REPORTAGE. Bombe e colera: silenzio di morte sullo Yemen

Il Manifesto – 30 maggio 2017

GOLFO. A due anni dall’inizio dell’operazione militare saudita, il più povero dei paesi della penisola arabica vive un quotidiano calvario. «Qui bisogna vivere anche se sei morto dentro», dice un’anziana. A Sana’a, resa irriconoscibile dalla guerra, dai raid non ci si nasconde nemmeno più: la priorità è trovare cibo

Yemen #1

di Federica Iezzi

Sana’a (Yemen) – «Qui bisogna vivere anche se sei morto dentro». Tramortiscono le parole di un’anziana donna sola con il capo coperto da un velo nero. Almeno 4mila civili hanno perso la vita come risultato diretto del conflitto in Yemen, di questi più di 1.300 sono bambini. Per due milioni di ragazzini l’anno scolastico si è fermato al 2015.

OLTRE 3 MILIONI di persone sono state costrette a fuggire dalle loro case, troppo spesso senza sicurezza. Statistica che è raddoppiata nell’ultimo anno.

Nonostante il cessate il fuoco, scioccamente creduto da chi lo Yemen non ancora lo percepisce come una delle sconfitte dei nostri giorni, le prime ore del mattino di un qualsiasi giorno sono scandite dal ritmo incessante dei suoni delle bombe che d’improvviso trafiggono l’aria.

È difficile descrivere il terrore che trascina quel suono freddo, non sapere dove arriverà la bomba. Eppure non si corre più nelle strade martoriate come mosche impazzite, non ci si nasconde più, non ci si protegge più. Si fa i conti con i tagli di corrente e la carenza cronica di acqua.

LE ERBACCE AVVOLGONO gli edifici crepati, fino a Dio sa dove. La terra scuote. Devastante e disperato è il grido muto della gente.

Molte famiglie riescono a mangiare una sola volta al giorno e molto spesso il pasto è costituito da 40 grammi di pane. Molti altri non hanno pasti regolari. Nelle cucine delle case rimaste in piedi, tutto quello che si trova sono vuote borse di grano.

Camminare per Sana’a, quando non trema la terra sotto le bombe, mostra una vita quasi normale. Si perde il conto del numero di checkpoint da attraversare. La gente esce, i bambini giocano a calcio tra le macerie. Per un momento si può quasi dimenticare.

ALLE DUE DEL MATTINO dell’ultimo giovedì di marzo del 2015, l’ambasciatore saudita a Washington, in una conferenza stampa, annuncia che una coalizione di dieci paesi a guida saudita aveva iniziato un’operazione militare in Yemen, contro il movimento Ansar Allah (Houthi) e il primo presidente yemenita Ali Abdullah Saleh.

Come pretesto, il ripristino della legittimità del dimesso presidente sunnita, Abd Rabbih Mansur Hadi. Ha così inizio l’operazione “al-Hazm storm”.

Inizia con un attacco aereo saudita che distrugge l’area residenziale di Bani Hewat, nei pressi dell’aereoporto internazionale di Sana’a, uccidendo 29 civili e ferendone 42, comprese decine di bambini. Le vite delle famiglie al-Germozi, al-Hubishi e Hamied Soliman sono segnate da distruzione e morte.

Solo dopo pochi giorni dall’inizio dei bombardamenti aerei, il portavoce militare delle forze di coalizione, il generale Ahmad Hassan Mohammad Asiri, annuncia la distruzione del 90% dell’arsenale e delle capacità militari dei ribelli Houthi. Nonostante l’annuncio, continua impassibile l’operazione militare.

Da quel giorno, in silenzio, continua una battaglia spietata in un paese dimenticato dalle cartine geografiche, dalla politica, dal mondo arabo, dalla comunità internazionale.

Ufficialmente non ancora dichiarata in Yemen, la carestia continua a mietere lentamente e aggressivamente decine di vittime ogni giorno.

SONO 18 MILIONI I CIVILI a rischio malnutrizione, di questi più di due milioni sono bambini a cui è già stata diagnosticata inesorabilmente la condizione di malnutrizione acuta. Secondo i dati diffusi dall’Unicef si è constatato un aumento del 200% a partire dal 2014. È come guardare alla moviola un incidente automobilistico.

Anche prima dell’inizio dei combattimenti, lo Yemen era quel paese della penisola arabica dove la fame era una condizione cronica. Problema per la maggior parte gestibile, visto che gli aiuti umanitari riuscivano a raggiungere anche le aree rurali più impervie.

