Vita a Raqqa ai tempi dello Stato Islamico

Nena News Agency – 26 novembre 2015

Reportage dalla ‘capitale’ siriana del Califfato di al-Baghdadi, assediata dai jihadisti e bombardata dagli occidentali 

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di Federica Iezzi

Raqqa (Siria), 26 novembre 2015, Nena News – Mentre rimangono accese le luci rosse di allarme in Europa, Francia e Russia continuano a bombardare l’area di Raqqa, la capitale siriana del Califfato nero. Colpiti i villaggi di al-Zibari, Mo Hasan, al-Bo Omar, al-Mrei’iyyah e al-Bokmal. Forze armate dello Stato Islamico circondano completamente il perimetro della città di Raqqa. I civili che vivono ai margini della città lo fanno in campi spontanei. Al freddo. Senza acqua potabile. Senza latrine. Non ci sono tende delle Nazioni Unite. Non c’è la Croce Rossa Internazionale. Ci sono bambini scalzi mentre fuori la temperatura scende a quattro gradi. Ci sono donne incinte malnutrite. Ci sono uomini con gli occhi incavati senza lavoro.

I militanti hanno il pieno controllo di tutte le strade di accesso ai quartieri. Limitati ingresso e uscita nelle aree assediate. Anche l’assistenza umanitaria risulta limitata o, peggio, del tutto bloccata. Fermato ogni veicolo che trasporta verdure, grano e forniture di cibo. Una sciarpa rossa incornicia il viso smagrito di Ghaith. “Spesso siamo costretti a mangiare le foglie degli alberi e le piante selvatiche” ci racconta.

Oltre all’accesso limitato, l’assedio è combinato a raid aerei e scontri a terra continui e violenti. I prezzi dei prodotti alimentari continuano a salire drammaticamente. Per un chilo di zucchero si paga quasi cinque euro. 51 euro per un chilo di tè. 380 euro per una bombola del gas. Il pane viene preparato in un solo panificio in città.

Abdel vive sotto un telone di plastica riparato da stracci e sopra un tappeto rosso e grigio, l’unico pezzo rimasto della sua vecchia casa nel quartiere di al-Shohadaa, a Raqqa. Ci dice: “non ci hanno permesso nemmeno di andare nelle zone controllate dal governo per ritirare i nostri stipendi. Le decine tra ministeri e governatorati, controllati da Daesh (noto anche come IS, Stato Islamico), non riconoscono il nostro lavoro”. Secondo una stima dell’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari, almeno 640.000 siriani vivono in zone sotto assedio mentre infuria la guerra nel Paese.

Dallo scorso febbraio sono state riconosciute ufficialmente 11 aree assediate in Siria. Alle centinaia di migliaia di siriani che vivono in queste zone sono negate le necessità primarie: cibo, acqua e medicine. Centinaia sono le morti da cause prevenibili, come la fame, la disidratazione e la mancanza di cure mediche. Miran e Saben hanno un negozio di alimentari alla periferia di Raqqa. “Paghiamo un’imposta a Daesh di 44.000 libbre siriane al mese per il nostro negozio. A queste si sommano i costi dell’elettricità e dell’acqua. Ogni giorno per almeno 22 ore non c’è elettricità. E per queste due ore scarse paghiamo 3.000 libbre siriane al mese”. I guadagni sono nulli. I negozi restano chiusi durante il periodo di preghiera per cinque volte al giorno.

Distrutti dai raid aerei della Coalizione Internazionale e da bombe francesi e russe dirette sullo Stato Islamico, anche centrali elettriche e impianti di filtrazione per l’acqua. Adesso l’acqua viene estratta manualmente da falde acquifere contaminate da scarichi fognari e conservata malamente in contenitori di plastica. Non ci sono quasi più medici a Raqqa. Lo Stato Islamico ha perseguitato, torturato e ucciso chiunque curasse combattenti di altri gruppi ribelli. 670.000 bambini sono senza scuola o, peggio, solo con la scuola coranica. Niente più scienza, storia e arte, solo studi islamici distorti dal primitivo significato.

