UNICEF. Un milione e mezzo di bambini rischiano la morte da malnutrizione

Nena News Agency – 22/04/2017

Somalia, Nigeria, Sud Sudan e Yemen soffrono gravissime carestie, dovute alla guerra ma con origini diverse: territori occupati da gruppi jihadisti, conflitti, errori della comunità internazionale, siccità, blocchi aerei

Sud Sudan

di Federica Iezzi

Roma, 22 aprile 2017, Nena News – I bambini. Sono sempre loro a pagare le conseguenze peggiori di guerre, carestie e disastri naturali in varie aree del mondo. In TV li vediamo spaventati, con gli occhi incavati e persi nel vuoto, spesso soli. Eppure il cosiddetto mondo sviluppato volge lo sguardo dall’altra parte e preferisce non sapere che più di un milione di neonati e bimbi rischiano realmente di morire di fame.

L’allarme arriva diretto dall’UNICEF. Almeno un milione e mezzo di bambini tra Somalia, Nigeria, Sud Sudan e Yemen, risultano a rischio di morte imminente da malnutrizione. E più di 20 milioni di persone si troveranno ad affrontare la fame nei prossimi sei mesi.

La grave catastrofe provocata da malnutrizione e carestia, che oggi stringe questi paesi, risulta in gran parte provocata dagli scorretti atteggiamenti umani. Un’azione più veloce è prerogativa irrinunciabile per non permettere che si ripeta la tragica carestia che colpì il Corno d’Africa nel 2011 e che solo in Somalia uccise 250mila persone.

Nello Yemen, dove la guerra ha imperversato per più di due anni, 462mila bambini soffrono di malnutrizione. Non ancora dichiarato lo stato di carestia, lo Yemen fa i conti con 27 milioni di persone nel limbo dell’insicurezza alimentare. Tre milioni di persone soffrono di malnutrizione acuta, di cui più di due milioni sono bambini.

Il destino per altri 500mila bambini è ancora peggiore: malnutrizione acuta grave. Secondo l’Unicef si è assistito ad un aumento del 200% rispetto al 2014. Anche prima del conflitto interno, lo Yemen era costretto a fronteggiare la difficoltà della fame cronica. Ma era un problema, per la maggior parte, gestibile, visto che le agenzie umanitarie riuscivano a muoversi per il paese con relativa facilità.

L’economia è ora in piena caduta libera, con l’80% delle famiglie in debito. Il costo del cibo è elevato visto che i ritardi e le cancellazioni di voli commerciali e viaggi con navi mercantili sono all’ordine del giorno.

Almeno 450mila bambini sono gravemente malnutriti nel nord-est della Nigeria, territorio minato dei jihadisti di Boko Haram, che non permettono ancora l’ingresso di convogli umanitari. La crisi nigeriana è una crisi sia di finanziamento che di accesso. L’emergenza è stata lenta a rivelare la sua vera dimensione. Boko Haram aveva il controllo di gran parte del nord-est fino al 2014 e poco si sapeva dei bisogni dei civili intrappolati in quelle zone. E le zone rurali ancora oggi rimangono inaccessibili. Inoltre rimane il problema dell’insicurezza alimentare dei 1,8 milioni di sfollati interni nei tre stati del nord-est di Adamawa, Borno e Yobe.

La siccità in Somalia ha lasciato 185mila bambini sull’orlo della fame, cifra destinata a salire fatalmente. Anche qui, si osservano reazioni al rallentatore da parte della Comunità Internazionale. Vaste aree del Paese in cui la crisi alimentare tocca livelli preoccupanti e dove i guerriglieri di al-Shabab sono l’autorità de facto, sono classificate come ‘no-go zone’ per quasi tutte le agenzie umanitarie, a cui viene negato il permesso di accesso e di lavoro.

In Sud Sudan oltre 270mila bambini sono malnutriti. Già invocato da ONU e governo locale lo stato di carestia in alcune zone a nord del paese, in cui vivono più di 20mila bambini. Il paese è un mosaico sconcertante di gruppi armati, tra le fazioni ribelli, l’esercito e le milizie governative. E tutte le parti sembra si siano impegnate in uccisioni di massa a sfondo etnico. E le uniche scelte in mano alle agenzie umanitarie sono state le misure straordinarie negli interventi, spesso senza un programma concreto alle spalle.

