presidente Jovenel Moïse. Unica salvezza, lo spirito del kombit creolo
Federica Iezzi, PORT-AU-PRINCE
Il traffico di Port-au-Prince è maledettamente disorganizzato come quello delle grandi città dei Paesi più poveri e dimenticati da Dio. Ma allo scattare della sirena di un mezzo di soccorso che taglia l’aria, l’ingorgo diventa improvvisamente mansueto. E tutti, in strada, piccoli e grandi, aiutano per permettere al mezzo di passare in spazi improbabili.
FRASI E SIMBOLI della religione cattolica sono impressi a fuoco sulle carrozzerie delle macchine, delle autocisterne di carburante, sui muri e sugli ingressi dei piccoli negozi.Per la carenza di carburante, affiora cronicamente in città il pericoloso spettro dell’arresto dei taxi comuni. Ormai unico mezzo che permette alla maggior parte della popolazione di spostarsi per lavorare, per andare a scuola o per raggiungere un ospedale. Di ogni forma e dai colori più sgargianti, sfrecciano nella polvere delle strade brecciate, con a bordo le più variegate coorti di persone. Dalle studentesse adolescenti in uniforme e con le mollettine bianche a fermare le treccine, alla donna incinta che deve correre in ospedale, ai ragazzi che cercano senza fortuna un lavoro. Conservano sempre la stessa espressione, senza mostrare alcun turbamento. Uno stato di urgenza quasi permanente nel quale vive il Paese. Inutile crudeltà della storia che molti hanno combattuto, ma molti altri hanno solo subito.
Anche prima dell’assassinio del presidente Jovenel Moïse, la violenza, in gran parte perpetrata da gruppi criminali finanziati da potenti élite di imprenditori e politici, l’insicurezza, la corruzione straripante e l’impunità giudiziaria avevano marchiato la vita sociale e l’economia di un Paese in cui la sopravvivenza di più della metà della popolazione è legata a meno di 2 dollari al giorno.
Il vuoto di potere del Paese si trasforma in una lotta modellata da: pretendenti al governo, passioni delle fazioni rivali, bande di strada e una crisi costituzionale in corso. E le stesse debolezze istituzionali incoraggiano un comportamento non democratico.
LA VIOLENZA È DIVENTATA un problema di salute pubblica ad Haiti per migliaia di persone che vivono in aree controllate o influenzate dalle gang, con un impatto rovinoso sull’accesso alle cure mediche. Le gang fanno parte del panorama politico haitiano da decenni, spesso schierate dai leader per raccogliere sostegno o reprimere l’opposizione.
L’escalation della violenza delle bande armate ha causato lo sfollamento interno di centinaia di famiglie che oggi sono costrette a vivere in condizioni di estrema vulnerabilità, principalmente nell’area metropolitana di Port-au-Prince, storicamente segnata dalle disuguaglianze economiche e sociali causate dalla globalizzazione.
La difficoltà delle persone che vivono nei quartieri della capitale assediati di Cité Soleil, Carrefour, Croix-des-Bouquets, a soddisfare i propri bisogni vitali, è direttamente influenzata dalla privazione dei servizi di base, come salute, acqua, cibo, riparo. La fame e le malattie sono solo un altro modo di morire che si aggiunge a quelli che già travolgono la gente ogni giorno.
CON GLI ULTIMI SCONTRI ARMATI che stanno devastando la città, si teme che la vasta area di Croix-des-Bouquets, che collega la capitale all’altopiano centrale e al confine con la vicina Repubblica Dominicana, possa diventare la prossima terra di nessuno di Haiti dopo Martissant, il quartiere sud totalmente sotto il controllo di gang. Se Croix-des-Bouquets cadesse completamente nelle mani delle bande armate, lascerebbe Port-au-Prince con un solo accesso, quello settentrionale.
Strade bloccate, mancanza di trasporti, mancanza di soldi per pagare le spese sanitarie: rimangono queste le sfide maggiori per l’accesso alle cure. E per chi le vince, a causa delle zone sempre più ampie in mano alle gang, per raggiungere alcuni quartieri di Port-au-Prince si è costretti a circumnavigare la città. La mostruosità che cambia la vita.
Gli indicatori sanitari e sociali riflettono l’instabilità politica e la profonda crisi economica subita dal Paese. Con una popolazione di oltre 9 milioni di abitanti, di cui l’80% vive al di sotto della soglia di povertà, Haiti è uno dei Paesi più densamente popolati e più poveri dell’emisfero occidentale.
L’ALTO TASSO DI MORTALITÀ è il risultato della diffusa povertà, delle scarse infrastrutture sanitarie e della mancanza di assistenza sanitaria accessibile. Nel 2022, almeno 4,9 milioni di haitiani avranno bisogno di assistenza umanitaria. L’agitazione politica, le tensioni sociali, il diffuso senso di insicurezza hanno contribuito a ridurre la capacità delle famiglie di soddisfare i propri bisogni e di accedere ai servizi essenziali.
L’istantanea di Haiti come stato in perenne bisogno è un correttivo all’idea di stato fallito. Non si tratta solo di aiuti in sé, ma di interferenze e interventi stranieri, in un continuo barcollare di catastrofe in catastrofe, tra golpe, governi falliti e disastri naturali. I governi recenti sono stati in gran parte lontani dalla condizione di povertà degli haitiani, nominati all’interno della stessa casta ristretta di oligarchi, politicamente collegati alle potenze straniere, che hanno perseguito la stabilità a breve termine rispetto alla sostenibilità a lungo termine.
«On l’a dans les yeux, la peau, les mains» (Ce l’abbiamo negli occhi, nella pelle, nelle mani). Cosi Jacques Roumain portava il mondo dentro le case di Haiti. Oggi si vendono caricabatterie per telefoni a ogni angolo di Port-au-Prince. E per rafforzare il concetto che trattasi di oggetto sacro, la gente i caricabatterie li porta al collo come fossero un ciondolo.
