ANGOLA. Sempre più grave emergenza febbre gialla

Nena News Agency – 14/04/2016

L’Angola con le sue foreste pluviali, terreno fertile per il virus, è uno dei 34 Paesi in Africa, endemico per la febbre gialla. Il Paese è ancora fermo al livello due di emergenza, su una scala di tre gradi 

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di Federica Iezzi

Roma, 14 aprile 2016, Nena News –  Iniziata nella municipalità di Viana, nella città di Luanda, l’ultima epidemia di febbre gialla che ha aggredito l’Africa centrale. L’epidemia segnalata in Angola nel dicembre 2015, da allora si è diffusa in sei delle diciotto province del Paese ed è la più drammatica degli ultimi 30 anni.

L’Angola con le sue foreste pluviali, terreno fertile per il virus, è uno dei 34 Paesi in Africa, endemico per la febbre gialla. In base ai criteri dell’Emergency Response Framework, l’Angola è ferma ancora al livello due di emergenza, su una scala di tre gradi.

Dallo scorso marzo, 16 delle 18 province del Paese hanno riferito casi sospetti di febbre gialla. Trasmissione locale della malattia è stata documentata in due degli undici comuni della provincia di Huambo, a 600 chilometri dalla capitale Luanda.

Il virus della febbre gialla viene trasmesso dalle zanzare della specie aedes aegypti, presenti nelle zone tropicali di Africa e America latina. I sintomi includono febbre, mal di testa, dolori muscolari, nausea, vomito e stanchezza. La metà dei pazienti gravemente affetti che non ricevono trattamento muoiono entro un paio di settimane.

Il Ministero della Salute e i partner sanitari angolani, stanno tentando di contenere l’epidemia con l’arma della vaccinazione, distribuendo circa 65 esperti in epidemiologia nel Paese che sostengono la campagna di immunizzazione.

A partire dallo scorso marzo, con il supporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sono state vaccinate 6,4 milioni di persone nella sola città di Luanda. E ad oggi, l’87% della popolazione a rischio è stata vaccinata.

Iniziate le attività di vaccinazione anche negli ultimi tre distretti di Luanda: Rangel, Icolo-Bengo e Kissama.

Un totale di 7.355 milioni di dosi di vaccini contro la febbre gialla è stato reso disponibile con il supporto del Gruppo di coordinamento internazionale sul fondo per il vaccino febbre gialla.

Nonostante gli sforzi, le forniture di vaccini rimangono ancora scarse, con le scorte di emergenza quasi completamente esaurite. Sarebbero necessari ulteriori 1,5 milioni di dosi per vaccinare la popolazione a rischio nella provincia di Luanda. E dallo scorso gennaio, continuano ad aumentare i casi di febbre gialla in Angola, per un totale di almeno 1.562 casi sospetti, più di 490 casi confermati e 198 decessi.

Luanda, l’epicentro dell’epidemia, resta la provincia maggiormente colpita con 818 casi, di cui 281 confermati, e 129 decessi.

Casi di febbre gialla sono stati già esportati in Cina, Repubblica Democratica del Congo e Kenya. Namibia e Zambia sono in allerta per i casi importati.

L’epidemia sembra si stia muovendo verso la vicina Repubblica Democratica del Congo, dove già sono stati documentati 21 decessi legati alla febbre gialla.

Necessario, dunque, diventa espandere la copertura vaccinale in tutte le province interessate e migliorare la sorveglianza epidemiologica e il controllo vettoriale.

Il riacutizzarsi della febbre gialla è direttamente correlato ad una diminuzione del finanziamento alla salute pubblica. Il bilancio per le politiche sanitarie rivisto dal governo angolano di José Eduardo dos Santos, quest’anno è inferiore di circa il 33% rispetto ai fondi stanziati nel 2015, rendendo difficoltoso soprattutto l’acquisto di vaccini. Tagli anche alle spese per igiene pubblica e bonifica di ambienti da zanzare e parassiti.