Pantaloni larghi che cadono sopra le caviglie senza lasciare nessun tratto di pelle scoperta. Burhan ci dice: “siamo costretti ad andare in moschea per la preghiera ‘in congregazione’. Sermoni con l’obiettivo del reclutamento. Non abbiamo neanche più la libertà di pregare da soli”. Nena News

Nena News Agency “Vita a Raqqa ai tempi dello Stato Islamico” di Federica Iezzi

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NIGER. L’emergenza dimenticata dei profughi maliani

Nena News Agency – 19 novembre 2015

Il piccolo stato dell’Africa occidentale si ritrova obbligato a fronteggiare un costante afflusso di rifugiati, uniti anche ai 150.000 civili che dal 2013 fuggono dalla Nigeria, dalla violenza dei jihadisti di Boko Haram, e trovano pace nelle aree di Diffa e Assaga

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di Federica Iezzi

Bamako (Mali) – Secondo l’ultimo report dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, il numero dei rifugiati maliani in Niger ha raggiunto oggi il suo livello più alto, dall’inizio del conflitto interno iniziato nel 2012 e durato tre anni. Nonostante il recente accordo di pace, mediato dall’Algeria, tra il governo maliano di Ibrahim Boubacar Keita, i ribelli tuareg e i separatisti e militanti legati a al-Qaeda, nelle ultime settimane il flusso di profughi è aumentato dal Mali orientale, al vicino Niger.

Il picco di rifugiati si raggiunse quando nel 2013 le truppe maliane, spalleggiate da quelle francesi, sconfissero le forze ribelli. 50.000 civili attraversarono il confine tra Mali e Niger, per stabilirsi nei campi profughi della regione di Diffa, nel Niger del sud. Dopo le elezioni presidenziali del 2013, l’UNHCR ha facilitato il rimpatrio in Mali di circa 7.000 rifugiati.

Solo nel 2015, 47.449 rifugiati maliani sono stati ridistribuiti nelle città di Ayorou e Niamey e nei campi profughi delle regioni di Tillabéri e Tahoua, nel sud-ovest del Niger.

Il piccolo stato dell’Africa occidentale si ritrova dunque obbligato a fronteggiare un insolito afflusso di rifugiati, uniti anche ai 150.000 civili che dal 2013 fuggono dalla Nigeria, dalla violenza dei jihadisti di Boko Haram, e trovano pace nelle aree di Diffa e Assaga. Viene oggi sostenuto appena il 26% del fabbisogno dei rifugiati maliani in Niger. La drastica riduzione di razioni alimentari mensili da parte del World Food Programme, contribuisce a far crescere l’ombra della malnutrizione. Un esempio sono le razioni di riso diminuite da 12 a 5,4 kg a persona, nello scorso mese di giugno. Ma grazie al costante e duro lavoro delle organizzazioni non governative, la percentuale di malnutrizione nei bambini maliani, residenti nei campi profughi, si è abbassata dal 20% al 9% nel 2015.

Secondo i dati dell’UNICEF 368.114 bambini dai 6 mesi ai 5 anni sono stati trattati per forma acuta di malnutrizione, 968.919 bambini di età compresa tra 9 mesi e 14 anni sono stati vaccinati contro il morbillo e 32.992 bambini e adolescenti hanno avuto accesso all’istruzione di base.

Tra gli scorsi mesi di ottobre e novembre, secondo i dati dell’UNHCR, almeno 4.000 rifugiati hanno attraversato il confine maliano, in fuga dall’illegalità, dal vuoto di potere di un governo corrotto, dai continui scontri tribali tra Idourfane e Daoussak e dall’opprimente presenza militare. 3.000 sono ancora in attesa di registrazione.

La maggior parte dei rifugiati proviene dalle aree rurali delle regioni orientali di Ménaka, Anderaboukane e Ansongo, dove scuole e infrastrutture pubbliche sono state danneggiate da anni di combattimenti.

Negati accesso a acqua potabile, riparo, istruzione e sanità. Vita forzata nei campi di fortuna su teli di plastica appoggiati a cespugli spinosi, per ripararsi dal bagliore implacabile del sole. Dietro solo poveri averi, spesso non più di un paio di coperte e alcune pentole e contenitori di plastica. Nena News

Dall’inizio del 2012, si stima che almeno 100.000 maliani hanno lasciato le proprie case, per trovare rifugio in Niger e nei campi profughi di Mbera, Bassiknou e Fassala, in Mauritania. Altri 34.000 sono stati accolti nei campi di Saag-Nionigo e Mentao, in Burkina Faso e 62.000 rimangono tutt’ora sfollati all’interno del Mali. Nena News