Attualmente le aree a rischio di fame potrebbero avere una possibilità di scongiurare una catastrofe, se l’accesso umanitario rimanesse protetto e rispettato, secondo una dichiarazione dell’UNOCHA.

Sono già in programma visite da parte degli ambasciatori del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nel nord della Nigeria, in Camerun, Ciad e Niger, con il fine comune di evitare il ripetersi di una delle più gravi carestie di sempre, che colpì l’Etiopia nei primi anni ‘80. Dopo anni di siccità consecutivi, la dittatura militare di Mengistu, ha visto morire di stenti più di un milione di civili.

E in quegli anni l’attenzione della comunità internazionale si concentrò sull’impedire spedizioni di aiuti umanitari nelle aree controllate dai ribelli, che condusse definitivamente l’Etiopia al baratro.

Più di tre decenni più tardi, il rischio per Somalia, Nigeria, Sud Sudan e Yemen è il medesimo. Da cosa è sorretto il rischio? La risposta più semplice è il conflitto, che accomuna le storie dei quattro Paesi. Queste quattro carestie hanno somiglianze ma origini diverse. Diverse traiettorie. E le esigenze di conseguenza sono differenti.

Evitare una catastrofe umanitaria è solo una parte della battaglia. Ideare una strategia di risposta corretta e assicurare l’accesso necessario in zone dove la guerra entra complessa e frammentaria sono la vera sfida.

L’assistenza di emergenza aiuta solo se le persone che possono accedervi. Molto maggiore dovrebbe essere l’accento sulle contrattazioni diplomatiche nell’impegno della risoluzione dei conflitti, alcuni dei quali trascinati per anni, e per i quali qualsiasi metodo di assistenza umanitaria non risulta altro che un palliativo. Nena News

Nena News Agency “UNICEF. Un milione e mezzo di bambini rischiano la morte da malnutrizione” di Federica Iezzi

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Repubblica Democratica del Congo. Kabila: elezioni nel 2017? Si, forse

Nena News Agency – 20/04/2017

L’opposizione riunita nel Rassemblement Congolais pour la Démocratie accusa Kabila di ritardare il voto per tentare di rimanere al potere. Il governo risponde che mancano i fondi per organizzare le elezioni

UN RDC

di Federica Iezzi

Roma, 20 aprile 2017, Nena NewsIl presidente della Repubblica Democratica del Congo Joseph Kabila si è impegnato a tenere nuove elezioni nel 2017, alla fine di una brutale insurrezione nel centro del Paese. Tuttavia le figure dell’opposizione del Rassemblement Congolais pour la Démocratie, accusano Kabila di ritardare il voto per tentare di rimanere al potere. La risposta del governo è stata quella della mancanza di fondi per organizzare un voto nazionale.

Ma perché il presidente avrebbe deciso di aggrapparsi al potere alla scadenza del suo termine costituzionale, nel dicembre 2016? Perché l’uomo che ha organizzato le due elezioni multipartitiche della Repubblica Democratica del Congo appena dopo l’indipendenza, ha scelto caos e instabilità? Perché non ha capitanato il primo trasferimento pacifico del potere del Congo che sarebbe potuta rimanere la sua più grande eredità?

Intanto Kabila ha nominato come primo ministro Bruno Tshibala, ex membro del più grande partito di opposizione, una mossa che potrebbe dividere ulteriormente gli avversari, dopo che i colloqui per negoziare la fine del suo mandato presidenziale, si sono freddati.

Nel discorso strettamente legato a questa mossa, Kabila ha ribadito, innanzitutto, di non ricercare un terzo mandato, inoltre di non voler alterare la costituzione del Congo e di impegnarsi per liberare i prigionieri politici del Paese. In cambio, il Rassemblement ha accettato di formare un governo di unità nazionale, scegliere un primo ministro, organizzare elezioni libere e giuste, garantire un trasferimento di potere regolare e non violento alla fine del 2017.