L’OMS al momento non raccomanda alcuna restrizione di viaggi in Angola. La vaccinazione e le misure per evitare le punture di zanzara sono sufficienti per la prevenzione della malattia. Nena News

Nena News Agency “ANGOLA. Sempre più grave emergenza febbre gialla” di Federica Iezzi

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SIRIA. Assedio e fame a Deir Ezzor

Nena News Agency – 11/04/2016

L’ONU ha consegnato ieri aiuti umanitari alla città contesa tra opposizioni e governo e in parte occupata dall’ISIS, dove i prezzi del cibo sono alle stelle e in 200mila non hanno accesso a cibo e acqua con regolarità 

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di Federica Iezzi

Roma, 11 aprile 2016, Nena News – Con il Programma Alimentare Mondiale sono state distribuite altre 20 tonnellate di forniture alimentari ai civili assediati nella città di Deir Ezzor, all’inizio del conflitto siriano, intrappolata in un territorio conteso tra ribelli e forze governative, ora in parte sotto il controllo dei combattenti dello Stato Islamico. Deir Ezzor, provincia orientale della Siria, collega la “capitale” siriana dell’Isis, la città di al-Raqqa, al territorio controllato dal gruppo jihadista nel vicino Iraq.

Dopo il primo lancio aereo degli aiuti umanitari dai mezzi cargo delle Nazioni Unite, avvenuti lo scorso febbraio, ieri consegnato ai civili altro materiale in collaborazione con la Mezzaluna Rossa Araba Siriana. Prima dello scorso febbraio l’ONU non era stato in grado di raggiungere una stima di almeno 720mila persone in aree come Deir Ezzor e al-Raqqa.

Il lancio aereo di aiuti umanitari, per pericolosità e poche garanzie di riuscita, era l’ultima risorsa disponibile per la popolazione intrappolata a Deir Ezzor, che subisce senza sosta un doloroso declino. Volti di bambini uccisi dalla fame, in un posto dove il pane costa 40 dollari, un chilo di riso 80 dollari, un litro di olio 50 dollari e un chilo di pomodori 35 dollari. Dove la malnutrizione è più frequente dell’influenza. Dove le code per prendere meno di 20 litri di acqua, possono durare anche dieci ore. Dove manca il latte in polvere per i neonati che viene sostituito con cocktail di amido e tisane o da zucchero diluito in acqua. E dove la gente paga anche 25.000 dollari per fuggire. Questa è la realtà di vita a Deir Ezzor, un tempo prospera città nel cuore dell’industria petrolifera siriana.

Oltre 200mila persone vivono sotto assedio nei distretti di Deir Ezzor dal marzo 2014, critiche le condizioni negli ultimi undici mesi. Fino all’80% della popolazione non ha più pasti regolari. L’ingresso a cibo, acqua, vestiti e medicine è bloccato ed è impossibile entrare via terra con gli aiuti umanitari. Impossibile è anche l’ingresso al personale sanitario, se non nei campi spontanei alla periferia della città, dove migliaia di sfollati sono stati costretti a sopravvivere.

I rappresentanti delle 17 Nazioni, dell’organizzazione non governativa International Syrian Support Group, hanno specificato che l’obiettivo delle Nazioni Unite è quello di fornire aiuto alimentare alle 18 aree assediate del Paese entro poche settimane, con il sistema del lancio aereo degli aiuti.

In tutto il territorio siriano, il Programma Alimentare Mondiale fornisce cibo a più di quattro milioni di persone ogni mese, lasciando però fuori la maggior parte dei civili che vive nelle zone difficili da raggiungere o in quelle assediate. L’ONU stima che sono più di 480.000 i siriani che vivono nelle zone assediate da parte del governo, dei ribelli e delle forze della dello Stato Islamico, dove le razioni alimentari di un mese sono costituite da una manciata di legumi o riso, da appena due triangoli di formaggio fuso, da 200 grammi di margarina e 100 di zucchero.