Nena News Agency “NIGER. L’emergenza dimenticata dei profughi maliani” – di Federica Iezzi

 

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GIBUTI. Il sale della vita

Nena News Agency – 17 novembre 2015

Nel 2012, il governo di Gibuti e la Export-Import Bank of China, banca commerciale cinese, hanno stretto una fertile collaborazione del valore di 64 milioni di dollari. Obiettivo: la costruzione di un terminale per l’esportazione di depositi di sale e gesso dal lago Assal. Un nuovo colonialismo per il Corno d’Africa

 

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di Federica Iezzi

Gibuti, 16 novembre 2015, Nena News – E’ situato all’estremità occidentale del Golfo di Tadjourah, tocca la regione di Dikhil, corre nella parte superiore della Great Rift Valley. Il lago Assal è il punto più profondo del continente africano: 155 metri sotto il livello del mare. Cristalli di sale che, come ghiaccio, brillano sulla superficie della calda acqua, riforniscono il lago dalla baia Ghoubet el-Kharab, attraverso un intricato sistema di faglie. La superficie totale è più di 110 chilometri quadrati, di cui circa 60 coperti da spesse concrezioni saline che possono arrivare a 25 metri di profondità.

Gli unici alberi vicino il lago non hanno le foglie ma solo spine. La gente di Gibuti non nuota mai nel lago vulcanico. Il sale estratto a Gibuti spesso finisce in ristoranti europei. E’ questa la descrizione dell’ex-colonia francese.

Nel 2012, il governo di Gibuti e la Export-Import Bank of China, banca commerciale cinese, hanno stretto una fertile collaborazione del valore di 64 milioni di dollari. Obiettivo: la costruzione di un terminale per l’esportazione di depositi di sale e gesso dal lago Assal. La China Harbor Engineering Company Ltd, compagnia di costruzione cinese, ha avuto il compito di completare il progetto. Secondo una stima, il completamento dei lavori di costruzione consentirà a Gibuti di esportare 5.000 tonnellate di sale ogni anno nei Paesi del sud-est asiatico.

Dopo i tre miliardi di dollari investiti dalla China Railway Engineering Corporation per la linea ferroviaria da 756 chilometri Addis Abeba-Gibuti, per velocizzare e facilitare gli scambi merci tra Etiopia e Gibuti, ora la banca cinese finanzia il ‘progetto del sale’. Nel Paese dove i depositi di sale sono stati estratti su piccola scala per secoli. Addio, dunque, alle carovane del sale, tradizione millenaria fino ad ora immutata.

In previsione dell’industrializzazione forzata, si assiste alla pianificazione di opere e costruzioni nei porti centenari di Doraleh, Tadjourah, Damerjog e Ghoubet a Gibuti. Alla fine dello scorso anno un primo contratto di quasi 73 milioni di dollari è stato firmato tra il governo gibutiano di Ismail Omar Guelleh e una prestigiosa società cinese di costruzioni. L’obiettivo è quello di far diventare i porti del piccolo Paese dell’Africa orientale i maggiori impianti per capacità del continente, superando Port Said e Damietta in Egitto, Durban in Sud Africa e Tangeri in Marocco.

L’invasione cinese è dovuta alla posizione strategica di Gibuti affacciata sul Golfo di Aden, non lontana dal Mar Rosso, sito delle più trafficate rotte marittime mondiali. Luogo ideale per importazione ed esportazione di risorse naturali. Attualmente il Regno Unito è il capofila per l’estrazione dei metalli, dopo l’identificazione di una faglia, al confine con l’Etiopia, ricca di oro.

A fianco alle opere di estrazione ed esportazione di sale, la Cina, insieme a investitori russi, brasiliani, indiani e arabi, è il capogruppo per la costruzione di gasdotti e raffinerie di petrolio, in direzione Sud Sudan-Gibuti, i cui prodotti finali saranno venduti in Africa orientale. L’impianto consentirà l’esportazione di dieci milioni di metri cubi di gas dall’Etiopia alla Cina ogni anno. Le stazioni geotermiche a Gibuti sono invece l’ultima frontiera giapponese.

