CONGO. La parabola di Mobutu, il golpista anticomunista voluto dagli USA e poi detronizzato

Nena News Agency – 30/07/2020

Usato dal Belgio e dalla CIA per sostituire Lumumba, governò il paese con la violenza delle torture e la corruzione. Ma con la caduta dell’URSS, non serviva più. E Washington l’ha costretto al ritiro con una guerra

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Mobutu Sese Seko – ex Zaire, oggi Repubblica Democratica del Congo

di Federica Iezzi

Roma, 30 luglio 2020, Nena News – È il più grande Paese dell’Africa sub-sahariana, la Repubblica Democratica del Congo, ed è uno dei più poveri e sofferenti del mondo, e più pericolosamente vicini allo stato di fallimento.

Sebbene vaste porzioni della Repubblica Democratica del Congo siano pacifiche, le parti nord-orientali della Nazione sono in uno stato di conflitto di basso livello dalla fine della guerra fredda, con sconvolgimenti politici, disordini civili e movimenti secessionisti.

Per 32 anni l’ex-Zaire, oggi Repubblica Democratica del Congo, è stato nelle mani di Mobutu Sese Seko Kuku Ngbendu Wa Za ​​Banga, considerato pilastro di pragmatismo e buon senso. Nato a Lisala, nell’estremo nord-ovest dell’allora Congo-Kinshasa, si arruolò giovanissimo nell’esercito belga. Proprio grazie alle armi conobbe i principali politici congolesi di fine anni ’50, tra cui Patrice Lumumba, l’allora primo ministro del Congo, con cui si unì al Mouvement National Congolais (MNC).

L’ascesa meteorica di Mobutu al potere arrivò durante la crisi del Congo nei primi anni ’60. Il Paese era appena emerso dalla catastrofe del dominio belga. Re Leopoldo II, probabilmente il più illustre di tutti i colonialisti, lo trasformò in un feudo personale, uccidendo e schiavizzando la popolazione per arricchirsi di avorio e gomma.

L’esercito aveva il compito di impedire la secessione delle province ricche di minerali di Katanga e Kasaï. Nello stallo politico, quando la Cia aiutò il Belgio ad assassinare Lumumba, Mobutu prese il potere con un colpo di stato.

Gli ambasciatori statunitensi e britannici sostennero il dittatore, come un sincero anticomunista e la migliore speranza per il futuro del Congo. Gli Stati Uniti hanno continuato a considerare Mobutu un utile alleato sia contro il comunismo globale sia contro i movimenti radicali dell’Africa. Era vitale per gli sforzi dei ribelli dell’Unita (Unione Nazionale per l’Indipendenza Totale dell’Angola), sostenuti dagli Stati Uniti, nell’atto di rovesciare il governo Mpla (Movimento Popolare di Liberazione dell’Angola) di sinistra, nella vicina Angola.

La Zaïrianisation, la politica incostituzionale di Mobutu di nazionalizzare le industrie e distribuire contratti redditizi ai suoi alleati, si rivelò da subito catastrofica. E l’economia del Paese venne scaraventata verso un rapido e paralizzante declino. Il regime di Mobutu trovò negli Stati Uniti il patrocinio necessario a sopravvivere di fronte al collasso economico. Gli stessi Stati Uniti hanno contribuito a incanalare i prestiti della Banca Mondiale e i crediti del Fondo Monetario Internazionale al governo di Mobutu.

Mobutu ha continuato con una combinazione machiavellica di omicidi, detenzioni arbitrarie, violazione dei diritti umani e torture da un lato e corruzione, eccessi e sontuosità dall’altro.

Al termine della guerra fredda, quando l’Unione Sovietica crollò, Mobutu non era più utile agli Stati Uniti, per cui invece di sostenere il regime autocratico congolese, gli Stati Uniti imposero gravi pressioni su Mobutu per una democrazia multipartitica. Come atto finale Paul Kagame, leader del Rwanda, usò l’avversario congolese di lunga data di Mobutu, Laurent Kabila, per fronteggiare il movimento Alliance des Forces Democratiques pour la Liberation du Zaire (ADFL-Z), che avrebbe fatto crollare il governo Kinshasa e detronizzare Mobutu.