LA RESILIENZA, LA RESISTENZA, l’aiuto tra vicini, amici e parenti che si riassumono nel concetto del kombit creolo, fanno annegare gli occhi in una disperazione che ha i suoi traffici. La vita della strada, fatta di odori e puzze, di voci e grida, sotto il sole che cuoce la pelle. E d’improvviso le strade deserte si animano e compare l’immagine di una bambina, con un vestitino intero e infradito colorate, che si lava i piedi sotto le perdite d’acqua di un’autocisterna delle Nazioni Unite. Si può leggere tutta la sua purezza d’animo. Qui si diventa grandi anche da piccoli.
Port-au-Prince, Haiti – Shelaiska è arrivata da Cité Soleil, uno dei quartieri più problematici della capitale haitiana Port-au-Prince. Occhi neri in cui si può leggere tutta la paura di una bambina di 7 anni che si sveglia in ospedale, dopo essere stata ferita in una sparatoria tra gruppi armati. Siamo al centro traumatologico d’urgenza e per grandi ustionati di Tabarre che Medici Senza Frontiere, presente nel Paese da piu di trent’anni, gestisce nella capitale. È qui che Shelaiska è stata portata di corsa con mezzi di fortuna, in fin di vita.
Tornava a casa da scuola con il suo papà, quando la raffica di proiettili le ha colpito entrambe le gambe. Ed è proprio in quella frazione di secondo, che il mondo di tutte le persone vicine a Shelaiska è cambiato. Non si gioca per strada a Cité Soleil, non si va a trovare amici, non si passeggia. Si esce solo per motivi essenziali, per andare a lavorare, a scuola o all’ospedale. Prendendo grandi rischi e decidendo anche per i bambini. Non ti salva nemmeno il coprifuoco.
I rischi sono molteplici. Oltre al pericolo delle pallottole vaganti, c’è per esempio anche quello del fuoco: un gioco pericoloso usato dai membri di questi gruppi armati, per lo più giovani sbandati, per mandare messaggi intimidatori e punire in modo indiscriminato uomini, donne e bambini. I danni sono spesso irreparabili, molti soccombono alle ustioni. Il reinserimento nella società di un grande ustionato è estremamente difficile.
La violenza è diventata un problema di salute pubblica ad Haiti per migliaia di persone che vivono in aree della capitale soggette al controllo o alla violenza dalle gang, con un impatto rovinoso sull’accesso alle cure mediche. La violenza viene a gravare ulteriormente sugli abitanti dei quartieri della capitale assediati di Martissant, Cité Soleil, Carrefour, Croix-des-Bouquets, che faticano già a far fronte ai loro propri bisogni vitali: in molti non hanno accesso all’acqua, alla salute, al cibo, ai ricoveri.
Dopo decenni di instabilità politica, violenza e povertà persistente, oggi, la prima repubblica nera e indipendente della storia moderna, è nota piuttosto come un Paese in crisi che non come una nazione dal ricco passato politico e culturale. Haiti è uno dei Paesi più densamente popolati e più poveri dell’emisfero occidentale.
L’accesso al sistema sanitario, già molto fragile, è reso piu complicato dai numerosi scioperi che colpiscono il settore. L’assistenza sanitaria privata è fuori portata della maggioranza che fatica persino a pagarsi il trasporto per recarsi in una struttura medica. A questa situazione vengono ad aggiungersi le barriere create dall’insicurezza e dai cicli di violenza: interi quartieri isolati da scontri a fuoco e barricate che impediscono la circolazione di veicoli e ambulanze. La violenza si espande a zone sempre più ampie della capitale e costringe la gente a fare lunghe circumnavigazioni per raggiungere alcuni quartieri di Port-au-Prince.
Gli scontri ricorrenti tra bande armate spingono centinaia di persone a fuggire. Alcune si rifugiano presso famiglie di accoglienza finché la violenza non cessa, ma tante altre non tornano indietro. Se hanno i mezzi finanziari si troveranno un alloggio alternativo altrove, altrimenti finiranno in campi per sfollati dove vivranno in condizioni di estrema vulnerabilità. Tutti sognano di lasciare il Paese.
Questa stessa violenza oggi avrebbe potuto rubare la vita a Shelaiska che viene trasportata di corsa in sala operatoria per guadagnare quel tempo che non c’è. Gli occhi smarriti del padre, devastati ma lucidi, l’accompagnano e la sostengono in questa sua battaglia per la vita. Le armi da fuoco di grosso calibro spesso non risparmiano. Facili da usare, precise, efficaci. I proiettili esplodono nel corpo e trovarne i frammenti diventa un lavoro estenuante.
Tutte le sale operatorie sono occupate e accanto a Shelaiska un esercito di altri pazienti lotta tra la vita e la morte. Nonostante la stanchezza, la rassegnazione e lo sgomento, medici e infermieri resistono. È fortunata Shelaiska: molto provata, la bimba passa dalla terapia intensiva al reparto. Si salverà. Ma la paura di non poter più camminare o chissà, la preoccupazione di rientrare in quella casa che non sente più sicura, continua a tormentarla durante tutto il periodo di degenza. Sarà solo quando, dopo giorni di lacrime, nel corridoio dell’ospedale poggerà i piedi di nuovo per terra che ci regala il primo sorriso. Guarda confusa e un po’ stupita medici e infermieri e cerca lo sguardo sollecito del papà, mentre stenta a fare i primi passi.
E se non ci fosse stato l’ospedale di Medici Senza Frontiere? Dove avrebbero portato Shelaiska? Ogni corsa sarebbe stata vana, ogni prezioso attimo sarebbe stato perso. Un ospedale può fare la differenza tra la vita e la morte in un posto devastato dalla violenza come Port-au-Prince.