L’ambizione è quella di far diventare il Corno d’Africa, entro il 2035, una regione a medio reddito. Nessuna condizione politica, nessun beneficio per la povertà africana, nessuna attenzione ai reali interessi e agli effetti dell’espansione cinese in Africa. Solo contratti da firmare. Ecco il nuovo colonialismo cinese. Nena News

Nena News Agency “GIBUTI. Il sale della vita” di Federica Iezzi

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REPORTAGE – Tra i ragazzi in fuga dal regime di Afewerki che noi sosteniamo

Il Manifesto – 11 novembre 2015

ERITREA. Periferie dei villaggi di Shieb e Ghinda. Qui si nasconde chi fugge. Dopo aver ottenuto da funzionari corrotti documenti falsi, pagando 5mila dollari

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di Federica Iezzi

Asmara (Eritrea) – Chi sono i rifugiati eritrei che attraversano il Mediterraneo? I ragazzi che arrivano al diciottesimo compleanno con in mano l’amara comunicazione del servizio militare obbligatorio. Sulla carta 18 mesi, che spesso però si protraggono per anni, in cui i giovani di Eritrea subiscono percosse, maltrattamenti, indottrinamenti nel campo di addestramento di Sawa, al confine con il Sudan. Il tutto per 59 miseri dollari al mese.
Aklilu, 18 anni e in partenza per Sawa, ci confessa «Mi hanno preso in uno dei costanti rastrellamenti a Maakel Katema, un quartiere nel cuore di Asmara. Non avevo nè la tessera del Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia, né quella per il servizio militare. Adesso mi mandano a Sawa, dicono per 18 mesi, ma c’è gente che da lì non torna da anni». La polizia eritrea pattuglia ogni strada del Paese alla ricerca di coloro che cercano di eludere il servizio militare obbligatorio. Trovarli significa cattura, reclusione e identificazione come dissidente.
Di fronte alla disumanità sistematica del regime di Isaias Afewerki, la comunità internazionale continua a elargire pacchetti di aiuti all’Eritrea, credendo che il mero sostegno finanziario possa contribuire ad arginare il flusso di rifugiati e richiedenti asilo. Dunque si avalla in silenzio la contorta visione di Afewerki secondo la quale gli eritrei stanno migrando per ragioni prevalentemente economiche e non politiche. Secondo le stime delle Nazioni Unite fino a 5.000 eritrei al mese fuggono dal loro Paese. Un sofisticato e accurato mercato nero si è evoluto per agevolare la migrazione di massa.
Ci dice Hagos, padre e marito insospettabile e contrabbandiere di professione «Il trucco è sapere che non ci si può fidare: le spie sono ovunque. Sedute in un bar che ti osservano mentre prendi un caffè, alla fermata dell’autobus, al mercato mentre compri il pane». Il governo eritreo sorveglia i confini, controlla i movimenti dei suoi abitanti in ogni quartiere e mantiene sotto controllo la popolazione con una rete integrata di spie.
Il viaggio di un eritreo inizia nelle periferie dei villaggi di Shieb e Ghinda. Le porte sul retro dei negozi e le baracche di metallo si aprono. Qui si nasconde chi fugge. Dopo aver ottenuto da funzionari governativi corrotti, documenti di identificazione falsi, pagando fino a 75.000 nafka (più o meno 5.000 dollari), alcuni iniziano la marcia verso i confini con l’Etiopia o con il Sudan. Rispettivamente verso le città di Omhajer e Teseney. 200.000 rifugiati eritrei sono fermi nei principali quattro campi profughi della regione del Tigray, e nei due della regione di Afar, nel nord-est dell’Etiopia. Altri 100.000 hanno trovato una casa nei campi profughi di Gadaref e Kassala, regioni orientali aride sudanesi. Controcorrente il campo delle Nazioni Unite di Shagarab, nel Sudan dell’est, in cui vivono almeno 30.000 persone. Diventato negli anni una calamita per i trafficanti: più di 500 rapimenti, centinaia le persone scomparse. Costante paura per i rimpatri forzati in Eritrea.
Quelli che proseguono devono sopportare il disumano passaggio attraverso il Sahara. C’è un solo viaggio alla settimana. Direzione Libia. Hagos ci dice «So come controllare i banditi che infuriano nel deserto, so come corrompere la polizia e i militari. E so il deserto».
