VIDEO. Nelle strade di Kobane

Nena News Agency – 27 novembre 2014

Nena News vi offre un altro documento filmato eccezionale. Le immagini girate dalla nostra collaboratrice Federica Iezzi all’interno della città curda sotto assedio dei jihadisti dello Stato Islamico 

di Federica Iezzi

Kobane , 27 novembre 2014,  Nena News – Siamo a Kobane. Dal settembre scorso, simbolo e arena di scontri tra i jihadisti dello Stato Islamico dell’Iraq e della Siria, che seguono pedissequamente il programma di avanzata, e i combattenti curdi dell’Unità di Protezione Popolare.

Secondo i dati dell’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani le vittime sono ormai salite a quasi 1200.

Le porte di Kobane sono custodite dai mortai. Fuoristrada grigi scuri, con le bandiere nere dello Stato Islamico tatuate sulle porte e con MG30 al seguito, sfrecciano ferocemente sulla Halnaj-Kobani, strada a sud-est della città. C’è chi ancora non vuole lasciare la casa dove è cresciuto e le strade dove correva da bambino.

La quotidiana pace di Kobane, si è trasformata nel fragore dei proiettili che crivellano gli edifici crollati, delle auto bruciate, degli spari e delle esplosioni. E la battaglia non accenna a finire: giochi di controllo di strade ed edifici continuano nella zona a sud-est.

Angoli senza luce, sono il teatro distrutto e asserragliato di una città diventata un forte militare. Non ci sono più ospedali pubblici funzionanti e le scorte di medicine stanno finendo. Svuotati i negozi di alimenti e bevande per i combattenti e per i civili. Lungo le strade dritte ed infinite spesso non si incontra nessuno.

Le vie sono piene di buche, di mucchi di spazzatura e di macerie. Sono pattugliate da soldati a volte nemmeno riconoscibili dalle uniformi. Volti incorniciati da una folta barba, muscolosi ma zoppicanti. Le serrande sono abbassate, le porte e le finestre scure sono chiuse sul mondo. Nena News

Nena News Agency “VIDEO. Nelle strade di Kobane” – di Federica Iezzi

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FOTO. Siria, gli Yazidi di Nowruz

Nena News Agency – 24 novembre 2014

Nel campo profughi a nord est della Siria, 20mila rifugiati della minoranza yazidi – sfuggiti all’avanzata dell’ISIS – vivono di aiuti umanitari nelle tende dell’UNHCR

Syria - Nowruz refugees camp

Syria – Nowruz refugees camp

testo di Federica Iezzi – Immagini di Federica Iezzi e Alan Ali 

Nowruz, 24 novembre 2014, Nena News – Un sole pallido illumina la giornata in quest’angolo di Siria. Ma il freddo ti entra  nelle vene. Nelle pozzanghere riempite dai giorni di pioggia passati, l’acqua stagnante non ancora viene riassorbita dal terreno saturo e colora questa terra arsa.

Siamo nell’area di Ain al-Khadra, nel campo rifugiati di Nowruz, a pochi chilometri dalla città siriana di Derek, nel nord-est del Paese. Qui almeno 20.000 yazidi vivono in tende disposte dall’UNHCR e dal Comitato Internazionale della Croce Rossa.

Quando fuori dai cancelli arrivano i camion pieni di aiuti umanitari, i bambini si accalcano attorno agli operatori per vedere cosa portano, cosa arriva di nuovo nelle tende, cosa ci sarà da mangiare per il venerdì e il sabato. I ragazzi non vanno ancora a scuola e l’anno scolastico va avanti. Nelle tende ci si organizza con giochi e lavori educativi. Molte bambine passano le mattinate a fare le faccende di casa e i bambini ogni giorno si costruiscono pazientemente, con vecchi stracci, un pallone per giocare a calcio.