L’esercito utilizzò questo vuoto di potere per scatenare la follia nel Paese a partire dal settembre 1991. Le forze armate del Ruanda, e i suoi alleati Uganda e Burundi, combatterono ferocemente contro l’esercito congolese, appoggiato da Angola, Ciad, Namibia, Sudan e Zimbabwe. Joseph Kabila, figlio di Laurent Kabila, fu l’unico leader a contribuire ad un accordo di pace, guidato dalle Nazioni Unite nel 2002, che ha lasciato nel Paese una profonda instabilità.

Il Paese sembra traghettato verso una regressione al passato violento, piuttosto che verso un futuro progressista. I negoziati sulla transizione verso un’era davvero democratica non dovrebbero limitarsi al dialogo tra i soli politici ma dovrebbero incoraggiare un processo di rimodellamento completo della politica nazionale. Nena News

Nena News Agency “CONGO. La parabola di Mobuto, il golpista anticomunista voluto dagli USA e poi detronizzato” di Federica Iezzi

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Repubblica Centrafricana: una storia di violenza e repressione all’ombra di Parigi

Nena News Agency – 23/07/2020

L’ex presidente Jean-Bedel Bokassa resta il simbolo di repressione  e crudeltà ma la fine del suo potere è stata seguita da decenni di investimenti insufficienti, corruzione, sfruttamento, guerre civili e non meno di quattro colpi di stato

Repubblica Centrafricana – Jean Bedel Bokassa

di Federica Iezzi

Roma, 23 luglio 2020, Nena News – L’instabilità politica e la debolezza amministrativa sono state caratteristiche permanenti della Repubblica Centrafricana sin dalla sua indipendenza. Questa è, quindi, la storia di un crollo predetto.

Mentre la Repubblica Centrafricana di Touadéra oggi barcolla attraverso la peggiore violenza della sua storia, l’ex presidente Jean-Bedel Bokassa rimane il paradigma dell’eccesso e della crudeltà, nella tragicità di questo Paese. Combattente nell’esercito francese, Bokassa poco più che ragazzino ha partecipato allo sbarco alleato in Provenza e combattuto in Indocina e in Algeria. Pluridecorato in battaglia, le è stata conferita infine la nazionalità francese.

Con l’appoggio di Parigi il dittatore si autoproclamò presidente della Repubblica Centrafricana nel 1966.

Aumentò l’estrazione dell’uranio e dell’oro, realizzò considerevoli infrastrutture, costituì l’assemblea nazionale, migliorò università e ospedali, richiamando investitori internazionali. Allo stesso tempo, portò avanti una selvaggia serie di torture e omicidi ai danni degli oppositori e dei rivali politici. Niente di tutto ciò ha impedito la stretta amicizia di Bokassa con Valéry Giscard d’Estaing, ministro delle finanze francese nei primi anni ’70, poi presidente francese dal 1974 al 1981.

Nel 1977, Bokassa si dichiarò imperatore del Paese dell’Africa equatoriale e la cerimonia di incoronazione è ricordata in quanto costò l’equivalente di tutti gli aiuti allo sviluppo francesi per quell’anno. La Francia provò una certa lealtà nei suoi confronti, non vedendo alcuna alternativa a lui, nonostante le sue straordinarie idiosincrasie.

Bokassa sfruttò l’alleanza francese per reclutare armi e aiuti internazionali, nettare del suo regime corrotto. In cambio, la Francia di Giscard, sfruttò avidamente l’uranio della Repubblica Centrafricana per alimentare l’industria nucleare francese. Dopo soli due anni, mentre Bokassa era in visita in Libia, Giscard inviò le forze speciali francesi a deporlo e quindi costringerlo all’esilio.