I contrabbandieri stipano 30 persone nella parte posteriore dei loro pick-up. O usano sovraffollati camion senza targa, dai vetri oscurati. Poco spazio per acqua, provviste e carburante. Viaggiano per 12 giorni. 2.000 dollari per arrivare nella città di Ajdabiya, a nord-est della Libia. Ad aspettarli squadre di trafficanti armati fino ai denti, che lavorano in armoniosa sincronia con i funzionari di frontiera corrotti.
Altre 10 ore di viaggio lungo la costa libica e altri posti di blocco che potenzialmente significano la fine del viaggio e la spedizione immediata in una delle decine di centri di detenzione per migranti in Libia.
L’obiettivo è il porto di Zuwara, a nordovest della Libia. Fino a 800 eritrei, 18 ore di navigazione, una fragile barca diretta verso le coste europee, senza cibo, senza scialuppe e giubbotti di salvataggio. I rifugiati pagano anche 2.000 dollari per la traversata.
Zuwara è il cuore oscuro della Libia. I contrabbandieri lì comprano pescherecci di 18 metri di seconda mano per circa 20.000 dollari. All’ombra di un ex– impianto chimico, gli scafisti operano liberamente in una ragnatela di antiche rotte commerciali. I rifugiati vengono smistati su pescherecci da traino in legno e gommoni, all’avvistamento delle coste europee.
Oltre che da Zuwara, si parte da Gasr el-Garabulli, Zlitan, Tripoli, Misurata. I pescherecci puntano verso una piattaforma petrolifera non lontano da Lampedusa. E il programma va avanti. I dipendenti della piattaforma allertano la guardia costiera e parte la catena dei soccorsi. L’alternativa è l’isola greca di Lesbo.
Le agenzie umanitarie stimano che più di 264.500 rifugiati hanno raggiunto le coste europee quest’anno e almeno 1.800 di questi sono morti.
Niyat, volto coperto con un’hijab bianca e verde e un bambino di sei mesi in braccio, ci ha messo due anni per risparmiare i soldi per il viaggio in Europa, guadagnandosi da vivere come sarta. E’ partita con la sua famiglia dalla periferia di Asmara. Pochi soldi con sé. Ci dice “Con la continua oppressione di polizia e posti di blocco militari, preferiamo viaggiare con pochi soldi. Molti di loro guadagnano esponenzialmente in tangenti da contrabbandieri e migranti. La polizia prende tra 150 e 250 dollari per l’attraversamento illegale in Libia dei camion. La maggior parte dei trafficanti viene pagata in anticipo tramite Western Union. Sono ormai uomini d’affari che offrono servizi”.
Diretta a Sabha, capitale della vasta regione del Fezzan meridionale, Niyat viaggia con un contenitore, da due dollari, con 4 litri di acqua, e con una piccola pagnotta di pane. E’ tutto quello che può permettersi. “Attraversare il confine eritreo può significare morire. I soldati del Presidente hanno l’ordine di sparare per uccidere. La Libia, con due governi paralleli bloccati in guerra, è paradossalmente meno pericolosa. Anche se le milizie libiche presero di mira l’Eritrea da quando inviò mercenari per sostenere l’ex dittatore libico Gheddafi”.
La Libia è diventata un punto di partenza per molti rifugiati, i trafficanti di esseri umani sfruttano il vuoto di potere del Paese, la crescente illegalità, la crisi politica, il conflitto armato e l’assenza di una normativa nazionale in materia di asilo.
Secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati circa 37.000 eritrei hanno presentato domanda di asilo in 38 Paesi europei nel corso dei primi 10 mesi dello scorso anno. 13.000 nello stesso periodo del 2013. I motivi? Esecuzioni extragiudiziali, sparizioni forzate, detenzioni in isolamento, repressione, violenze e paranoie del regime di Afewerki. Nessuna libertà di informazione, di stampa, di espressione. 300 prigioni in tutto il Paese. Più di 10.000 prigionieri politici. La gente non ha cibo da mangiare. Anche l’accattonaggio è reato in Eritrea. Si lavora nelle miniere fino a 12 ore al giorno, sei giorni alla settimana, per 1.500 nakfa al mese (poco meno di 100 dollari).
Inizialmente sostenuto da Stati Uniti e Unione Sovietica, Afewerki ha espulso agenzie umanitarie internazionali e forze di pace delle Nazioni Unite. Bloccati i media indipendenti e obbligati in carcere giornalisti, scrittori e critici. Torturate le minoranze religiose, per la credenza di un complotto straniero, atto a disgregare una Nazione ufficialmente e equamente suddivisa tra cristiani e musulmani.