Al mattino l’acqua da bere si prende in un grande serbatoio al centro del campo, quella che si utilizza per lavare i vestiti si prende invece fuori dal campo. Poche regole che fanno sembrare normale la vita. Nena News

Nena News Agency “FOTO. Siria, gli yazidi di Nowruz” – di Federica Iezzi

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FOTO. Nena News dentro Kobane

Nena News Agency 20 novembre 2014

La nostra agenzia vi offre un documento eccezionale. Le foto scattate dentro la città kurda assediata dai jihadisti dell’ISIS dalla nostra collaboratrice, Federica Iezzi

Kobane

Kobane

di Federica Iezzi

Kobane (Siria), 20 novembre 2014, Nena News Kobane è una città percossa furiosamente da proiettili, spari, colpi di mortaio e bombardamenti. L’aria odora di polvere da sparo. Il cielo è coperto da nuvole nere di fumo. Le strade coperte di detriti, schegge e crolli. Ma molti civili non hanno ancora abbandonato Kobane.

Almeno 500-700 persone hanno deciso di non lasciare la città. E sono per lo più anziani. Anziani che siedono sui gradini delle strade deserte e portano, sulle spalle curve, vecchi fucili.

Alcune famiglie hanno figli e figlie che combattono nell’Unità di Protezione Popolare, la milizia di autodifesa curda, e dunque rimangono nelle loro case, ad aspettare la fine dell’assedio dei jihadisti dell’ISIS. Mentre migliaia di persone sono in attesa sul confine turco-siriano di Mursitpinar. Sperano nella via di fuga dei campi rifugiati.

I jihadisti oggi controllano circa il  25% della città, ma la vita dei civili curdi nel resto di Kobane resta estremamente difficile,  tra rabbia, incertezza  ma anche tanta fierezza. Nena News

Nena News Agency “FOTO. Nena News dentro Kobane” – di Federica Iezzi

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La storia di Majeda, a Bourj el-Barajneh lontano da Gaza

Nena News Agency – 13 novembre 2014

Nella vicenda di Majeda c’è anche la storia di questo campo profughi situato nella periferia sud di Beirut e che accoglie ufficialmente 28.000 palestinesi. Ma negli anni curdi, siriani, iracheni e libanesi poveri vi hanno trovato accoglienza, facendone uno dei più sovraffollati

 

Beirut - Burj el-Barajneh refugees camp

Beirut – Burj el-Barajneh refugees camp

 

di Federica Iezzi

Beirut, 13 novembre 2014, Nena News – Majeda ha le mani segnate dai duri inverni nei campi profughi. Scure, screpolate, rugose. Le ferite si aprono quando le piega. Sanguinano e quel sangue racchiude rabbia e impotenza. E’ stata trascinata violentemente e irragionevolmente nella periferia sud di Beirut, nel campo di Bourj el-Barajneh, quando era incinta del suo quarto figlio, Mohamad. Prima viveva con i suoi bambini e con un marito spesso assente per lavoro, a Beit Lahia, nella Striscia di Gaza.

La sua Gaza mi dice che è una terra insanguinata ma bella, solare, viva. E’ la stessa terra dove suo padre ha lavorato, dove ha costruito una casa, dove ha sposato la donna che amava e dove ha cresciuto i suoi nove figli.

L’hanno buttata fuori di casa. Era al settimo mese di gravidanza, con tre figli piccoli che piangevano perchè avevano fame. Ha sanguinato e nessun medico l’ha visitata. Ha partorito a Beirut, nel gelo di un campo profughi, non ancora pronto per accogliere centinaia di persone.

E’ lei che si è accorta che il suo bambino non stava bene. Quando piageva la sua pelle dal colore dell’olivo diventava scura. Mohamed non rispondeva più alle canzoni che cantava Majeda. Non beveva il latte ed era sempre freddo. Era piccolo e non cresceva. Rimaneva accovacciato per terra per tutto il giorno.

Majeda ricorda che centinaia di migliaia di rifugiati palestinesi della Nakba (1948) risiedono in Libano  per di più nei campi, senza diritti politici, economici e sociali. Le strutture, costruite come rifugi temporanei, si sono deteriorate, quasi interamente, nel corso dei decenni: tubi che perdono acqua, nessun sistema di trattamento delle acque reflue, nessuna connessione elettrica. Immondizia e scarichi saturano l’aria.

Ci sono poche aree aperte, nei campi profughi, per parchi giochi, così i bambini giocano per le strade, nei vicoli bui, tra fogne a cielo aperto, canali di scolo e edifici danneggiati. Per certi versi è una piccola città. Nelle tende e nelle case di Bourj el-Barajneh non entra il sole.