La Repubblica Centrafricana sulla scena internazionale è raccontata come uno dei Paesi più poveri e più deboli dell’Africa. Negli ultimi anni improvvisamente ha ricevuto più attenzione internazionale per il conflitto settario che lo tormenta e che vacilla sull’orlo del genocidio. Sebbene ora governato da un presidente eletto democraticamente, Faustin-Archange Touadéra, il Paese è ancora devastato dalla violenza.

La fine dell’impero di Bokassa è stata seguita da decenni di investimenti insufficienti, corruzione, sfruttamento, guerre civili e non meno di quattro colpi di stato. Michel Djotodia, guida dell’Union des Forces pour le Rassemblement Démocratiques e membro di séléka, partito rivoluzionario centrafricano che dal 2012 ha preso il potere nella Repubblica Centrafricana, si è insediato come primo sovrano musulmano del Paese, estromettendo l’allora presidente François Bozizé, che proveniva invece dalla maggioranza cristiana, anti-balaka.

Da quel momento le milizie delle due comunità religiose hanno alimentato un conflitto sanguinario, che ha prodotto quasi 950.000 sfollati interni, di cui quasi 500.000 solo nella capitale Bangui. I 5.500 peacekeepers internazionali francesi e dell’Unione Africana, sono sembrati semplicemente troppo pochi per far fronte ad una guerriglia armata di milizie che si dispiegava furiosamente attraverso i villaggi.

Il palcoscenico era pronto per un conflitto settario bollente. Quindi, ciò che era iniziato come una ribellione contro una presidenza corrotta e dispotica è finito come violenza comunitaria settaria, dove né Unione Africana, né Francia ha ristabilito ordine e legge.

Le Nazioni Unite hanno recentemente annunciato un ampliamento del dispiegamento delle forze di pace, portando la coalizione multinazionale a 12.000 unità. La base di lavoro è quella di elezioni politiche credibili e una nuova costituzione che garantisca protezione e garantisca la rappresentanza politica per entrambe le comunità religiose. Senza dimenticare il taglio netto del sostegno finanziario ai gruppi ribelli, proveniente da diamanti e avorio illegalmente esportati dal Paese. Un maggiormente controllato sistema di certificazione del Kimberley Process per riesaminare l’approvvigionamento di diamanti, contribuirebbe a fermare la vendita impetuosa e irregolare. Così come una meticolosa sorveglianza dei bracconieri sopprimerebbe il commercio nero dell’avorio. Nena News

Nena News Agency “Repubblica Centrafricana: una storia di violenza e repressione all’ombra di Parigi” di Federica Iezzi

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UGANDA. Dall’indipendenza dalla Gran Bretagna al regno del terrore di Idi Amin

Nena News Agency – 17/07/2020

Pedina in varie occasioni della guerra non dichiarata tra il mondo arabo e l’Occidente, il Paese africano ha avuto a partire dagli anni ’60 ottime relazioni con Israele con cui, dopo la rottura diplomatica ai tempi della dittatura di Amin, mantiene tuttora ottimi rapporti

The Unseen Archive of Idi Amin

Uganda, The unseen archive of Idi Amin

di Federica Iezzi

Roma, 17 luglio 2020, Nena News – Cuore verde dell’Africa orientale, l’Uganda è attualmente alle prese con il compito di riunire una vasta gamma di gruppi di minoranze etniche in uno stato-nazione, deciso e imposto da vecchi confini geografici, disegnati dai padroni coloniali inglesi, causa negli anni di duri conflitti.

Il Paese oggi non è in pericolo di rinnovata guerra civile o violenza ribelle, ma rischia di scivolare in una crisi politica che potrebbe minacciare la stabilità conquistata negli anni. Kampala si destreggia tra politiche di patrocinio inefficienti, una spirale discendente di governance in declino, scarsi risultati economici e insicurezza locale.