Il Manifesto 11.11.2015 “Tra i ragazzi in fuga dal regime di Afewerki che noi sosteniamo” di Federica Iezzi

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Sierra Leone libera dall’Ebola. Ma il paese non è ancora fuori pericolo

Nena News Agency – 09 novembre 2015

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato l’assenza di nuovi casi negli ultimi 42 giorni, ma nella vicina Guinea Conakry il virus c’è ancora. L’infezione ha ucciso 3.955 persone in tutto il Paese nel corso degli ultimi 18 mesi, lasciando 12 mila orfani

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di Federica Iezzi

Freetown (Sierra Leone), 9 novembre 2015, Nena News – E’ finalmente arrivata, in Sierra Leone, la dichiarazione ufficiale da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sull’assenza di trasmissione del virus ebola per 42 giorni consecutivi.

L’infezione ha ucciso 3.955 persone in tutto il Paese nel corso degli ultimi 18 mesi, lasciando 12 mila orfani. La vicina Liberia è stata dichiarata libera dall’ebola lo scorso settembre, dopo 4.808 casi mortali. La Nigeria ha appena attraversato il traguardo di 61 giorni senza contagi dal virus.

In Guinea Conakry l’ebola c’è ancora. Un nuovo caso confermato nella prima settimana di novembre, nel distretto di Forecariah. Si tratterebbe di un neonato contagiato da madre malata. I decessi legati al filovirus in Guinea Conakry hanno raggiunto quota 2.536. Ancora 382 casi sono sotto stretta sorveglianza medica. Intanto continua in tutti i casi sospetti l’immediata vaccinazione con il rVSV-ZEBOV Ebola vaccine.

I numeri parlano di 28.607 casi documentati di contagio dal virus ebola, in Africa occidentale, e 11.314 morti.

Per ricordare le vittime del virus della febbre emorragica, un corteo di migliaia di persone ha sfilato lo scorso sabato sera, in tutte le strade del centro di Freetown, in Sierra Leone. Celebrazioni, lettura dei nomi delle vittime, riconoscimenti per i 35.000 membri del personale sanitario, che hanno combattuto senza sosta a fianco dello staff internazionale, si sono susseguiti all’ombra dell’albero di cotone di 600 anni, simbolo della città.

Ernest Bai Koroma, presidente della Sierra Leone, ha ricordato ai cittadini che è appena iniziato il periodo di sorveglianza di 90 giorni, seconda tappa fondamentale per dichiarare il Paese fuori pericolo. 1.437 persone sono state sottoposte a test di laboratorio nell’ultima settimana.

Il National Ebola Response Centre continuerà a operare fino alla fine dell’anno. E tutti i casi di morte sospetta dovranno seguire le procedure di sepoltura delle linee-guida tecniche, messe a punto dall’OMS.

Funzionari e operatori sanitari segnalano ancora come incogniti gli effetti collaterali a lungo termine nei pazienti guariti dalla malattia: meningite ebola-correlata, sopravvivenza del virus in particolari siti del corpo umano, meccanismi della trasmissione sessuale.

Partita da Gueckedou in Guinea Conakry, l’ebola si diffuse in Sierra Leone dal maggio 2014. Da allora almeno 14 mila casi documentati.

Coprifuoco, chiusura delle scuole e degli uffici pubblici, annullamento delle partite di calcio o delle proiezioni di film nei cinema, formazione specialistica di 1.970 medici e infermieri, implementazione dei servizi igienico-sanitari, istituzione di 160 unità di cura dell’ebola: questi alcuni del provvedimenti presi dal governo di Koroma, per cercare di arginare l’incalzante contaminazione.

Dai dati di Save the Children 1,8 milioni di bambini nell’ex colonia britannica hanno perso nove mesi di scuola.