Majeda ha nutrito la sua famiglia con meno di 6 dollari al giorno. Solo sopravvivenza. Ha lavorato umilmente come cameriera e cuoca, in un mercato del lavoro fortemente discriminato, racconta. Il pane e il latte era tutto quello che poteva permettersi. Durante le piogge perpetue la sua tenda, insieme a quella di altre 28.000 persone, si riempiva di acqua e fango. Il freddo le entrava nelle ossa e nelle vene.

E come a Bourj el-Barajneh, altri palestinesi, magari vecchi vicini di casa di Majeda, sopportavano la stessa fatalità nei campi di Beddawi, Nahr el-Bared, Ein el-Helweh, Dbayeh, Rashidieh, Mar Elias, Wavel, Shatila, Burj Shemali, El Buss, Mieh Mieh.

Majeda ha scoperto che Mohamed aveva una cardiopatia congenita, gli ha dato sempre le medicine e per comprarle ha rinunciato spesso al suo pasto.

Quando Mohamed compì sei anni ha lottato per mandarlo a scuola. Mi dice che i palestinesi non possono accedere al sistema scolastico pubblico in Libano. E così tutte le mattine lo accompagnava alla scuola dell’UNRWA. La sua classe era composta da 64 bambini.

I bambini rifugiati sono costretti a trovare presto un lavoro, abbandonando le scuole, per portare qualche soldo in più in famiglia. Ma per Mohamed era tutto diverso. Majeda dopo 13 anni, privandosi di ogni privilegio, ha portato suo figlio in ospedale per far guarire il suo cuore. Ci racconta come funziona la sanità nei campi rifugiati palestinesi in Libano: un medico vede in media 117 pazienti al giorno. Non tutti i servizi medici sono forniti in ogni campo. Così i rifugiati possono aver bisogno di visitare un altro campo per analisi, ecografie e radiografie. Ed è quello che è successo a loro, rimbalzati da un campo all’altro, da un ambulatorio all’altro, tra mille scartoffie e parole incomprensibili.

Fino al 1990, quando è finita la guerra civile libanese, il campo di Bourj el-Barajneh è stato centro di duri combattimenti e gli edifici ancora oggi portano cicatrici di pallottole e bombardamenti.

Il campo è imballato in una baraccopoli di circa un chilometro quadrato, con cavi elettrici aggrovigliati che scendono disordinatamente dai tetti dei vecchi fabbricati. Alcuni vicoli restano perennemente al buio. Oggi Majeda e Mohamed vivono in uno di quei vicoli. In un labirinto di stretti viottoli hanno reinventato la loro vita, lontano dal mare della Striscia di Gaza. Nena News

Nena News Agency – “La storia di Majeda, a Bourj el-Barajneh lontano da Gaza” di Federica Iezzi

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L’ebola dove l’ebola non c’è

Nena News Agency 13 novembre 2014

L’allarmismo in Occidente è il più delle volte ingiustificato, piuttosto occorre lavorare bene e aiutare con azioni concrete le popolazioni dell’Africa occidentale a contenere l’epidemia

 

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di Federica Iezzi

Roma, 13 novembre 2014, Nena News – Gli ultimi dati: 13.268 casi di ebola, 4.960 morti tra Guinea, Liberia e Sierra Leone, i Paesi dell’Africa Occidentale, maggiormente colpiti, dall’inizio dell’epidemia. Un caso di contagio e una vittima in Mali, una vittima spagnola, quattro contagi di cittadini statunitensi, con una vittima. Dalla metà di ottobre Nigeria e Senegal, sono stati dichiarati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità “ebola-free”. 42 giorni senza nuovi casi.

Dove la situazione è ancora preoccupante è la Mano River region, tra Guinea, Liberia e Sierra Leone. La febbre emorragica continua ad esplodere, nonostante l’enorme sforzo di gestione e contenimento dei contagi, nonostante l’avvio di esclusive infrastrutture sanitarie, nonostante le martellanti campagne di informazione.