Dopo 20 anni di conflitti e lo sfollamento di circa due milioni di persone, durante il mandato dell’ultima presidenza autocratica di Yoweri Museveni, l’Uganda divenne di nuovo una pedina nella guerra apparentemente infinita e non dichiarata tra il mondo arabo e l’Occidente. Nel 1994, l’amministrazione Clinton iniziò a finanziare in aiuti militari l’Uganda e altri Paesi africani, per destabilizzare i governi di matrice araba.

In cambio, l’attuale leader ugandese ha ricevuto tolleranza dai Paesi occidentali, in violazioni dei diritti umani, brogli elettorali, torture e uccisioni di sostenitori dell’opposizione. Tradizione angosciante tra i leader occidentali di confondere l’abuso e la repressione per motivi di sicurezza, con la normalità.

Tra i Paesi occidentali, Israele ha avuto sicuramente un rapporto speciale con l’Uganda, già dall’indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1962. A partire dagli anni cinquanta, David Ben-Gurion, allora Primo Ministro israeliano, cercò partenariati strategici con gli stati ai margini del mondo arabo, compresi Uganda, Kenya, Iran e Turchia, per contrastare le nazioni ostili ai confini di Israele. Come parte di quella che divenne nota come la ‘dottrina periferica’, Israele addestrò ed equipaggiò i militari dell’Uganda e realizzò progetti di costruzione, di agricoltura e di sviluppo.

Le relazioni dell’allora demagogo presidente Idi Amin con Israele si inasprirono, dopo che Israele si rifiutò di vendere aerei da combattimento a Amin con i quali, il leader sperava di bombardare la Tanzania, dove l’ex presidente ugandese Obote stava sollevando un esercito ribelle.

Amin si rivolse alla Libia di Gheddafi, che accettò di vendere armi agli ugandesi, ma solo se quest’ultimo avesse rotto i legami con Israele. Dunque l’impulsività bizzarra di Amin espulse prontamente tutti gli israeliani dal Paese e installò l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina nell’ex-ambasciata israeliana. La religione islamica divenne un feticcio per questo uomo squilibrato, e la sua schietta trasgressione ne fece un grave danno alla causa musulmana in Africa.

Ma quale è stata la vita e quali le miserie di Idi Oumee Amin Dada?

Nato a Koboko, nell’Uganda nordoccidentale, da padre Kakwa e madre Lugbara, Idi Amin si unì presto ai King’s African Rifles (KAR), un reggimento dell’esercito coloniale britannico, con cui combattè in Somalia contro i ribelli Shifta e in Kenya nella repressione della rivolta Mau Mau.

Dittatore spietato la cui ascesa al potere fu facilitata dalle autorità coloniali britanniche, estremamente carismatico e abile, ottenne il grado di ‘effendi’, la posizione più alta per un soldato dell’Africa nera all’interno del KAR, e fu presto nominato comandante delle forze armate.

Dopo oltre 70 anni sotto il dominio britannico, l’Uganda ottenne l’indipendenza nel 1962 e Milton Obote divenne il primo ministro del Paese. Nel 1964, Obote strinse una forte alleanza con Amin, che contribuì ad espandere le dimensioni e il potere dell’esercito ugandese. Nel febbraio del 1966, in seguito alle accuse secondo cui Obote e Amin erano responsabili del contrabbando di oro, caffè e avorio, scambiati per armi, nell’attuale Repubblica Democratica del Congo, Obote sospese la costituzione e si autoproclamò presidente esecutivo.

Obote iniziò a mettere in discussione la lealtà di Amin e durante una sua breve assenza, Amin, attraverso un colpo di stato, prese il controllo del Paese costringendo Obote all’esilio.

Una volta al potere, Amin iniziò le esecuzioni di massa su Acholi e Lango, tribù cristiane fedeli a Obote e quindi percepite come una minaccia. Attraverso forze di sicurezza interne da lui organizzate, come lo State Research Bureau (SRB) e la Public Safety Unity (PSU), ha di fatto eliminato chiunque si opponesse al suo regime.