Secondo Human Rights Watch, il governo siriano ha fermato gli aiuti ad almeno sei delle 18 aree assediate, dal momento della cessazione delle ostilità lo scorso febbraio. Rimangono dunque ancora bloccati i 250mila civili di Douma, Harasta, Arbin, Zamalka, Zabadin e Daraya. Solo negli ultimi giorni, mezzi delle Nazioni Unite sono riusciti a fornire cibo e forniture mediche a più di 80mila siriani in cinque zone assediate.

I numeri sono preoccupanti visto che sono sempre meno i convogli di aiuti delle Nazioni Unite che riescono ad entrare nelle zone assediate della Siria. Secondo i dati del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, nel mese di marzo gli aiuti umanitari hanno raggiunto solo il 21% dei civili intrappolati in aree assediate. Nena News

Nena News Agency “SIRIA. Assedio e fame a Deir Ezzor” di Federica Iezzi

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GAZA. Shaad e Salwa, bambini che tentano di tornare alla vita

Nena News Agency – 06/04/2016

La storia di due fratellini di Tal el-Hawa, rimasti gravemente feriti in un bombardamento israeliano durante l’offensiva militare Margine Protettivo dell’estate 2014. Come loro tanti altri bambini di Gaza, disabili per il resto della loro vita

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di Federica Iezzi

Gaza City, 6 aprile 2016, Nena News  – Ha ancora i segni di Margine Protettivo, l’ultima offensiva militare israeliana sulla Striscia di Gaza, la piccola casa di Shaad e Salwa, nel quartiere di Tal el-Hawa, a sud di Gaza City. Quartiere abitato da quasi 9.000 civili, pesantemente colpito da raid aerei e colpi di artiglieria. Una porta, la sera chiusa solo con un chiavistello, fa da ingresso all’armonia di una casa accogliente che ha dovuto rinunciare all’infanzia di due bambini.

Shaad ha 8 anni e a causa di una granata l’estate di due anni fa ha perso la vista e ha rischiato di non poter più camminare. La sua gamba sinistra porta ben visibili le profonde cicatrici di una guerra violenta e arbitraria. Salwa è la sorella maggiore di Shaad, ha 10 anni. La stessa granata ha colpito ancora quella famiglia. Salwa ha perso il suo viso pulito da bambina. Al posto della pelle liscia oggi c’è il ricordo di un’ustione che segna il suo volto, nonostante sia tutto sorridente. Un sorriso che contagia i suoi genitori e sua nonna.

Giocavano insieme fuori casa quando un rumore assordante dall’alto ha terrorizzato il quartiere e immobilizzato a terra i bambini. Tra sangue e polvere Salwa si è alzata da quella terra martoriata. Non riusciva a sentire niente ma con gli occhi cercava solo il fratello. Shaad non poteva muoversi. Sapeva di essere vivo ma non vedeva Salwa e non l’avrebbe mai più rivista. Vedeva solo ombre. Non poteva correre via da quel terreno che continuava a vibrare, perché la gamba sinistra non si muoveva.

Shaad ci dice “Sto bene, grazie a Dio”. Con la sorella, fu portato sanguinante, a bordo di una macchina, allo Shifa hospital di Gaza City. La madre continuava a gridare ai medici di non tagliare la gamba a suo figlio. Dopo un intervento di chirurgia ortopedica e tre interventi di chirurgia plastica, oggi Shaad riesce a stare in piedi. Cammina lentamente, appoggiato alle mura della sua casa. Lo attendono altre procedure ortopediche per stabilizzare il bacino e le ossa della gamba. Nel frattempo ha imparato a leggere con il sistema di scrittura braille. Ha un ‘libro speciale’, così lo chiama Shaad, che gli permette di continuare a studiare. Nonostante i movimenti inconsulti, le improvvise contrazione e gli scatti, ci legge alcuni passi del Corano con una pronuncia perfetta dell’arabo classico.

Ogni piccolo rumore, si trasforma ancora in confusione che Shaad avverte alzando il tono della voce. La mamma ci racconta che è il suo modo di manifestare la paura. La vicinanza della sorella, il solo sentire la sua presenza tra il vociare e il disordine, lo riesce a tranquillizzare.