Gli oppositori di Kabila, importante fetta del governo congolese dall’assassinio del padre Laurent-Désiré Kabila nel 2001, sospettano un ripetuto ritardo delle elezioni, utile ad organizzare un referendum che consenta legalmente un suo terzo mandato, come hanno fatto i suoi omologhi nel Rwanda, nello Zimbabwe, nel Gabon.

La tesi di Bernabe Kikaya, consigliere diplomatico di Kabila, sostiene che il Presidente rimarrebbe al potere, a dispetto della costituzione del Congo, per evitare una crisi politica. La ragione reale, che si sospetta tra le opposizioni, è che Kabila avrebbe scelto di aggrapparsi al potere perché sarebbe responsabile del coinvolgimento governativo in guerre e conflitti, cause della morte di oltre cinque milioni e mezzo di civili congolesi, nel decennio 1998-2008. In questo contesto, è piuttosto difficile pensare a una ragione per cui Kabila voglia rinunciare al potere, se non forzato.

Ed è ancora più difficile immaginare di voler consentire la creazione di un governo transitorio guidato da Felix Tshisekedi, la scelta del Rassemblemt come capo di Stato, in cui figure di opposizione potrebbero avere importanti ruoli ministeriali, tra cui il potere di nominare un nuovo capo della polizia, dell’esercito, dell’intelligence, della corte suprema, della commissione elettorale e degli ambasciatori. Tutte posizioni attraverso le quali Kabila è riuscito a governare il Congo come il suo feudo privato.

Allora quali sono le ragioni che reggono la fiducia a Joseph Kabila? La prima è legata alla Francia. L’Unione Europea non potrebbe imporre sanzioni sulla Repubblica Democratica del Congo, per non perdere il veto francese sulle loro ex-colonie africane, ognuna delle quali traghettate da un dittatore.

La seconda delle ragioni è la Casa Bianca. Gli Stati Uniti hanno recentemente deciso di tagliare il numero delle truppe ONU in Congo e hanno rifiutato di intraprendere azioni punitive contro Kabila. Nena News

Nena News Agency “Repubblica Democratica del Congo. Kabila: elezioni nel 2017? Si, forse” di Federica Iezzi

 

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SUD SUDAN. Quando l’aiuto umanitario alimenta la guerra

Nena News Agency – 07/04/2017

La crisi umanitaria in Sud Sudan ha raggiunto misure di estrema gravità ma la risposta internazionale appare guidata da preoccupazioni di politica estera, ripercorrendo una storia già vista in Afghanistan, Darfur, Bosnia, Rwanda

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di Federica Iezzi

Roma, 7 aprile 2017, Nena News – Chi viene davvero sostenuto dagli aiuti umanitari in Sud Sudan? La risposta della Comunità Internazionale spesso è stata guidata non dalle reali condizioni umanitarie ma da preoccupazioni nazionali e di politica estera, ripercorrendo una storia già vista in Afghanistan, Darfur, Bosnia, Rwanda.

La definiscono politicizzazione dell’assistenza umanitaria. In realtà non è altro che una continua scelta di schieramento.

La crisi umanitaria in Sud Sudan ha raggiunto misure di estrema gravità. Insicurezza sulle istituzioni, povertà, cattiva salute, spostamenti di massa di civili e orrendi abusi dei diritti umani hanno lasciato un quadro interno di inazione politica.

Il numero di persone in fuga dal Sud Sudan ha raggiunto il picco di 1,5 milioni di rifugiati. La maggior parte dei rifugiati è accolta dall’Uganda, dove sono arrivate circa 698.000 persone. L’Etiopia ne accoglie circa 342.000, mentre oltre 305.00 sono accolte in Sudan, circa 89.000 in Kenya, 68.000 nella Repubblica Democratica del Congo e 4.900 nella Repubblica Centrafricana. A questi si aggiungono altri 2,1 milioni di sud-sudanesi sfollati all’interno del Paese. Almeno 7 milioni e mezzo di civili sono dipendenti da aiuti umanitari. Più di un milione di bambini sotto i cinque anni soffre di malnutrizione grave. E più di 300.000 sono i morti,dall’inizio del conflitto nel 2013.