La scura e straziante crisi sanitaria ha anche azzerato lo sviluppo economico in Sierra Leone, già devastata da 11 anni di guerra civile terminata nel 2002. Nena News

Nena News Agency “Sierra Leone libera dall’ebola. Ma il paese non è ancora fuori pericolo” – di Federica iezzi

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YEMEN. Sanità al collasso per bombardamenti sauditi

Nena News Agency – 05 novembre 2015

Devastate da mesi di raid aerei almeno 90 strutture sanitarie nel Paese tra ospedali, poliambulatori, farmacie, centri trasfusionali e laboratori. Il 23% degli ospedali del Paese non è più funzionante

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di Federica Iezzi

Roma, 5 novembre 2015, Nena News – E’ stato solo l’ultimo in ordine di tempo. Bombardamenti della coalizione contro i ribelli houthi, guidati dall’Arabia Saudita, hanno colpito un ospedale di Medici Senza Frontiere, nel distretto di Heedan, nel governatorato di Sa’da, nel nord dello Yemen. Negato così l’accesso alle cure mediche a 200.000 civili.

Devastate da mesi di raid aerei e combattimenti almeno 90 strutture sanitarie nel Paese tra ospedali, poliambulatori, farmacie, centri trasfusionali e laboratori. Il 23% degli ospedali del Paese non è più funzionante.

I dati dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani parlano di 5.564 morti, tra cui 410 bambini, e 26.568 feriti. 2,3 milioni gli sfollati interni.

La situazione sanitaria in Yemen è catastrofica. 400 membri del personale sanitario hanno lasciato lavoro e Paese dall’inizio del conflitto. Gli ospedali hanno cercato di compensare le mancanze aumentando i turni dei medici fino a 24 ore. 15,2 milioni di civili non hanno libero accesso all’assistenza medica di base. Registrata una diminuzione del 15% nella copertura di immunizzazione pediatrica; colpiti dai mortai anche centri di vaccinazione. Riportati 8004 sospetti di febbre dengue in sei governatorati. 144 persone sono già morte. Solo 2447 bambini sotto i 5 anni, donne incinte e giovani madri hanno beneficiato di supporti nutrizionali. Più di mezzo milione di bambini soffre di malnutrizione. Documentato un aumento del 150% di ricoveri ospedalieri per malnutrizione dallo scorso mese di marzo.

All’inizio di ottobre, distribuite dall’Organizzazione Mondiale della Sanità 15,7 tonnellate di farmaci essenziali e forniture mediche alle 40.000 persone, nelle aree di al-Moka, al-Hodeida e Taiz. Per garantire una continua fornitura di acqua potabile nell’ospedale di al-Jumuri, nel governatorato di Hajja, usati impianti con 2.800 metri di tubi di collegamento. La carenza di acqua è strettamente connessa alle interruzioni di elettricità e alla insufficienza di combustibile per i generatori.

Forti difficoltà di approvvigionamento nei maggiori ospedali yemeniti sono causati dai continui combattimenti tra ribelli houthi e forze fedeli al presidente Abd-Rabbu Mansour Hadi. Il Ministero della Salute yemenita gestisce con estrema difficoltà l’importazione di merci.

L’al-Sabeen hospital, il principale ospedale della capitale Sana’a, con più di tre milioni di utenze, continua a lavorare con un ritmo minimo di attività, a causa dell’accesso limitato ai farmaci di base e alle attrezzature. Blocco del 90% dell’approvvigionamento di forniture mediche dal porto di al-Hodeida, imposto dai combattenti pro-Hadi. Mancano i comuni farmaci per il trattamento dell’ipertensione, del diabete e delle malattie psichiatriche.

A Sana’a, il Comitato Internazionale della Croce Rossa ha invece iniziato la distribuzione di beni essenziali all’al-Thawra hospital, dopo settimane in cui i posti di blocco houthi avevano negato l’ingresso di aiuti umanitari. Completamente fermi pronto soccorso, radiologia, reparto di maternità e servizio dialisi. Giace in frantumi il Republic hospital, nel quartiere di Dar Saad di Aden, gravemente danneggiato dai bombardamenti. Secondo quanto dichiarato dall’associazione non-profit Save the Children, gli ospedali a Taiz sono sotto assedio dai ribelli houthi.