Salwa lo scorso anno è stata sottoposta ad un delicato intervento di chirurgia plastica, che le ha restituito per metà il suo volto. Sotto i capelli ricci quasi non si nota la cicatrice. “Sono stata fortunata quel giorno, tante mie amiche non ci sono più. All’inizio non avevo più voglia di giocare, poi non sapevo con chi giocare, adesso è indifferente”, ci dice con una voce ferma.

Né Shaad né Salwa hanno ottenuto i permessi per uscire dalla Striscia di Gaza, per cure mediche.

Più di mille complessi residenziali sono stati presi di mira e almeno 17.000 case e famiglie sono state distrutte dall’esercito israeliano durante l’offensiva militare di un anno e mezzo fa contro il movimento islamico Hamas che però ha colpito soprattutto la popolazione e causato distruzioni immense. L’eredità di Margine Protettivo è la morte di centinaia di bambini. Almeno 3.000 quelli feriti e un centinaio quelli con disabilità permanenti. E secondo i dati degli ultimi report dell’UNICEF, 373.000 bambini e ragazzi palestinesi hanno bisogno di assistenza psicosociale e solo 3.000 di loro ne usufruisce.

Molti bambini, come Shaad e Salwa, sono stati testimoni di sei operazioni militari a Gaza in otto anni, che hanno toccato la vita a più di 5.000 bambini e hanno lasciato un numero sproporzionatamente alto di disabilità tra la generazione più giovane della Striscia. Nena News

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BURUNDI. Forza militare ONU per fermare le violenze

Nena News Agency – 04/04/2016

Gli scontri, iniziati lo scorso aprile, vedono contrapposti da un lato i sostenitori del presidente Nkurunziza e, dall’altro, coloro che ritengono il suo terzo mandato presidenziale una violazione della carta costituzionale e degli accordi di Arusha. La guerra civile ed etnica terminata nel 2005 ha causato circa 300.000 morti

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di Federica Iezzi

Roma, 4 aprile 2016, Nena News – Accolto dalle autorità del Burundi il consenso al dispiegamento di una forza militare delle Nazioni Unite nel Paese per fermare le violenze che rischiano di sfociare nell’ennesimo conflitto etnico. Via libera anche all’aumento del numero di osservatori dei diritti umani ed esperti militari dell’Unione Africana, in territorio burundese. Il Burundi è stato coinvolto in una spirale di violenze politiche da quando, lo scorso aprile, il presidente Pierre Nkurunziza, sfruttando una controversa interpretazione della Costituzione, ha vinto il suo terzo mandato con il 69% dei voti.

La crisi sanguinosa che ha ucciso fino a 900 persone contrappone i sostenitori del presidente Nkurunziza contro chi ritiene, la sua rielezione per il terzo mandato, una violazione al limite dei due soli mandati previsti dalla Costituzione e dagli accordi di Arusha, che nel 2005 avevano posto fine alla guerra civile ed etnica che aveva lasciato come eredità al Paese 300.000 morti. Dopo un fallito colpo di stato e due visite ufficiali da parte dell’ONU, il governo ha intensificato la repressione. Il risultato sono i più di 250.000 civili fuggiti nei Paesi limitrofi, Rwanda, Tanzania, Uganda e Congo, e le altre 15.000 persone sfollate all’interno del Paese.

L’ultima visita degli esponenti dell’ONU risale allo scorso gennaio. In quell’occasione, era stato verificato che 439 persone erano state uccise solo negli ultimi mesi, che le persone venivano selettivamente uccise – tutsi in questo caso – e che coloro che hanno ucciso cercavano essenzialmente di distruggere la leadership dell’altro gruppo. Il quadro è quello di una riprese delle feroci divisioni tra hutu, tutsi e twas. La risoluzione, figlia di un’analisi francese e disposta dai 15 Stati membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, si prefigge di lavorare con il governo del Burundi al disarmo, all’assistenza civile nello sviluppo, al monitoraggio e alla sicurezza sul confine con il Rwanda, all’avanzamento di uno Stato di diritto. Il Consiglio ha sottolineato la fondamentale importanza del dialogo tra maggioranza e opposizione, al fine di trovare una soluzione pacifica consensuale all’interno del Paese.