Mirlande llega al hospital en la parte trasera de un camión desde uno de los barrios más conflictivos de la capital de Haití. Tiene siete años y ha sido víctima de un tiroteo entre bandas armadas https://t.co/qA9JAcOVfi
— ELPAÍS PlanetaFuturo (@Planeta_Futuro) July 17, 2022
Adattamento. È una parola che ti segue in tutte le missioni umanitarie. È come riniziare ogni volta da capo – Salam alaikum, kaif al hal? Ana Federica. I’m a surgeon. Je viens de l’Italie. Ogni risposta è un nuovo percorso, ogni risposta è una nuova persona. E così inizia il viaggio. Ti adatti agli orari – dopo voli, cambi e corse. Inizi non solo a parlare un’altra lingua ma addirittura pensi in un’altra lingua, scompare il concetto di traduzione. Nulla, risparmi energie pensando la frase direttamente in francese, inglese, arabo. Ti adatti a dormire ovunque, che sia un letto o una panchina in aeroporto. Ti adatti alla cucina colorata caraibica, a quella africana, al ramadan dei Paesi arabi. E alla doccia fredda. Appoggi i tuoi vestiti nei nuovi armadi e ti accorgi di quanti passi hanno fatto con te. Riconosci i rumori della guerra, delle strade, dei generatori di corrente. E ti adatti alla vita nel nuovo ospedale. Nuove regole, nuove linee guida, nuovi interventi chirurgici, nuovi tempi. ‘Dov’è la sala operatoria?’ E dopo mesi di missione, non ti sembra reale aver fatto questa domanda quando hai messo piede per la prima volta in ospedale, perché è come se quella strada l’avessi calpestata da sempre. È come se fosse scritta sulla tua linea della vita. Ma il vero elemento straordinario sono le persone. Tutte. Quelle che ti riempiono le giornate con diecimila domande, quelle che ti osservano e hanno la grande capacità di imparare così, quelle che non vogliono che vai via, quelle per le quali rimani una guida anche dopo anni di distanza. -Hic et nunc-
Port-au-Prince, Haiti
Gennaio 2022 – Dalla metà del 2018 Haiti è alle prese con una grave crisi politica ed economica.
In seguito ad un’escalation di proteste contro corruzione e peggioramento delle condizioni di vita, il presidente Jovenel Moïse è stato assassinato lo scorso luglio nella sua residenza a Port-au-Prince, dopo un precedente sventato tentativo di colpo di stato, peggiorando l’instabilità nel Paese.
Il potere legislativo è decaduto ormai da gennaio 2020 e il 2022 si preannuncia un anno estremamente complicato, a causa delle scadenze politiche successive all’assassinio del Presidente.
Gang violence, a presidential assassination and kidnappings – just what is going on in Haiti? Al Jazeera Correspondent @Manuel_Rapalo explains. pic.twitter.com/UF2FumEvvR
Il terremoto dello scorso agosto ha provocato oltre 2.200 morti e più di 10 mila feriti. E la memoria è andata subito al catastrofico terremoto del 2010, che fece contare più di 200.000 vittime.
La successiva tempesta tropicale Grace si è abbattuta sulle zone meridionali dell’isola, complicando notevolmente le operazioni di soccorso, rendendo molte aree inaccessibili, danneggiando strutture provvisorie utilizzate come riparo e pronto soccorso per cure mediche urgenti.
After the earthquake that struck near #Haiti on Saturday morning, MSF's teams in Sud region & Port-au-Prince are assessing the impact on health facilities & how we can support the local response. We’re preparing to receive wounded patients at Tabarre Hospital in Port-au-Prince.
Il sistema sanitario e l’accesso negli ospedali sono condizionati dall’insicurezza generale. Le urgenze si sono sommate a enormi problemi strutturali: la fragilità cronica del sistema sanitario e l’insicurezza per i continui scontri tra le gang. Secondo le Nazioni Unite, più di 90 bande armate operano in tutto il Paese, controllando oltre la metà della capitale Port-au-Prince.
La Repubblica Dominicana ha riavviato le deportazioni di haitiani privi di documenti. Nel maggio 2021, gli Stati Uniti hanno esteso di 18 mesi lo status di protezione temporanea per gli haitiani. Lo scorso settembre l’amministrazione Biden ha decretato l’espulsione di migliaia di migranti haitiani entrati a Del Rio, cittadina di confine tra il Texas ed il Messico. Nonostante la crisi umanitaria ad Haiti, decine di richiedenti asilo, sono stati brutalmente allontanati dagli Stati Uniti.
“Haitian #Migration through the #Americas: A Decade in the Making ” — @MigrationPolicy chronicles the movements of Haitians through the hemisphere since 2010 and the particular challenges faced in the region: https://t.co/N5LuJCSCuX
Lo scorso ottobre esplode la crisi del carburante, con bande criminali che hanno bloccato il Varreaux terminal a Port-au-Prince. A rischio l’operatività di strutture sanitarie. Difficile anche il trasporto di aiuti umanitari.
"Without fuel, we can’t run our hospital."
A fuel shortage in #Haiti in recent days is threatening access and continuity of medical care.https://t.co/VE3aCX2uKh
A dicembre, l’esplosione di un’autocisterna che trasportava carburante a Cap-Haitien, nel nord di Haiti, ha provocato decide di morti e feriti gravi. Le bande armate controllano la distribuzione di carburante nel Paese. Haiti non ha un vero esercito, dopo il suo smantellamento nel 1995 a seguito dell’ennesimo colpo di stato militare. Inoltre deve far fronte alla debolezza delle forze di polizia composte da uomini mal armati, scarsamente addestrati, spesso corrotti e totalmente inadeguati a rispondere al crescente potere delle gang.