Chiusi, nella Taiz assediata dai combattenti houthi, lo Yemen international hospital, il military hospital e l’al-Safwa hospital per totale assenza di materiale sanitario. L’al-Rawdah hospital attualmente accetta solo casi di emergenza. Più di 1400 persone sono state trattate nell’ospedale nel solo mese di agosto. Per una popolazione di circa 600.000 persone, a Taiz erano attivi 20 ospedali, prima dell’inizio dei combattimenti. Solo sei di questi, oggi continuano la loro attività. Nena News

Nena News Agency “YEMEN. Sanità al collasso per bombardamenti sauditi” di Federica Iezzi

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NIGERIA. Liberarsi della poliomielite

Nena News Agency – 02 novembre 2015

Solo nel 2012, nel paese africano si erano contati più della metà di tutti i casi documentati nell’intero globo. L’ultimo risale al 24 luglio dello scorso anno, confermata l’assenza di nuovi casi nei 12 mesi successivi. Adesso inizia il periodo di sorveglianza di almeno due anni, prima che l’Africa sia dichiarata libera dalla malattia

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di Federica Iezzi

Abuja (Nigeria), 2 novembre 2015, Nena News – L’annuncio ufficiale arriva dall’Organizzazione Mondiale della Sanità: la poliomielite non è più endemica in Nigeria, ultimo paese dell’Africa in cui continuava una regolare trasmissione del virus.  Secondo la Global Polio Eradication Initiative, il partenariato pubblico-privato che guida la lotta per eradicare la malattia, l’ultimo caso di poliomielite in Nigeria risale al 24 luglio dello scorso anno. Tutti i dati di laboratorio hanno confermato l’assenza di nuovi casi nei 12 mesi successivi.

Adesso inizia il periodo di sorveglianza di almeno due anni, prima che l’Africa sia dichiarata libera dalla poliomielite, visto che si possono contare fino a 200 casi asintomatici di malattia, e quindi non si ha certezza del numero di serbatoi umani di virus attualmente presenti nel continente. L’ultimo caso è stato registrato in Somalia l’11 agosto 2014. Si aspetta dunque, in questa fase latente, la conferma da parte dell’OMS che gli ultimi campioni prelevati da persone in aree precedentemente colpite siano esenti da virus.

Solo nel 2012, in Nigeria si erano contati più della metà di tutti i casi di poliomielite documentati nell’intero globo. Portata avanti dal governo di Muhammadu Buhari un’enorme campagna di vaccinazione, che ha immunizzato contro il poliovirus 45 milioni di bambini sotto l’età di cinque anni.

I centri di vaccinazione hanno lavorato ininterrottamente per anni contro diffidenza, violenza e attacchi da parte dei militanti di Boko Haram. Secondo i dati dell’UNICEF, almeno mezzo milione di bambini negli ultimi cinque mesi è fuggito a causa di attacchi da parte di Boko Haram, mancando agli appuntamenti nei centri medici di vaccinazione. Per evitare recrudescenze della malattia gli operatori sanitari hanno concentrato l’attenzione anche sulle famiglie di rifugiati in fuga dalla Nigeria e dai Paesi limitrofi, come Cameroon e Ciad. Guerre e disordini civili rimangono il più grande ostacolo alla vaccinoterapia.

Per quasi un anno, nel 2003, alcuni stati della Nigeria del nord avevano boicottato il vaccino antipolio orale, credendo che fosse la causa della sterilizzazione femminile. Nel 2013 nove operatori sanitari impegnati nelle campagne di immunizzazione sono stati uccisi e tre rapiti nell’area di Kano, nella Nigeria settentrionale.

Grazie all’istituzione di centri operativi di emergenza per coordinare campagne di vaccinazione e raggiungere i bambini anche in zone inaccessibili, oggi il numero di famiglie che rifiuta la vaccinazione per i propri figli è diminuito drasticamente. Anche lo stesso nord-est nigeriano ora è arrivato ad un tasso di immunizzazione contro la polio che sfiora l’85%.  La vaccinazione ha ridotto il numero di casi del 99% a partire dal 1988, dopo che la poliomielite aveva paralizzato, in 125 Paesi, almeno 350.000 bambini ogni anno.

Frenata quasi ovunque, con un vaccino che costa solo pochi centesimi, la poliomielite rimane oggi endemica in soli due Paesi, Pakistan e Afghanistan. Nel 2015 sono stati segnalati 41 nuovi casi di poliomielite: 32 in Pakistan e 9 in Afghanistan. 200 i casi nel 2014.  Esperti di salute globali puntano a eradicare la poliomielite in tutto il mondo entro il 2018. Questo significherebbe eliminare la seconda malattia nella storia dopo il vaiolo. Nena News

Nena News Agency “NIGERIA. Liberarsi dalla poliomielite” – di Federica Iezzi

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