La maggior parte delle famiglie, anche se con qualche oggettiva difficoltà, poteva acquistare dai mercanti ogni genere di bene. L’economia oggi è in piena caduta libera, con l’80% delle famiglie indebitate.

GIÀ PRIMA DELLA GUERRA lo Yemen dipendeva dalle importazioni per il 90%. Oggi tra voli commerciali cancellati e blocco delle navi mercantili nelle acque del golfo di Aden, né cibo né medicine né carburante entrano nel paese.

Questo significa che negli ospedali, oberati di lavoro, di fronte alla malattia di un bambino si è costretti, con le lacrime agli occhi, a fare scelte al limite della moralità.

Si trattano solo i bambini che hanno una possibilità di farcela, per gli altri non c’è spazio. Ogni parte coinvolta in questo conflitto rende estremamente difficile, non solo aiutare, ma anche raggiungere i più deboli.

I BAMBINI SEMBRANO indossare un sottile velo di pelle che appena copre le loro ossa. A stento stanno seduti e fanno conoscere la loro sofferenza soltanto con i grossi occhi incavati.

«Meno del 45% delle strutture sanitarie sono ad oggi pienamente funzionanti e almeno 274 di queste sono state danneggiate o distrutte dai bombardamenti – ci dice Reem, uno dei pochi medici rimasti a Sana’a – Quando gli scontri si intensificano e i combattimenti circondano gli ospedali, prima spostiamo tutti i pazienti in zone sicure e poi cerchiamo di trovare un rifugio anche per noi. Le finestre sono state rotte più di una volta e non ci si stupisce più se pallottole e schegge entrano».

Il numero dei pazienti che accede all’ospedale è aumentato di cinque volte rispetto al 2016, sebbene le statistiche dettagliate siano ferme al 2011. Gli ospedali sono pieni di gente e vuoti di materiali.

ALLE CONDIZIONI SANITARIE scadenti e alla mancanza di acqua potabile la natura risponde con le cosiddette «malattie parassite», che si automantengono grazie all’elevato grado di promiscuità. E in cima al podio c’è il colera. A Sana’a si può usare l’acqua di rubinetto solo qualche volta alla settimana, nelle zone rurali il disagio è ancora peggiore.

Dallo scorso settembre, in 18 diversi governatorati come una valanga, 49mila casi sospetti di colera e 242 morti dichiarati hanno ulteriormente inasprito la già precaria situazione sanitaria dello Yemen, dove i corpi vengono lasciati per le strade per giorni, nel mezzo di intensi combattimenti. A questa si aggiungono focolai sempre più violenti di malaria e scabbia.

Il conflitto civile e la distruzione su larga scala, causata da entrambi i fronti di combattimento, hanno riportato indietro l’orologio del paese di due, tre decenni. Tutto quello che oggi si tocca è la devastazione: alberghi, fabbriche, strade, case e ponti distrutti.

E ANCHE IL MESE SACRO del digiuno del Ramadan inizia in Yemen con ondate di bombardamenti e con poca speranza di un cessate il fuoco. Perfino l’iftar, la cena che segue alla giornata di digiuno, quest’anno sarà un lusso.

I ripiani dei supermercati sono completamente vuoti e le famiglie non hanno denaro nemmeno per comprare da mangiare.

Il Manifesto 30/05/2017 “REPORTAGE. Bombe e colera: silenzio di morte sullo Yemen” di Federica Iezzi

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Algeria al voto con l’ombra dell’astensionismo

Nena News Agency – 04/05/2017

22 milioni i cittadini chiamati oggi alle urne per le legislative. Ma gli analisti prevedono che saranno molti di meno: la diffusa apatia deriva dalla consapevolezza che il vero potere nel Paese è nelle mani della classe militare

UNDP Algeria

di Federica Iezzi

Roma, 4 maggio 2017, Nena News – Mentre i partiti principali e le liste indipendenti competono per i 462 posti in parlamento, in lizza dal prossimo 4 maggio, i 22 milioni di elettori algerini fanno i conti con una lunga storia di diffidenza verso la politica. Le elezioni politiche in Algeria si sono aperte con il voto dei 955.426 elettori algerini residenti all’estero, chiamati alle urne lo scorso sabato.

La diffusa apatia deriva dal fatto che nonostante la presenza democratica di un Parlamento, il vero potere in Algeria, ciò che è comunemente conosciuto come ‘le pouvoir’, è nelle mani della classe politico-militare, che ha combattuto la guerra di liberazione contro l’indipendenza francese. Nulla è cambiato da allora. L’Algeria è formalmente una democrazia sotto tutorship militare. Ci possono essere dibattiti politici, proliferazione di partiti, ma lo status quo non cambia.