La famille des Nations Unies en Haïti présente ses condoléances et exprime sa solidarité avec le peuple haïtien après l’effroyable explosion de cette nuit au Cap-Haïtien. Nous devons tous soutenir les autorités dans leurs efforts de porter secours aux victimes et à leurs familles
Febbraio 2022 – Haiti è entrata in una nuova fase di transizione politica. In scadenza il mandato ad interim del primo ministro Ariel Henry, la cui legittimità è stata contestata fin dall’inizio. Ariel non lascerà il suo incarico prima di poter cedere il potere a un nuovo presidente democraticamente eletto. Ma per poter prendere in considerazione lo svolgimento di elezioni nel Paese, è necessario risolvere il problema dell’insicurezza. Di fronte a un tale vuoto istituzionale, le fazioni politiche e i gruppi della società civile si contendono la legittimità per proporre una via d’uscita dalla crisi. Intanto le gang hanno trasformato Haiti in una prigione a cielo aperto per i suoi cittadini. Il Paese è controllato da bande armate che impediscono la libera circolazione di persone e merci. La situazione politica e umanitaria di Haiti continua a essere discussa al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Il mandato di BINUH (United Nations Integrated Office in Haiti) è stato prorogato fino al luglio 2022, per rafforzare la stabilità politica, tutelare e promuovere i diritti umani.
New #CrisisWatch conflict tracker warns of potential escalations in:
Precipitazioni intermittenti di varia intensità hanno provocato allagamenti in decine di comuni nei dipartimenti del nord, nord-est e Nippes. L’accesso alle aree colpite rimane molto difficile a causa dello stato delle strade e delle infrastrutture danneggiate dalle forti piogge.
Secondo l’ultimo report di Human Rights Watch, oltre un terzo della popolazione non ha accesso all’acqua potabile e due terzi hanno servizi igienici limitati o inesistenti. 4,4 milioni di haitiani vive con insicurezza alimentare e 217.000 bambini soffrono di malnutrizione da moderata a grave.
Marzo 2022 – Poco meno della metà degli haitiani di età pari o superiore a 15 anni è analfabeta. Il sistema educativo del Paese è altamente diseguale. La qualità dell’istruzione pubblica è generalmente molto scarsa e l’85% delle scuole sono private e applicano tasse che escludono la maggior parte dei bambini provenienti da famiglie a basso reddito. Oltre 3 milioni di bambini non sono stati in grado di frequentare la scuola per mesi negli ultimi due anni, per motivi di sicurezza e restrizioni. Il terremoto del 2021 ha distrutto o gravemente danneggiato 308 scuole, colpendo 100.000 bambini. Già prima del terremoto, l’UNICEF stimava che 500.000 bambini fossero a rischio di abbandono scolastico.
La violenza politica e i rapimenti legati alle bande continuano nonostante i gruppi haitiani si siano incontrati in Louisiana, negli Stati Uniti, per discutere delle prossime elezioni. Nel quartiere di Martissant, ovest di Port-au-Prince, dove un violento conflitto tra bande infuria da oltre sei mesi, i civili continuano ad essere mirati deliberatamente e indiscriminatamente.
In 2021, the metropolitan area of Port-au-Prince experienced an unprecedented and rapid expansion of #gangviolence.
Aprile 2022 – Sospensione temporanea delle attività nel centro di Drouillard di Medici Senza Frontiere, nell’agglomerato di Cité Soleil a Port-au-Prince, a causa della violenza tra gang. Aperto nel 2011, il centro di Drouillard ha fornito cure di emergenza e di stabilizzazione alla popolazione. Il centro rimarrà chiuso, finché non saranno garantite le condizioni di sicurezza, per consentire un accesso imparziale alle cure e non sarà violato il rispetto della neutralità delle strutture sanitarie.
🇭🇹 Após uma série de incidentes violentos contra pessoas no centro de emergência de #MSF em Drouillard, Porto Príncipe, capital do #Haiti, MSF anuncia uma suspensão temporária de suas atividades em Drouillard, pois não poderia garantir a segurança de profissionais e pacientes.
Rimangono alti i livelli di insicurezza alimentare e malnutrizione. Secondo le ultime stime dell’Integrated Food Security Phase Classification (IPC), circa 4,5 milioni di haitiani (45% della popolazione totale) fronteggeranno la fame nel 2022. Di questi, più di 1,3 milioni saranno in emergenza (fase 4 IPC).
— The Integrated Food Security Phase Classification (@theIPCinfo) March 16, 2022
Pesanti colpi di arma da fuoco a Butte Boyer, nella zona di Croix-des-Bouquets, comune nell’area metropolitana di Port-au-Prince. Il gruppo armato 400-Mawozo combatte ancora contro bande rivali, guidate dal gruppo Chen Mechan, per controllare la zona di Croix-des-Missions e Bon-Repos. Decine di feriti sono stati accolti nel Centre de traumatologie d’urgence et de grands brûlés de Tabarre nella capitale Port-au-Prince, mentre l’insicurezza sta tornando ad essere un serio ostacolo all’accesso alle cure.
Si teme che la vasta area di Croix-des-Bouquets, che collega la capitale all’altopiano centrale e al confine con la vicina Repubblica Dominicana, possa diventare la prossima terra di nessuno di Haiti dopo Martissant, il quartiere sud totalmente sotto il controllo di gang. Se Croix-des-Bouquets cadesse completamente nelle mani delle bande armate, lascerebbe Port-au-Prince con un solo accesso, quello settentrionale.