Nel 1979 il regno del terrore di Amin terminò quando gli esiliati ugandesi e tanzaniani presero il controllo della capitale Kampala, costringendo il dittatore a fuggire. L’amministrazione di Kijambiya (‘macellaio’ come gli ugandesi chiamavano Amin) ha governato l’Uganda con il fervore e l’energia di una campagna militare. Mai consegnato alla giustizia per i suoi atroci crimini, sebbene originariamente cercasse rifugio in Libia, Amin ha trascorso comodamente il resto della sua vita in Arabia Saudita.

La brutalità di Amin, ha suscitato fascino oltre i confini dell’Uganda. Alcuni nazionalisti africani applaudirono i suoi insulti agli europei. Gli arabi radicali libici, guidati da Muammar al-Gheddafi, lo corteggiarono attivamente come alleato, e per un certo periodo lo fece anche l’Unione Sovietica.

I media del governo di Amin facevano parte di uno scintillante ensemble che ha contribuito a creare un’ingannevole narrazione degli eventi. Ecco perché così tanti ugandesi hanno trovato motivo per sostenere il governo di Amin. La presenza di telecamere negli eventi pubblici ha trasformato occasioni banali e accessorie, in una contraffatta cronaca di lotta nazionale.

Oggi, dopo tanta storia, che pochi ugandesi credano che il cambiamento politico avverrà attraverso l’urna elettorale, una rivolta popolare o un dialogo nazionale attendibile non sorprende, dato lo stato dell’opposizione politica, che soffre di carenza di finanziamenti, combattimenti e cooptazione del regime. Nena News

Nena News Agency “UGANDA. Dall’indipendenza dalla Gran Bretagna al regno del terrore di Idi Amin” di Federica Iezzi

 

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AFRICA. Resta alta la tensione in Mali dopo gli scontri dei giorni scorsi

Nena News Agency – 14/07/2020

Di fronte ai disordini, il primo ministro maliano Boubou Cisse ha promesso di formare rapidamente un governo. Mesi dopo le ultime elezioni, il fragile paese dell’Africa occidentale non ha ancora un esecutivo

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Roma, 14 luglio 2020, Nena News – Resta grave la crisi politica che nei giorni scorsi ha scatenato proteste violente in Mali – con 11 morti – guidate dal gruppo M5-RFP (Rassemblement des Forces Patriotiques), una coalizione di leader politici, religiosi e della società civile, contro la presidenza di Ibrahim Boubacar Keita.

Mobilitati dall’influente leader musulmano Imam Mahmoud Dicko, un predicatore carismatico e estremamente influente, decine di migliaia di sostenitori dell’opposizione si sono radunati nelle strade delle principali città maliane, per denunciare il presidente e il suo entourage. La scorsa settimana Keita aveva annunciato lo scioglimento della Corte Costituzionale, ha abrogato le licenze di tutti i membri rimanenti della stessa Corte, in modo che i nuovi giudici possano essere nominati già a partire dalla prossima settimana. Ora cerca di arginare il movimento di opposizione di recente formazione, aprendo le porte alla fondazione di un governo di unità nazionale.

Le proteste sono divampate dopo che il presidente ha lanciato, senza successo, riforme intese a placare gli oppositori e aver respinto le loro richieste di sciogliere il parlamento e formare un governo di transizione. L’opposizione continua a chiedere le immediate dimissioni del presidente, il quale ha risposto con l’arbitrario arresto di numerosi esponenti politici, tra cui Choguel Kokala Maiga e Mountaga Tall.

I manifestanti nei giorni scorsi hanno bloccato le strade principali di Bamako, hanno attaccato il parlamento e hanno preso d’assalto i locali della maggiore emittente televisiva statale ORTM (Office de Radio et Télévision du Mali). I leader dell’opposizione inoltre hanno pubblicato un documento in dieci punti che chiede disobbedienza civile, con raccomandazioni che includono il blocco dell’accesso agli edifici statali e l’occupazione di incroci stradali.

Le forze di sicurezza in risposta hanno immediatamente preso di mira il quartier generale del CMAS, un movimento di opposizione guidato da Mahmoud Dicko, parte della coalizione di opposizione M5-RFP.