Nel testo della risoluzione si evince una diminuzione del numero di omicidi affiancata da un preoccupante aumento di violazioni dei diritti umani, arresti arbitrari, detenzioni, condanne senza processo, esecuzioni extragiudiziali, sparizioni e sevizie. Dunque nonostante alcuni progressi, compreso il rilascio di alcuni detenuti, la riapertura di una stazione radio indipendente e la cooperazione del governo con esperti di diritti indipendenti, le gravi violazioni non accennano a fermarsi.

L’opposizione chiede il dispiegamento delle forze militari per disarmare i violenti gruppi armati conservatori, tra cui le milizie alleate al partito di governo CNDD-FDD (Consiglio Nazionale per la Difesa della Democrazia-Forze per la Difesa della Democrazia), note come ‘Imbonerakure’. Ad oggi gli Imbonerakure hanno circa 50.000 membri in tutto il Paese e ricevono addestramento militare nella Repubblica Democratica del Congo. In molte zone rurali, le milizie agiscono in collusione con le autorità locali e con totale impunità. I timori di una guerra etnica hanno portato anche ad una crisi economica. L’economia del Burundi, che si basa molto sugli aiuti internazionali e sulle esportazioni di tè e caffè, si è ridotta di un ulteriore 7,2% rispetto allo scorso anno. Sospeso anche il sostegno finanziario diretto al governo del Burundi da parte dell’Unione Europea.

Il Burundi ha avuto una storia in cui la giustizia è stata negata e la vita ha continuato a scorrere in un modello di impunità. Negli ultimi 50 anni nessuno è stato punito per i crimini contro l’umanità e per i genocidi commessi dal 1993 al 2005. Nena News

Nena News Agency “BURUNDI. Forza militare ONU per fermare le violenze” di Federica Iezzi

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Gente di Idomeni

Il Manifesto – 01 aprile 2016

EUROPA. Il fronte greco-macedone. Tra i 14 mila rifugiati intrappolati nel fango alle porte d’Europa. E tra chi li sorveglia, che non è meno prigioniero di loro

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di Federica Iezzi

Idomeni (Grecia) – Chi è la gente di Idomeni? Non basta dire afghani, pakistani, siriani e iracheni. La gente di Idomeni è Jalil, un giovane con vecchie scarpe da trekking che cammina nel fango contro pioggia e freddo. Si lascia alle spalle bombe che piovono dal cielo, mine che esplodono sotto i piedi, proiettili che rompono il silenzio dell’aria. È Afshan, con i piccoli Sitarah, Tanaz e Jamshid al seguito, che cerca disperatamente una coperta. È Burhan un bambino di poco più di cinque anni che beve dalle pozzanghere che ancora non diventano marroni. Vicino a quell’acqua le mosche rabbiose lo invadono.

La distesa di piccole tende colorate punteggia i binari che attraversano Idomeni, parte della lunga ferrovia Salonicco-Skopje-Belgrado. Più che un punto di accoglienza sembra un ammasso informe di squallidi rifugi frettolosamente eretti, circondati da palizzate e folli rotoli di filo spinato che definiscono il confine con la Macedonia.

Gli accampamenti sprofondano nel fango e nell’acqua durante le violenti piogge che sembrano inghiottire ogni oggetto. Si vedono solo corti canali scavati con le mani o con un bastone di legno davanti all’ingresso di ogni tenda «Così si evita all’acqua di entrare dentro», ci dice Afshan in dari. «Sono in cerca di una coperta perché la scorsa notte l’unica che avevo si è bagnata con l’acqua che è entrata nella tenda. E con la pioggia non c’è nessuna speranza che oggi si asciughi».