Il quadro è quello di un Paese in cui i bassi prezzi del petrolio schiacciano un’economia martoriata. L’Algeria è uno dei principali produttori OPEC e il terzo più grande fornitore di gas naturale per l’Unione Europea. I prezzi bassi di energia in Algeria, hanno spinto il parlamento uscente a prendere decisioni impopolari come l’aumento delle imposte e il congelamento degli stipendi del settore pubblico. Il 70% della popolazione è sotto i 30 anni e di certo mira a vedere il suo enorme potenziale economico sfruttato per risolvere i problemi sociali endemici.

Il problema non è quindi quanti soldi il Paese fa, ma come viene speso il denaro prodotto. L’immobilità del regime ha portato ad una diffusa corruzione. Quando i responsabili non cambiano, il sistema economico diventa sclerotico e nelle mani di pochi privilegiati. Dunque, mentre un numero limitato di persone si arricchisce, le masse muoiono di fame. E uno dei tratti principali dell’Algeria è di cambiare senza cambiare.

‘Il 77enne presidente è parte integrante della storia del suo Paese’. E con il sole che splende e la vista che si estende verso la Qasba bianca e al di là del Mediterraneo, Abdul Aziz Bouteflika aspetta le elezioni parlamentari. Riconciliazione nazionale e stabilità regnano in Algeria da 18 anni, dopo che una sanguinosa guerra, che ha opposto una miriade di forze islamiste al governo centrale, ha visto la morte di un quarto di milione di civili. Ufficiali militari e temuti gruppi di intelligence, hanno continuato a combattere contro gli insorti islamici. In un tale contesto di violenza, l’appetito per le manifestazioni di piazza, è scarso.

L’Algeria è un Paese silenzioso. Nessuno ne parla. E questo riassume lo stato della sua democrazia. ‘Votare massicciamente per rafforzare la stabilità politica e di sicurezza nel Paese, supportando il presidente Bouteflika’ è il motto dell’ideologia socialista del Fronte di Liberazione Nazionale (FLN), diretto da Djamel Ould Abbes. Il regime a partito unico guidato per anni dal FLN si è evoluto quando la regola del multipartitismo è stata introdotta nel 1989, anche se ancora oggi l’FLN gioca un ruolo chiave nel sistema politico algerino. Si poteva considerare l’inizio di un’evoluzione democratica nella politica algerina? No, era piuttosto una necessità.

A quel tempo il Paese stava subendo profondi sconvolgimenti sociali e la popolazione chiedeva più democrazia. Il Fronte di Salvezza Islamico (FIS) è stato il portavoce delle proteste popolari. Sfruttando il malcontento il FIS, guidato da Chadli Bendjedid, introdusse la shari’a in una società prevalentemente laica, cosa che spaventò grandi porzioni di società algerina. La risposta è stata un colpo di Stato militare che introdusse l’Algeria alla guerra civile degli anni ‘90.

Il regime militare algerino ha combattuto il terrorismo con un tale grado di spietatezza da confinarlo nel sud desertico del Paese. Mali e Niger al confine sud, socialmente instabili, stanno ancora pagando il prezzo della minaccia terroristica schiacciata a sud dell’Algeria. Per cui il via della primavera araba del 2010, per l’Algeria è stata semplicemente un deja-vu.

Mentre oggi i partiti d’ispirazione islamica puntano su nuove alleanze per uscire dal cono d’ombra in cui sono stati relegati dalla fine della guerra civile, il Raduno Nazionale per la Democrazia (RND), attualmente capeggiato da Ahmed Ouyahya e alleato con il governo, sostiene un incremento di legittimità dell’esercito nazionale nella lotta contro gli estremisti.

Quello a cui attualmente mira il governo algerino è un’alta affluenza alle urne, attraverso cui inviare un messaggio di fiducia nella propria democrazia alla Comunità Internazionale. Lega Araba, l’Unione Africana e l’Organizzazione della Conferenza Islamica hanno confermato la presenza missioni di osservatori. Nena News

Nena News Agency “Algeria al voto con l’ombra dell’astensionismo” di Federica Iezzi

 

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#SaveDinaAli, la donna saudita incarcerata per aver cercato la libertà

Nena News Agency – 02/05/2017

Dina Ali Lasloom in fuga verso l’Australia è stata arrestata a Manila durante uno scalo aereo e subito rimpatriata a Riyadh. Di lei non si sa più nulla. L’Arabia saudita continua a godere di impunità, nonostante le violazioni dei diritti umani, perché alleata dell’Occidente

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di Federica Iezzi

Roma, 2 maggio 2017, Nena NewsDa metà aprile l’hashtag #SaveDinaAli ha riempito gli spazi dei social network. Ma chi è Dina Ali Lasloom? E’ una giovane donna saudita di 24 anni che ha tentato la fuga in Australia per chiedere asilo politico, per sfuggire alle pesanti restrizioni imposte dalla sua famiglia, ed ora è in carcere a Riyadh “colpevole” di alcun reato se non quello di aver cercato la libertà.