Si teme che l’impasse possa ulteriormente destabilizzare il Paese e mentre prosegue la campagna militare contro gruppi armati ribelli, nella regione del Sahel, in Africa occidentale. Il Paese ha faticato a contenere la ribellione armata dei separatisti Tuareg nel nord, emersa per la prima volta nel 2012, prima di estendersi al centro della nazione e al vicino Burkina Faso e Niger. Migliaia di civili sono stati uccisi e centinaia di migliaia di persone sono state costrette a lasciare le proprie abitazioni.

Malgrado la presenza di già oltre 13.000 caschi blu di MINUSMA e l’Operazione francese Barkhane presente in tutto il Sahel con base a N’Djamena, la Francia ha lanciato una nuova task force, Takuba, che prenderà il via il 15 luglio 2020. Soldati estoni e francesi si addestreranno con militari maliani. Parigi fa inoltre sapere che ad ottobre arriveranno 60 membri di forze speciali ceche e che a gennaio 150 militari svedesi si uniranno a Takuba. E’ probabile che anche l’Italia accetti di mandare forze militari.

I ribelli stanno causando il caos nel Mali centrale, dove quest’anno circa 600 civili sono stati uccisi durante attacchi di gruppi armati e violenza tra comunità. Amnesty International ha dichiarato che il deterioramento della situazione della sicurezza potrebbe alimentare il disastro umanitario. Nena News

Nena News Agency “AFRICA. Resta alta la tensione in Mali dopo gli scontri dei giorni scorsi” di Federica Iezzi

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AFRICA. L’uccisione di Abdelmalek Droukdel non ha indebolito Al-Qaeda

Nena News Agency – 03/07/2020

Malgrado l’enfasi data alla notizia, la morte un mese fa di Droukdel non comporterà uno spostamento significativo dell’equilibrio di potere, né un indebolimento dei gruppi jihadisti del Sahel. Gli interessi italiani in quella regione

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Roma, 3 luglio 2020, Nena News – Lo scorso 5 giugno AFRICOM (United States Africa Command) ha confermato la notizia della morte di Abdelmalek Droukdel in un’operazione a guida francese nella città maliana di Talhandak, vicino a Tessalit. La morte di Droukdel è stata subito descritta come un duro colpo per al-Qaeda nella regione ma la provata adattabilità dell’organizzazione jihadista indica la sua capacità non solo di sopravvivere ma anche di continuare a guadagnare terreno in tutto il Sahel.

Diversi veterani di AQIM (al-Qaeda in the Islamic Maghreb) sono in linea per la successione al potere, incluso il leader del Council of Notables, Abu Ubaydah Yusef al-Annabi.

Senza dubbio la questione della successione di Droukdel solleva diversi problemi, non ultimo quello riguardanti le dinamiche etniche dello stesso AQIM, tra i vari gruppi regionali affiliati ad al-Qaeda. La leadership di AQIM è sempre stata algerina. Un cambiamento drastico potrebbe avere l’effetto di limitare l’influenza del gruppo in tutto il Sahel, poiché il conflitto si sta spostando dall’Algeria a sud, verso il Mali centrale e altri stati confinanti. Cellule indipendenti come il Group to Support Islam and Muslims (GSIM) e l’Islamic State in Greater Sahara (ISGS) hanno finora condotto frequenti attacchi a civili, a truppe armate straniere e locali e a strutture governative. Ma ciò ha avuto riflessi modesti sulla compattezza di AQIM.

Negli ultimi anni, la sfera jihadista saheliana ha in gran parte giocato secondo le proprie regole. Le organizzazioni basate nel Sahel hanno progressivamente guadagnato rilevanza sotto la guida di figure locali, come Iyad Ag Ghali, maliano di etnia tuareg, che ha fatto parte del Movimento popolare dell’Azawad negli anni ’90. I gruppi più attivi della regione, quali Katiba Macina e ISGS non erano sotto il comando diretto di Droukdel.