"As gangs gain further power, they are likely to increasingly influence Haitian politics by providing support to political actors favoring their interests, or positioning themselves as a substitute to the state apparatus altogether." https://t.co/XnofoUEm6ipic.twitter.com/Hrhnpn531W
— Armed Conflict Location & Event Data Project (@ACLEDINFO) April 12, 2022
Le conseguenze dello stoccaggio improprio di carburante, alimentato dallo spettro della penuria del mercato, continuano ad essere causa di preoccupanti esplosioni. Ultimi gravi incidenti a Milot, zona Barrière Battant (département du Nord) e a Montrouis, St Marc (département de l’Artibonite). Decine di feriti sono stati trasportati in condizioni critiche presso il Centre de traumatologie d’urgence et de grands brûlés de Tabarre, a Port-au-Prince.
Les équipes MSF spécialisées dans le traitement des brûlures graves à l’hôpital de Tabarre ont pris en charge cette semaine six survivants de deux explosions de réservoirs de carburant qui ont eu lieu à Montrouis et à Milot dans le nord de Haiti. pic.twitter.com/fZH21xyAiO
"La carestia è un tema antico e moderno. Parliamo della crisi del grano perché oggi sono chiusi i porti sul mar Nero, per la guerra in Ucraina. Grano e fame sono armi di guerra: lo sono stati per 2mila anni e lo sono ancora oggi” @OxfamItalia@petrellismohttps://t.co/7wKJndDzat
Autore di dieci romanzi e svariati racconti, il tanzaniano ABDULRAZAK GURNAH è stato premiato per ‘la sua intransigente e compassionevole penetrazione degli effetti del colonialismo e del destino del rifugiato nel divario tra culture e continenti’. Uno scrittore che ha dedicato la sua opera a narrare nei modi più belli e inquietanti ciò che sradica le persone e le costringe alla fuga
di Federica Iezzi
Roma, 11 ottobre 2021, Nena News – Il Premio Nobel per la letteratura 2021 è l’autore tanzaniano Abdulrazak Gurnah. Il prestigioso premio è stato assegnato per la ‘compassionevole penetrazione degli effetti del colonialismo e del destino del rifugiato nel divario tra culture e continenti’.
Nato a Zanzibar e trasferitosi in Gran Bretagna come rifugiato negli anni ’60, Gurnah ha recentemente lasciato la sua cattedra di letteratura inglese e post-coloniale all’Università del Kent, a Canterbury, dopo aver seguito il lavoro di scrittori come Soyinka, Ngũgĩ wa Thiong’o e Salman Rushdie.
È il primo scrittore africano a vincere il premio dopo Doris Lessing, scrittrice zimbabwese di origine britannica (2007), John Maxwell Coetzee, scrittore, saggista e accademico sudafricano naturalizzato australiano (2003), Nadine Gordimer, scrittrice sudafricana (1991), Nagib Mahfuz, scrittore, giornalista e sceneggiatore egiziano (1988), e Wole Soyinka, drammaturgo, poeta, scrittore e saggista nigeriano (1986). Dei 118 vincitori della letteratura, da quando è stato assegnato il primo Nobel nel 1901, più dell’80% sono stati europei o nordamericani.
Ha pubblicato 10 romanzi e alcuni racconti. È noto al grande pubblico per il suo lavoro del 1994 Paradise, ambientato nell’Africa orientale coloniale durante la prima guerra mondiale, selezionato per il Booker Prize for Fiction e per il Whitbread Prize.
Anders Olsson, presidente del Comitato Nobel per la letteratura, lo ha definito “uno degli scrittori postcoloniali più importanti del mondo”, dal suo debutto con Memory of Departure, in sostanza la sua storia di profugo, al suo più recente Afterlives, storia che affronta gli effetti generazionali del colonialismo.
“Non credo che i recenti sviluppi politici nel mondo o la crisi dei rifugiati abbiano influito su questa scelta, ma penso che probabilmente il premio arriva dalla necessità di guardare più da vicino l’importanza e l’acutezza della letteratura post-coloniale”’, così Gurnah commenta il suo Nobel.
Gurnah ha sempre scritto sul tema dell’immigrazione, nei modi più belli e inquietanti di ciò che sradica le persone e le fa esplodere attraverso i continenti. In uno dei suoi più pregiati romanzi By the Sea, c’è l’immagine inquietante di un uomo all’aeroporto di Heathrow con una scatola di incenso intagliata, ed è tutto ciò che ha. Arriva e dice un’unica parola, ed è ‘asilo’.
Gurnah è uno scrittore potente e ricco di sfumature il cui lirismo ellittico contrasta i silenzi e le bugie della storia imperiale degli anni ’50 imposta nell’Africa orientale. I personaggi dei suoi romanzi, si trovano nell’abisso tra culture e continenti, tra la vita lasciata alle spalle e la vita a venire, affrontando razzismo e pregiudizio. Tra frammenti di casa, poi voci più lunghe, poi storie di altre persone, le sue opere esplorano il trauma persistente del colonialismo, della guerra e dello sfollamento.
Gli stessi temi che lo hanno impegnato all’inizio della sua carriera, quando stava ancora elaborando gli effetti del suo stesso sfollamento, si sentono sempre più urgenti oggi, visto che sia l’Europa che gli Stati Uniti sono stati colpiti da un contraccolpo contro immigrati e rifugiati, allontanati dai loro Paesi di origine a causa di instabilità politica e guerre. Nena News
BREAKING NEWS: The 2021 #NobelPrize in Literature is awarded to the novelist Abdulrazak Gurnah “for his uncompromising and compassionate penetration of the effects of colonialism and the fate of the refugee in the gulf between cultures and continents.” pic.twitter.com/zw2LBQSJ4j
15/08/2021 – Dalla Casa Bianca al Pentagono, dalla NATO alle cancellerie europee è gara a mascherare la sconfitta del ritiro delle truppe alleate dall’Afghanistan, annunciato dal presidente degli Stati Uniti, Joe Biden. Del resto l’accordo firmato in Qatar dall’amministrazione Trump e dai talebani nel febbraio 2020, con l’esclusione del governo Ghani, aveva l’obiettivo di offrire a Washington l’alibi per il ritiro, non certo di conseguire la stabilità dell’Afghanistan con improbabili intese tra governo e insorti jihadisti.