Non c’è alcun dubbio che l’aiuto umanitario è carico di controversie e imparzialità politiche ed etiche enormi. Come ci si può assicurare che gli aiuti non vadano ad alimentare il conflitto, che non diventino il mezzo per discriminare le stesse persone che si cerca di aiutare?

Di fronte al dilemma di alimentare un’economia di guerra o di sostenere strategie politiche o peggio militari, l’essenziale interesse è quello di preservare lo spazio umanitario. Anche se questo comporta una programmazione minimalista degli aiuti.

Infatti, una volta che le esigenze di emergenza della popolazione vengono soddisfatte, addirittura si dovrebbe decidere di revocare l’aiuto umanitario, qualora avesse una forte possibilità di prolungare la guerra. Questo è stato per esempio il caso degli aiuti umanitari nei campi profughi rwandesi in Congo e in Tanzania, bloccati nel 1994. O il caso degli aiuti umanitari sospesi ai Khmer Rossi lungo il confine tra Thailandia e Cambogia, negli anni ‘80. O ancora il caso degli aiuti umanitari utilizzati come strumento per coprire le brutali politiche di migrazione forzata messe in atto dal regime di Menghistu in Etiopia. Il dilemma rimane da anni lo stesso: ‘come sostenere le vittime senza fornire anche un aiuto ai loro aguzzini?’.

La difficoltà è quella di costruire un consenso su quando e dove tracciare la linea di demarcazione. L’Operazione Lifeline nata nel lontano 1989 in Sud Sudan, tra le agenzie delle Nazioni Unite e almeno 35 organizzazioni non governative internazionali, con lo scopo di garantire aiuti umanitari alla popolazione vulnerabile, ha ripetutamente fallito la sua missione. Non sono state affrontate le carenze strutturali del regime di aiuti, non sono state garantite valutazioni umanitarie indipendenti, non è stato tutelato il monitoraggio.

I mandati di molte ONG sono rimasti offuscati tra lo strettamente umanitario e la raccolta di informazioni politiche, il monitoraggio dei diritti umani, il ruolo non ufficiale nella conduzione del conflitto. Si è persa l’assistenza indipendente e imparziale.

C’è da porsi diverse domande sul Sud Sudan.

In primo luogo va esaminato il rapporto tra le organizzazioni di soccorso e la missione di peacekeeping delle Nazioni Unite (UNMISS), che ad oggi ha preso circa 200.000 minoranze etniche sotto la sua protezione, nei tentacolari campi sorvegliati. I gruppi di soccorso hanno acriticamente accettato la politica delle Nazioni Unite di sostenere i civili in questi ghetti etnici, per lo più situati in aree remote, con strade dissestate e cattiva sicurezza. L’ONU insiste sul ritenerli siti temporanei. Ma molti di questi campi sono stati utilizzati per scopi politici precisi, che li rendono improbabilmente smantellabili. Ad esempio, quello nella città settentrionale di Bentiu è il risultato di una campagna militare mirata a spopolare le aree produttrici di petrolio e a distruggere il cuore del gruppo etnico dei Nuer. Le organizzazioni umanitarie che forniscono servizi all’interno di siti di protezione UNMISS sono dunque complici nel fornire un falso senso di sicurezza agli abitanti.

Le organizzazioni umanitarie hanno per anni sostenuto in maniera involontaria l’assetto di guerra del governo sud-sudanese. Con l’offerta di servizi sociali nelle zone controllate dal governo, per esempio, che hanno consentito al governo stesso di spendere la maggior parte dei suoi ricavi sul fronte militare, senza affrontare i problemi che continuano a schiacciare la popolazione civile.

E ancora, le scuole nei campi interni non sono istituzioni di apprendimento formale, ma sono semplicemente spazi di apprendimento temporanei, dove gli insegnanti sono volontari. Di fatto, si contribuisce a creare un sistema di segregazione, rafforzando lo slancio verso la ghettizzazione permanente e le divisioni sociali durature. Nena News

Nena News Agency “SUD SUDAN. Quando l’aiuto umanitario alimenta la guerra” di Federica Iezzi

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