Sebbene rappresenti un’importante avvenimento simbolico, la morte di Droukdel probabilmente non comporterà uno spostamento significativo dell’equilibrio di potere, né un indebolimento dei gruppi jihadisti del Sahel. Il clima di sicurezza, di natura estremamente complessa, rivela una realtà distinta: la morte di Droukdel è solo un successo figurativo e non porterà a una tangibile regressione della violenza nel Sahel.

Attualmente, secondo il Fragile State Index 2020, il Ciad, il Niger e il Mali registrano score rispettivamente di 106, 95 e 96, occupando così la zona di allarme. Amplificata dall’assenza di robusti apparati statali e dalla presenza di reali carenze istituzionali, l’attività dei gruppi terroristici in tutti i Paesi del Sahel, ha provocato lo sfollamento di migliaia di civili. Chiaramente, questo ciclo di violenza conferma il fatto che l’influenza di Droukdel non è stata decisiva per modellare l’ordine nel Sahel.

Droukdel era nato nel 1970 a Meftah, in Algeria. La carriera jihadista che lo ha fatto emergere come uno dei più longevi comandanti regionali di al-Qaeda, fino a diventare emiro di AQIM, è iniziata con il suo coinvolgimento nel Groupe Islamique Armé, un gruppo ribelle islamico nato durante la guerra civile algerina. Il gruppo si separò e ne nacque il Groupe Salafiste pour la Prédication et le Combat, che Droukdel ha guidato a partire dal 2004.

Considerato un leader carismatico, Droukdel ha svolto un ruolo chiave nello stabilire connessioni tra la jihad globale e locale. Sotto la sua guida, AQIM si è allargata oltre l’Algeria tanto da essere identificata come una minaccia regionale, in particolare nel Sahel, operando in Mali, Mauritania, Libia, Tunisia e Niger.

Nel 2012 Droukdel fu condannato da un tribunale in Algeria per omicidio, appartenenza a un’organizzazione terroristica e attentati letali. Ha eluso la cattura per anni, nonostante la significativa presenza di forze armate francesi in risposta alle operazioni jihadiste in Mali, nell’operazione Serval e nell’operazione Barkhane, insieme ad altre forze, tra cui oltre 14.000 truppe ONU.

L’Italia da tempo è coinvolta nel Sahel. Contribuisce alle azioni multilaterali in materia di controllo nell’area, attraverso la missione di stabilizzazione MINUSMA (United Nations Multidimensional Integrated Stabilization Mission) in Mali, l’EUCAP (European Union Capacity Building Mission) in Niger e nel Sahel, l’EUTM (EU-Training Mission) in Mali e il progetto GAR-SI Sahel (Groupes d’Action Rapides – Surveillance et Intervention au Sahel), guidato dalla Spagna.

Tra il 2017 e il 2019, l’Italia ha concluso accordi bilaterali con Burkina Faso, Niger e Ciad, contribuendo ai lavori della coalizione del G5-Sahel, che mirano a preservare il ruolo di interlocutore privilegiato nel continente africano, oltre che sul piano demografico, anche su quello economico-produttivo.

L’interesse strategico italiano si destreggia tra il controllo della frontiera con la Libia, la stabilità del nord Africa, la gestione delle rotte migratorie e lo sfruttamento di fonti energetiche in Africa sub-sahariana.

Anche l’ultimo decreto missioni internazionali, deliberato lo scorso 4 giugno, conferma per il 2020, un rinnovato interesse strategico dell’Italia in Africa sub-sahariana. La novità di maggiore rilievo, riguarda i 15 milioni di euro, investiti dal governo, per la partecipazione italiana alla task force Takuba, organo multinazionale con l’ufficiale mandato di addestrare e assistere le forze armate e le forze speciali locali, nella lotta contro i gruppi armati jihadisti nel Sahel. Nena News

Nena News Agency “AFRICA. L’uccisione di Abdelmalek Droukdel non ha indebolito Al-Qaeda” di Federica Iezzi

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