Gravissimo quanto affermato dal Segretario di Stato USA, Antony John Blinken, in seguito all’insediamento del regime talebano a Kabul, ‘We went to Afghanistan 20 years ago, with one mission in mind, and that was to deal with the people who attacked us on 9/11. And that mission has been successful’.
Mentre il piano di risposta umanitaria delle Nazioni Unite per l’Afghanistan rimane poco chiaro, milioni di civili rischiano di perdere spazi sicuri e supporto. La fornitura di assistenza umanitaria rimane limitata e difficile, sulla maggiorparte del territorio afghano.
Mesi di violenza hanno provocato frequenti interruzioni nei servizi sanitari. Almeno 14,5 milioni di persone (circa il 33% della popolazione totale) necessitava di assistenza sanitaria prima della recente escalation. Secondo il World Food Programme almeno 14 milioni di civili sono oggi obbligati ad affrontare una crisi alimentare già in atto (fase 3 IPC – Integrated Food Security Phase Classification). La metà della popolazione afghana, ovvero 18 milioni di persone, dipende da aiuti umanitari e il 97% di questa potrebbe presto sprofondare al di sotto della soglia di povertà.
In #Afghanistan, @MSF is continuing to run medical activities in all five of its projects in Herat, Kandahar, Khost, Kunduz and Lashkar Gah
*Tens of thousands of lives are at risk. *Power is out in several cities. *Water systems are barely working. *Thousands are injured. *Many families are fleeing for safety.
Enough.
The rules of war are clear – civilians are not part of the fight.
"Dicevamo 20 anni fa che questa guerra sarebbe stata un disastro per tutti. Oggi l’esito di quell’aggressione è sotto i nostri occhi: un fallimento da ogni punto di vista" @GinoStrada sulla situazione in #Afghanistan@LaStampahttps://t.co/X22kFCTQIl
La Turchia, unico Paese a maggioranza musulmana nella NATO, è stato a lungo diplomaticamente e politicamente influente in Afghanistan. Eppure ha profondi legami storici, culturali, religiosi ed etnici sia con l’Afghanistan, sia con il vicino Pakistan, il principale sostenitore del regime talebano. Durante gli ultimi vent’anni, la Turchia ha mantenuto stretti legami con varie fazioni etniche e politiche in competizione nel Paese, con la capacità di influenzare voti, milizie e coalizioni di governo – compresi i talebani. I legami turchi sono particolarmente forti con le comunità di etnia uzbeka e turkmena dell’Afghanistan settentrionale. La Turchia conta attualmente oltre 500 soldati in Afghanistan, impegnati prima nella missione ISAF (Forza Internazionale di Assistenza per la Sicurezza) poi nella Resolute Support Mission, truppe che non hanno mai partecipato attivamente ai combattimenti. Le loro attività si sono limitate a fornire sicurezza nella sezione militare dell’aeroporto di Kabul e ad addestrare le forze di sicurezza afghane. A causa del suo ruolo ‘non attivo’ in Afghanistan, oggi la Turchia ha migliori relazioni con i talebani rispetto a qualsiasi altro Paese della NATO. Sebbene i talebani abbiano già intimato alla Turchia di evacuare le sue truppe, Ankara sta facendo pressioni sul gruppo di combattenti affinché abbandoni le sue obiezioni anche attraverso i suoi preziosi alleati, Pakistan e Qatar. Indubbiamente, Turchia e Pakistan vantano forti legami strategici e hanno una visione politica sempre più allineata sulla scena globale. Entra nel quadro anche l’Ungheria di Orbán, che ha gestito la sicurezza nell’aeroporto di Kabul nel periodo 2010-2013. Gli ungheresi dunque potrebbero essere riconosciuti come partner esperti e affidabili. L’attuale vuoto strategico in Afghanistan e il rapido peggioramento della sicurezza nel Paese, ha spinto la Turchia a chiedere sempre maggiori responsabilità nella gestione e nella protezione del cruciale aeroporto Hamid Karzai di Kabul, la principale porta d’accesso in Afghanistan. E’ evidente che l’aeroporto di Kabul continuerà ad avere un’importanza strategica per i Paesi della NATO, per il mantenimento di una presenza diplomatica nei prossimi mesi e anni. Il presidente turco non ha mai nascosto il suo desiderio di aumentare il peso politico della Turchia nel mondo musulmano. Sotto il suo governo, la Turchia ha notevolmente aumentato la sua influenza nell’Asia meridionale musulmana. Ankara è impegnata militarmente e diplomaticamente in molti teatri contemporanei – Libia, Siria e Iraq direttamente, Ucraina e Caucaso nella cooperazione in materia di sicurezza, Africa come progetti di sviluppo. E nell’era post-USA, Ankara ha molto da guadagnare rimanendo un attore chiave in Afghanistan. Negli ultimi anni, il governo Erdogan ha compiuto diverse mosse di politica estera volte a mettere da parte l’Arabia Saudita e collocare la Turchia come il nuovo leader del mondo musulmano sunnita. Ha partecipato attivamente ai conflitti regionali, come la guerra in Siria, contro l’Arabia Saudita e i suoi alleati, ed è stata esplicita nelle sue critiche a Riyadh su varie questioni, dall’embargo contro il Qatar all’assassinio del giornalista saudita Jamal Khashoggi. Mantenere un ruolo attivo in Afghanistan, dopo il ritiro degli Stati Uniti, aiuterebbe la Turchia ad aumentare la sua importanza all’interno della NATO e a sanare le relazioni tese con gli stessi Stati Uniti. A Bruxelles, il segretario generale della NATO Jens Stoltenberg ha sottolineato l’importanza della Turchia e il ruolo chiave che potrebbe svolgere in futuro in Afghanistan. Nessun piano di spiegamento è stato ancora deciso ufficialmente, anche se i negoziati tra Ankara e Washington potrebbero attualmente essere in corso dietro le quinte. Gli storici avversari NATO, Russia e Iran, così come l’Arabia Saudita, combattono contro la presenza turca in Afghanistan.