E aggiunge: «Le tende non sono impermeabili». Poi inizia a raccontarci la sua storia. Una storia tra tante. Un nome, un viso, posti sconosciuti di vecchie rotte che sembravano abbandonate. Nella tenda si toglie il velo, ha lunghi capelli neri, la sua carnagione è scura e le sue mani spaccate dal freddo. «Arrivo da Khash Rod, si trova a sud-ovest dell’Afghanistan. Ho iniziato il mio viaggio tre mesi fa. Si entra illegalmente in Iran dalle sezioni delle frontiere meno custodite delle province meridionali e si viaggia spesso a piedi fino alla città sciita di Qom. A circa cinque chilometri dal confine tra Iran e Turchia, ti fanno scendere dal camion e ti lasciano lì. Si continua a piedi e si aspetta la notte per attraversare il confine, perché gli iraniani sparano. E i corpi senza vita rimangono lì. Senza preghiere, né notizie. Se si riesce ad entrare in Turchia, nella disperazione più totale, si hanno un paio di minuti per decidere se si vuole rischiare la propria vita su un gommone. Ci si imbarca per le isole greche di Kos o Lesbo, ormai quasi più senza pensare. Io sono arrivata a Lesbo, partendo dal porto turco di Izmir». Afshan si ferma e in quel momento sembra sentirsi solo il tintinnio del suo tasbeeh in mano. «Pensavo fossi arrivata. Non so come sono finita qui».

Dopo settimane di cammino e 7.000 dollari spesi, si ritrova intrappolata con i suoi tre figli in un posto che non le permette né di andare avanti, né di tornare indietro. «Nel distretto di Nimruz a dettare legge sono ancora i talebani, nonostante le forze armate dispiegate sulla terra. Mia figlia non può andare a scuola», cerca di farci capire.

E sì, c’è chi lascia casa, famiglia e vita perché la propria figlia non è libera di andare a scuola.

Al di là di un fossato disseminato di coperte, bottiglie di plastica e vestiti c’è la Macedonia, il piccolo stato balcanico glorificato a via di transito. Solo cinque minuti di treno e da Idomeni si è a Gevgelija, in Macedonia. Ma adesso è tutto proibito. Uomini in divisa, armati di lacrimogeni e proiettili di gomma sono diventati i custodi del perimetro dei Balcani, accanto agli Humvee scintillanti.
La rotta dei Balcani è ormai bloccata a Evzonoi, in Grecia, al confine meridionale della Macedonia, a Preševo in Serbia e a Šid alle porte della Croazia. Bloccata perfino prima di iniziare a Polykastro, a 25 km dal valico ufficiale di Idomeni.

Senza documenti si ritorna al punto uno. Cioè in Grecia. Sono 30 mila i rifugiati ora bloccati nel Paese. A Idomeni 14 mila rifugiati aspettano in uno scenario da incubo un segno dall’Europa, mentre i funzionari in preda al panico, con l’appoggio dell’esercito, lavorano ogni giorno per dar da bere e da mangiare a chi fugge da guerra, povertà, disoccupazione, morte, dolore.

Più di un milione di rifugiati hanno attraversato l’Europa nel 2015 e già 153.500 si sono riversati in Grecia via mare da inizio anno. Da Idomeni, trasferiti in questi giorni i primi mille rifugiati in campi nel nord della Grecia.

Dovuti alle scadenti condizioni igieniche a Idomeni, i primi casi di epatite A non sono tardati ad arrivare. La malattia si è diffusa nel campo, dove c’è poca acqua e dove ci sono lunghe code per usufruire delle poche strutture igieniche temporanee.

Nella tenda medica debordante di pazienti, donne in gravidanza, bambini con tosse, febbre e disidratazione riempiono l’aria. Fuori nel fango la gente si ripara con i lunghi impermeabili verdi, distribuiti nel campo ai più fortunati. Aspettano tutti davanti ai cancelli. E chi sorveglia i rifugiati non è meno prigioniero di loro.

Donne e bambini rimangono seduti su cassette di plastica davanti a una pentola da 500 litri di riso e lenticchie preparate dai volontari ai margini dei binari.

Il Manifesto 01/04/2016 “Gente di Idomeni” – di Federica Iezzi

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