Perché questa enorme propagazione allora? Dal 1976, quando ebola fece la sua prima comparsa a Yambuku, nell’ex Zaire, almeno 29 ripetute e continue epidemie hanno flagellato la terra africana. Ultime solo in ordine di tempo quelle in Congo e Uganda del 2012. Hanno avuto luogo in aree remote, in villaggi isolati. Nessuno si è chiesto perché villaggi senza nome, sono stati totalmente sterminati dal virus, sulle colline a nord-est del Congo o nel distretto di Kibaale nell’Uganda occidentale.

Oggi ebola continua a serpeggiare per un territorio di circa 430 mila chilometri quadrati, abitato da 22 milioni di persone. Persone che oggi hanno la libertà di viaggiare, di spostarsi in città densamente popolate, di entrare in un ospedale per avere accesso a cure mediche.

La trasmissione avviene fra parenti e amici dei contagiati. Con lo scambio parallelo di sangue e fluidi biologici (liquido spermatico, secrezioni vaginali, saliva, urina, vomito). Tramite il diretto contatto con i cadaveri dei defunti o con le persone guarite, contagiose per almeno ulteriori 50 giorni.

A tutti gli operatori sanitari che lasciano i Paesi endemici e rientrano in Italia viene fatta una valutazione del rischio, imposta dal Ministero della Salute, in base ai criteri indicati da OMS ed European Centre for Disease Prevention and Control. A questo si aggiunge l’opinione, spesso fuori luogo, dettata da un certo grado di autonomia, di enti locali e ASL, che possono decidere con una valutazione del rischio identica, di imporre o meno un isolamento.

Se i nostri operatori sanitari nei Paesi africani endemici hanno seguito tutte le norme di tutela e sempre indossato i dispositivi di protezione individuale, il rischio di diffusione al rientro è basso e l’ordinanza, che impone la quarantena, non diventa obbligatoria. Le misure di quarantena forzata per gli operatori umanitari asintomatici, di ritorno dalle aree colpite dal virus ebola in Africa occidentale, non sono fondate su alcuna base scientifica.

I protocolli dunque permetterebbero di tornare ad una vita normale. Anche nella remota possibilità che l’operatore fosse infetto, finché non ci sono sintomi eclatanti come diarrea, vomito o sanguinamenti, non è comunque contagioso per gli altri.

E in tutto questo nessuna nota del ministro della sanità Beatrice Lorenzin.

E allora inizia lo squilibrio: ripercorrere il tragitto in treno o la mappa delle visite nei negozi sotto casa, tenere i figli lontani da scuola e giardini pubblici, obbligare i familiari a restare chiusi in casa.

E mentre si parla di aiutare a non terrorizzare il mondo rispetto ai Paesi africani che stanno vivendo il dramma dell’ebola, l’Italia risponde con misure di isolamento immotivate. E con misure sproporzionate di sorveglianza negli aeroporti, ricordando tra l’altro, che l’Italia, a differenza di altri Paesi Europei, non ha collegamenti aerei diretti con i Paesi endemici africani.

E le conseguenze dell’ebola dove non c’è l’ebola sono disastrose. In Gambia, 700 chilometri dai focolai del virus, 50-60% in meno di turisti. In Kenya, 7.900 chilometri dalla Sierra Leone, turismo sceso del 75-80%. Crollano anche i viaggi in Sudafrica, 9.500 chilometri dalla Guinea. Nena News

Nena News Agency – “L’ebola dove l’ebola non c’è” di Federica Iezzi

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Burkina Faso: il “paese degli uomini integri”

Nena News Agency – 03 novembre 2014

Si sono conclusi con tumulti, proteste, incendi e devastazioni i 27 anni del Governo Compaorè. Il nuovo leader del Paese, in attesa delle elezioni, è il capo dell’esercito, il generale Honorè Traorè Nabèrè. Ma il popolo sogna un nuovo Sankara

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di Federica Iezzi

Ouagadougou (Burkina Faso), 3 novembre 2014, Nena News – “Le pouvoir au peuple. La révolution en marche” urlano ancora alla Place de la Nation di Ouagadougou i giovani rivoluzionari che hanno nel sangue l’essenza del “Président du Faso”, come viene ancora oggi ricordato dai burkinabè Thomas Sankara.