26/08/2021 – Almeno 175 civili uccisi e centinaia di feriti sono il risultato dell’attacco suicida nell’aeroporto Hamid Karzai di Kabul, rivendicato dall’Islamic State in Khorasan Province (ISKP). L’ISKP è una diretta appendice dello Stato Islamico. Khorasan si riferisce alla regione storica, sotto un antico califfato, che includeva aree in Afghanistan, Iran, Pakistan e Turkmenistan.
La banale risposta del presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ad un copione già scritto, non tarda ad arrivare ‘We will hunt you down and make you pay’.
Come atto politico dovuto, gli Stati Uniti, usando un drone reaper, hanno compiuto un gesto di rappresaglia nell’area di Nangharar, provincia afghana nord-orientale, storica base ISKP.
“The ability of ISIS-K to carry out one of the most successful attacks against the American military in years will give it new credibility,” @wrightr writes, in regard to the group’s bombing at Kabul airport on Thursday, which killed nearly 200 people. https://t.co/JELaGEabSo
06/09/2021 – Mentre i talebani rivendicano la loro vittoria sulle forze di opposizione nell’ultima provincia del Panjshir, l’anti-Taliban National Resistance Front (NRF), afferma di essere ancora presente in posizioni strategiche nella valle del Panjshir, per continuare la lotta. Proprio il Panjshir, un’aspra valle tra le montagne a nord di Kabul, ha resistito al controllo sia dell’esercito sovietico durante la lunga guerra negli anni ’80 sia del governo talebano dal 1996 al 2001.
07/09/2021 – Annunciato governo ad interim in Afghanistan. Il premier si conferma il mullah Mohammad Hassan, già capo del Consiglio direttivo dei talebani, la Rahbari Shura – inoltre figura nella lista dell’ONU di persone designate come ‘terroristi o associati a terroristi’. Il suo vice sarà il mullah Abdul Ghani Baradar, co-fondatore dei talebani, negoziatore con gli USA a Doha. Mawlawi Mohammad Yaqub, figlio del mullah Omar, guiderà il Ministero della Difesa e Sirajuddin Haqqani, figlio del celebre comandante della jihad anti-sovietica Jalaluddin Haqqani, quello dell’Interno.
A nessuna donna, di alcun gruppo etnico o movimento politico, è stato assegnato un incarico. Così come alla minoranza hazara, il terzo gruppo etnico più numeroso dell’Afghanistan. Nella nuova amministrazione i pashtun rappresentano oltre il 90% del quadro governativo.
افغان طالبانو خپله نوې سرپرسته کابینه او ورسره افغانستان کې خپل نوی سرپرست حکومت اعلان کړ. د طالبانو وياند ذبيح الله مجاهد د کابينې د غړو نومونه په يوه خبري کنفرانس کې له رسنيو سره شريک کړل. pic.twitter.com/vqQ0ArI2wc
17/09/2021 – Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha deciso all’unanimità di rinnovare il mandato UNAMA – United Nations Assistance Mission in Afghanistan, per ulteriori sei mesi. Stabilita nel 2002, la missione continuerà la sua funzione di state building.
Quaranta milioni di afghani vivono nel timore di un disastroso crollo del sistema sanitario. Farmaci, forniture mediche e carburante rasentano già la carenza cronica. Mancano strutture ospedaliere e programmi di prevenzione. Difficile è l’accesso all’assistenza sanitaria di base. I professionisti sono stati costretti a lasciare il Paese e sono assenti programmi di formazione medica.
Da quando i Talebani hanno ripreso il controllo del Paese, Il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, hanno bruscamente frenato il flusso di assistenza in Afghanistan. I finanziamenti internazionali permettono di finanziare circa l’80% del bilancio statale e nel 2020 i flussi di aiuti esteri hanno rappresentato circa il 43% dell’economia del Paese.
Cresce il numero di sfollati interni secondo l’Internal Displacement Monitoring Centre. Maggiormente colpite le province di Kandahar, Helmand e Uruzgan, con un totale di 35.000 sfollati interni. E quelle nordorientali di Takhar, Kunduz, Baghlan e Badakhshan con almeno 49.000 sfollati interni.
From armed attacks to wildfires, conflict & disasters uprooted people across the world during the first 6 months of the year.
Our 2021 mid-year review focusses on 10 situations, which have displaced high numbers of people between Jan-June. https://t.co/iAHrcWZTEU
In Afghanistan scuole medie e superiori restano chiuse alle ragazze. Per ora alle studentesse afghane sarà permesso l’accesso all’educazione primaria. E’ l’unico Paese al mondo a vietare, di fatto, l’istruzione femminile. Mahbouba Saraj, attivista afghana e presidente della NGO Afghanistan’s women network afferma che i talebani non avranno altra scelta, se non quella di rispettare i diritti delle donne afghane se vogliono sfuggire al collasso economico, all’isolamento diplomatico e restare al potere. Tuttavia, nonostante il discorso apparentemente pacato e assecondante dei rappresentanti del movimento islamista al potere, Seraj non crede alle promesse dei talebani quando assicurano che le donne afghane potranno, molto presto, tornare a lavorare e studiare.
REPORTAGE. In Yemen, civilians continue to die despite the ceasefire. And 16 million people are left without humanitarian assistance. We report from the villages most exposed to the conflict and from the Doctors Without Borders hospital in al-Mokha, a gem in a destroyed country
di Federica Iezzi
Taiz, Yemen – ‘I pray to Allah that you may return soon’. When your wonderful team says this to you while looking up at the sky and putting their hands on their hearts, it means you have managed to touch the soul of the project.