Ad una donna saudita non è permesso viaggiare liberamente all’estero, nè sposarsi, lavorare o ottenere assistenza sanitaria, a causa del severo sistema di tutela maschile discriminatorio che è alla radice di molti abusi contro il genere femminile, in Arabia Saudita, Paese che continua a godere di impunità e immunità a causa della sua alleanza con l’Occidente.

Dina Ali Lasloom è stata arrestata in fuga a Manila, nelle Filippine, durante uno scalo aereo, ed è stata prontamente rimpatriata a Riyadh, nonostante la grande campagna condotta dal team di Amnesty International, impegnato nei Paesi del Golfo.

Le autorità filippine l’avrebbero trattenuta in regime di detenzione nel Ninoy Aquino International Airport di Manila, confiscandole il passaporto. L’ambasciata saudita a Manila ha confermato che la donna sarebbe ritornata in Arabia Saudita accompagnata dai suoi parenti, ma non ha fornito ulteriori informazioni.

Da quel momento non sia hanno più notizie di Dina Ali Lasloom. Si parla del suo trasferimento in una struttura di detenzione a Riyadh, la Correctional Facility for Women.

Tutto questo avviene, come una beffa, alla vigilia della folle decisione presa dal Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite, di avere una rappresentanza saudita tra i 45 membri che costituiscono la Commissione delle Nazioni Unite sullo status delle donne (UNCSW), l’organismo ONU più impegnato nella lotta per l’uguaglianza di genere. Nomina in netto contrasto con i dati diffusi dal Report sulla Disparità di Genere 2016, redatto dal Forum Economico Mondiale, in cui la monarchia del Golfo occupa la 141esima posizione su 144 per la questione ‘diritti femminili’.

Il sistema di tutela maschile saudita implica che la vita di una donna sia controllata da un parente maschile dalla nascita fino alla morte, il wali al-amr. Chi come Dina fugge dalla famiglia o dal Paese di appartenenza, deve affrontare la punizione riservata a chi lede l’onore familiare. La pena spesso si chiama delitto d’onore: un fenomeno antico quanto le società maschiliste, che viene nascosto, giustificato, tollerato e poco punito. Le autorità considerano queste questioni come ‘affare familiare’. Se la famiglia della donna accusata decide come punizione, la condanna a morte, non seguirà nessuna accusa ad alcun membro della famiglia.

Human Right Watch è il capofila della campagna per esortare il leader saudita, il re Salman Bin Abdulaziz, ad intervenire per assicurare un’adeguata protezione a Dina Ali Lasloom contro l’accusa e contro i trattamenti degradanti che ne derivano.

Il sequestro e la detenzione delle donne saudite non è inusuale: la teocrazia del regno detta che le donne debbano trascorrere tutta la loro vita sotto la tutela maschile. Chiunque disapprovi un matrimonio forzato o le mille altre restrizioni maschili viene redarguito duramente.

La razionalità teocratica per limitare il movimento delle donne, nasce da una visione distorta di un versetto del Corano, contenuto nella Sura IV An-Nisâ’, dedicata alle donne, il quale recita che gli uomini sono ‘protettori e manutentori delle donne’. Nel Corano viene usata la parola qawwamun, è il reale significato è quello di ‘prendersi cura’.

L’interpretazione wahabita-salafita dell’Arabia Saudita, costringe invece le donne ad essere di fatto prigioniere dei loro uomini.

Gli attivisti per i diritti delle donne in Arabia Saudita hanno più volte richiesto al governo di abolire il sistema di tutela maschile. La pratica della tutela maschile nelle sue molteplici forme compromette e, in alcuni casi, annulla una serie di diritti umani femminili, violando la Convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW), che l’Arabia Saudita ha ratificato nel 2000. Nena News

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PRIMO MAGGIO. Il lavoro minorile nell’Africa sub-sahariana

Nena News Agency – 01/05/2017

Nelle piantagioni di cacao e nelle miniere d’oro: è il destino di molti bambini africani, costretti a lavorare per sostenere le famiglie. In totale assenza di sicurezza

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di Federica Iezzi

Roma, 1 maggio 2017, Nena News – Sul terreno roccioso al di fuori del villaggio minerario di Kollo, vicino al confine tra Burkina Faso e Ghana, le mani laboriose di bambini di poco più di dieci anni, rompono massi in ciottoli e ciottoli in pietra per intercalare la mescolanza fangosa in acqua e sperare di trovare schegge di oro.