La disobbedienza popolare contro il regime eterno di Blaise Compaoré è diventata rivoluzione meno di una settimana fa quando l’Assemblée Nationale ha deciso di votare il progetto di legge di modifica della Costituzione.

Rettifica che, se riformata, avrebbe permesso a Compaorè – pilastro della Françafrique e uomo ricevuto con tutti gli onori anche nel nostro Paese – di concorrere per un altro mandato presidenziale.

La rabbia del giovane popolo della terra degli “uomini integri”, nella serata di ieri, ha decretato l’arresa di Compaorè. Dopo 27 anni di dominio indiscusso, dunque, si conclude il quarto mandato del padre padrone del Burkina Faso. Si conclude quel regime che ha dato lavoro, occupazione e privilegi soltanto ai pochi membri della classe signorile burkinabè. Si conclude il circolo vizioso di miseria ed ingiustizia dalle quali il Burkina Faso era uscito con il breve governo rivoluzionario di Sankara.

La storia del Burkina Faso ha inizio negli anni ottanta quando il capitano dell’esercito voltaico Thomas Sankara giunge al potere con un colpo di stato incruento che portò alla destituzione dell’allora presidente Jean-Baptiste Ouédraogo. Sankara divenne presidente e Compaoré il suo vice. L’ex colonia francese Alto Volta divenne Burkina Faso che nei dialetti locali moré e dioula significa “paese degli uomini integri”.

Una storia che sembra la mera ripetizione delle colonizzazioni occidentali in Africa e dei passi per la conquista dell’indipendenza.

Il colpo di Stato del 1983 rappresenta invece una caratteristica anomalia nel contesto africano.

Sankara trovò un Alto Volta assediato dalla desertificazione e dalla carestia. Ereditò un Paese che da decenni conviveva con colpi di stato, scioperi selvaggi, una miseria dilagante, analfabetismo, carenza di risorse e da un ripetuto intervento militare in politica. Un Paese con tasso di mortalità infantile del 187 per mille, di alfabetizzazione al 2%, speranza di vita di soli 44 anni, un medico ogni 50.000 abitanti.

In soli quattro anni il suo Governo portò avanti serrate campagne di vaccinazione contro morbillo, meningite e febbre gialla. Enormi apprezzamenti dall’UNICEF per l’immunizzazione del 60% dei bambini del Paese in meno di tre settimane. In ogni villaggio, nuove scuole. E la percentuale di bambini scolarizzati del Burkina Faso salì di un terzo.

Ad Addis Abeba Sankara, di fronte all’intera conferenza dell’Organizzazione per l’Unità Africana, invitò i Paesi africani a non pagare il debito estero per permettere alla politica economica di colmare il ritardo imposto da decenni di dominazione coloniale.

Nel 1987 Blaise Compaoré salì al potere grazie a un feroce colpo di Stato finanziato dalla Francia, dalla Libia e dagli Stati Uniti e sostenuto dai signori della guerra di Liberia e Ciad. Sankara fu ucciso e negli anni seguenti Compaoré fu accusato di essere coinvolto nel suo omicidio. Il complotto fu organizzato per consentire a Nazioni fortemente industrializzate di poter continuare ad attingere, a costo bassissimo, alle risorse naturali del Burkina Faso: oro, rame, nichel, piombo.

In 27 anni di Blaise Compaorè si è assistito al silenzioso sostentamento di gruppi ribelli ivoriani e maliani, al coinvolgimento del Burkina Faso nel traffico di diamanti provenienti dalla Sierra Leone, ad alleanze con il sanguinario liberiano Charles Taylor e con l’incontrastato presidente del Ciad, Idriss Déby. E dal 2007 Oagadougou è anche base militare statunitense.

Sotto Compaoré il Burkina Faso è stato uno dei Paesi con reddito pro capite più bassi del mondo e con un livello di disparità sociale tra i più elevati. Nena News

Nena News Agency – Burkina Faso: il “paese degli uomini integri” – di Federica Iezzi

Discorso sul debito dei paesi del terzo mondo di Thomas Sankara alla venticinquesima conferenza dell’Organizzazione per l’Unità Africana – Addis Abeba 29 Luglio 1987

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