We are in the city of Al-Mokha, in the hospital of Doctors Without Borders. When you set foot in this hospital, you realize that you have found a jewel in a country entirely destroyed by war. Devastated streets, houses demolished by the fury of the bombs, dwellings half rebuilt, men walking in the main streets with Kalashnikovs hanging on their shoulders, not even a trace of women to be seen.
The hospital is operating for the benefit of the direct and indirect victims of the fierce armed conflict that has been tearing through the country for more than six years. It is the only hospital on Yemen’s west coast that provides emergency surgical care to the civilian population, victims of war-related violence. Patients come mainly from the areas close to the front lines of the Taiz governorate (Mawza, Dhubab, al-Wazi’iyah) and from the southern one of al-Hudaydah (Khawkah, Hays, at-Tuhayta, ad-Durayhimi, Bait al-Faqih), areas controlled by the Saudi-led coalition, where access to care is very unequal.
Indiscriminate fighting and active hostilities in densely populated areas continue to be a major cause of death for Yemeni civilians. Rural districts have been hit hard, with over 60% of the civilian casualties, most of which are in the al-Hudaydah governorate, at-Tuhayta and Hays districts and Taiz governorate. In these areas, access to humanitarian assistance is severely limited.
Despite the UN-brokered ceasefire in al-Hudaydah, the number of incidents with civilian victims in the governorate has increased. When front lines are dynamic and shifting, the impact of war on civilians is often significantly greater than when front lines are static.
The conflict in Taiz governorate is paradigmatic. Regional rivalries between the Gulf states and Iran and untrammeled local competition for power and influence have grown and played off each other, spreading like wildfire across Yemen. To some extent, the local clashes are a direct result of broader regional dynamics. Pursuing a more proactive foreign policy in recent years, the UAE has vowed to combat political Islam—represented in Yemen by the multifaceted al-Islah party—in all its forms, throughout the region and beyond.
After the town of al-Mafraq, more than 40 km from al-Mokha, along a road marked with blue dots on Google Maps, there is suddenly a gap in the main road, marking the proximity to the front line. We are less than a mile away from the fighting.
On that stretch of road is where snipers are positioned. We continue on a dirt road detour that lengthens the route. The gap is marked by a mound of dirt on which a plastic pipe is planted. All the local drivers know that this sign means detour. From that point on, only the mountains stand between the battlefields, the roads and the houses. We pass through 12 checkpoints, going through the same queue for checks, and after two hours we arrive in the district of al-Wazi’iyah, in the governorate of Taiz.
The landscape is different here compared to Yemen’s arid, windy and sultry west coast. At the foot of the mountains, with the water of the Wadi Rasyan, the color green is everywhere, with acacias and palms. We pass through small villages. We meet a pharmacist who, after years of study and sacrifice, now drives a truck delivering tea to the city of Aden: “There are no other job opportunities,” he tells us.
Some health facilities have been supported by Save the Children, the Yemen Humanitarian Fund and Unicef for years. No more support has come in since August. In the villages of al-Khoba and al-Khuraif, the stories are the same. Salaries for staff have not arrived, medicines and laboratory reagents are running out. We ask what’s going to happen to them. We are told that in all likelihood, they will receive government support eventually, but in the meantime the flow of patients is decreasing towards zero. Civilian movements are minimized due to the proximity to the front line, military checkpoints and completely destroyed roads. The result is that treatments are delayed in a highly concerning manner, with rampant chronicity of otherwise curable diseases.
Healthcare personnel are offering some services for a fee, such as ultrasounds during pregnancy, laboratory tests and microscopic examinations. Some health districts have private pharmacies, whose candy-colored drugs are unmistakably “made in China.” The escalation of the conflict, the deterioration of the economic situation, food insecurity and poor nutritional conditions are signs of an imminent collapse.
About 20 million people in Yemen, out of a total population of 24 million, are in need of some form of humanitarian assistance and protection. Since 2015, the conflict has forced 4 million people to flee their homes, making the country the fourth-largest crisis in the world in terms of internally displaced persons.
The total number of reported victims is estimated at over 230,000, mainly in the cities of Taiz, Aden, Sana’a and Sa’adah. UN agencies and major non-governmental organizations have repeatedly expressed concern about human rights violations, urging a halt to indiscriminate bombing.
According to the latest statement released by the United Nations Office for the Coordination of Humanitarian Affairs, more than 16 million Yemenis, two-thirds of the population, are in need of humanitarian assistance. Among them, more than 12 million are in dire need. Meanwhile, preventable diseases have become pervasive, and morbidity and mortality are increasing exponentially. There are 15 million civilians without access to basic health care, 400,000 children in need of psychosocial support and 75,000 who have contracted diseases that can be eradicated with regular rounds of vaccination.
The conflict has devastated the health services. According to the World Health Organization, more than half of the 5,000 health facilities in Yemen are not functioning or are partially functioning, in 22 governorates. Thousands of health professionals are underutilized due to the destruction of health facilities, lack of medicines and inaccessibility on the part of the population. According to the Health Resources and Services Availability Monitoring System (HeRAMS) dataset for 2020, among Yemen’s 333 districts, 18% have no doctors at all. But one tiny spark of life continues to fight the last desperate battle, in the Doctors Without Borders hospital.
In Al-Mokha, there are always noises: car horns, sirens, gunshots, anti-aircraft artillery tests, fireworks. At first it all seems like one big din, with everything blurring together, but then you start to recognize exactly what everything is. Sounds of grenades. Then sirens. And you already know you have to run to put on your abaya and jump into the car that will take you to the hospital. The air always smells of smoke, gunpowder and sand.