L’Organizzazione Internazionale del Lavoro stima che fino a un milione di bambini di età compresa tra i 5 ei 17 anni lavorino nelle miniere d’oro di piccole dimensioni nell’Africa sub-sahariana, per soli due dollari al giorno. Ed è considerata una delle peggiori forme di lavoro minorile a causa delle conseguenze a lungo termine per la salute da esposizione costante alla polvere, ai prodotti chimici tossici e al lavoro manuale pesante.

Si passa dai danni polmonari permanenti, causati dall’inspirazione di minerali polverizzati, a lesioni muscolari e scheletriche, perdita dell’udito, avvelenamento da metalli pesanti, come il mercurio, con i relativi danni neurologici. Il mercurio attrae l’oro, ma per chi lo maneggia senza protezione distrugge le cellule cerebrali, causando tremori, turbe alla parola, ritardo mentale, cecità.

Come si può eliminare il lavoro minorile in una comunità quando il reddito di una famiglia è così basso? Questo è uno dei motivi per il quale i bambini lavorano invece di andare a scuola. Bisogna dunque necessariamente affrontare la questione dei mezzi di sussistenza per i genitori, prima di imporre il rispetto delle leggi. Spesso le miniere sono illegali e scoperte su proprietà private. Secondo le autorità locali il compito di vigilanza è schiacciante.

Sono gli adulti a gestire le macchine di frantumazione di minerali, mentre i bambini affilano le molatrici metalliche senza protezione per gli occhi, riversano nei macchinari frammenti di rocce e pietre senza mascherine per proteggersi dalla polvere. Tosse costante e sordità acquisita, dovuta al rumore delle apparecchiature, sono all’ordine del giorno.

Nel Sahel africano, regione semiarida che si estende dall’Oceano Atlantico al Mar Rosso attraverso alcune zone di Mali, Ghana, Burkina Faso e Niger, per il 30-50% i lavoratori nelle miniere sono rappresentati dai bambini. E insieme, producono un quinto dell’oro del mondo, secondo i rapporti delle Nazioni Unite. Qui non si raffina l’oro ma viene semplicemente preparato per la vendita, attraverso esportatori, in Arabia Saudita e in Europa. Da lì l’oro entra nella catena di fornitura mondiale.

L’uso diffuso del lavoro minorile è vizio comune anche nelle aziende di cacao dell’Africa Occidentale, che vendono ai giganti internazionali, rivelando la connessione diretta del settore con le peggiori forme di traffico di esseri umani e schiavitù.

In media, gli agricoltori di cacao guadagnano meno di due dollari al giorno, un reddito inferiore alla soglia di povertà. Di conseguenza, spesso ricorrono all’uso del lavoro minorile per mantenere i loro prezzi competitivi. La maggior parte dei bambini che lavora nelle aziende di cacao ha un’età compresa tra i 12 e i 16 anni.

In quest’angolo di mondo i bambini sono quotidianamente circondati da un’intensa povertà e la maggior parte di loro comincia a lavorare in giovane età per aiutare le loro famiglie. Alcuni bambini vengono ‘affidati’ dalle stesse famiglie ai proprietari delle aziende agricole in cambio di un reddito mensile fisso. Spesso, i trafficanti rapiscono i bambini dai piccoli villaggi dei paesi limitrofi, per poi utilizzarli come forza lavoro.

Il giorno lavorativo di un bambino inizia solitamente alle sei del mattino e termina a sera inoltrata. Si fanno strada tra il fitto sottobosco delle foreste, si arrampicano sugli alberi di cacao per tagliare i baccelli con il machete, impacchettano i baccelli in sacchi che arrivano a pesare anche 50 chili quando sono pieni e li trascinano attraverso la foresta.

La maggior parte dei bambini ha cicatrici su mani, braccia, gambe, spalle. Inoltre sono esposti a sostanze chimiche agricole. Per una giornata di lavoro guadagnano un piatto di pasta di mais e banane, dormono su tavole di legno in piccoli edifici senza finestre, senza latrine e senza accesso ad acqua potabile.

L’Africa ha la più alta incidenza per lavoro minorile nel mondo. Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, il 41% di tutti i bambini africani tra i 5 ei 14 anni sono coinvolti in una qualche forma di attività economica. Nena News

Nena News Agency “PRIMO MAGGIO. Il lavoro minorile nell’Africa sub-sahariana” di Federica Iezzi

 

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