Grida il nome di Allah

Cortile interno della moschea di Abu Fazal a Kabul

Cortile interno della moschea di Abu Fazal a Kabul

 

LiberArt – 20 aprile 2014

 

Kabul (Afghanistan) Era il 6 dicembre di poco più di due anni fa. Nella rigida Kabul come per gli sciiti di Iraq, di Iran e Yemen era la festa dell’Ashura.
L’Ashura commemora la battaglia di Karbala in Iraq e il martirio dell’Imam sciita al-Husayn ibn Ali, con un periodo di digiuno di due giorni, il 9 e il 10 del mese lunare di muharram, primo mese del calendario islamico.
Azem-Gul ha sette anni, ha una cardiopatia congenita. E’ stato operato appena nato in India, grazie ai risparmi di una vita della famiglia. Fa parte dell’esigua minoranza sciita afghana, storicamente prevaricata e tormentata dai sunniti talebani.
Con suo nonno ricordava la sofferenza e il sacrificio di al-Husayn ibn Ali, tramite preghiere, pianti, racconti e flagellazioni, nella moschea sciita che ospita la tomba dell’imam Abu Fazal Wali.
Il gesto violento eseguito in massa dell’autoflagellazione con spade e catene è il cuore vibrante della commemorazione dell’Ashura. E’ il simbolo del rimpianto che si ripete anno dopo anno, di non aver potuto aiutare al-Husayn ibn Ali e i suoi seguaci nella battaglia, in cui prese vita la separazione tra sciiti e sunniti.

Nelle prime ore di luce un prepotente fragore ha riempito l’aria sporca di Kabul. Quel giorno, la moschea sciita è stata l’obiettivo di un brutale attacco dei terroristi pakistani.
Un kamikaze si è fatto esplodere investendo i fedeli in processione. E non si è fatta differenza tra bambini, anziani, malati o sani.
Sconvolgenti le scene di dolore e disperazione mostrate da tutte le televisioni. Parole in arabo riempivano confusamente radio e giornali.
Si cercava il numero di morti, il numero di feriti, i nomi, i figli, le madri, i padri. Feriti a terra inermi con rivoli di sangue rosso vivo che coloravano i marciapiedi, brandelli di cadaveri sulle strade dove le auto continuavano quasi non curanti a calpestare.
I passanti che diventano soccorritori. I soccorritori che diventano vittime. Tutti aiutano tutti. Ognuno di loro lotta per la vita e, nella più rovinosa disperazione, trova il tempo per aiutare chi gli è accanto in quel momento, non importa se è sciita o sunnita, pashtun o hazara.
Nell’eco dell’esplosione grida di centinaia di bambini. Il risultato di alleanze, tradimenti e massacri. Tra quei bimbi c’è anche Azem-Gul.

Impotente il nonno, coperto di polvere, con schegge scure che gli feriscono profondamente le mani, con una miserabile e malferma corsa lo porta in braccio, dentro l’enorme ospedale pediatrico francese. Grida il nome di Allah. Lo grida inconsolabilmente, furiosamente.
Ma in quelle stanze non c’è Dio, ci sono solo poveri uomini che cercano di fare tutto quello in loro possesso, nel disastro più estremo, per strappare anche un bimbo in più da una morte sleale.
Il rumore del tritolo ha percosso rabbiosamente le orecchie di Azem-Gul, per giorni, mesi, anni. Ha ricevuto tutte le cure, ma l’anima è ormai malata.
Quelle schegge sulle mani di suo nonno non sono andate più via. Sono un segno di quel giorno maledetto. Quelle cicatrici di Azem-Gul oggi sono ancora lì. Sotto alla cicatrice una voragine.

 

LiberArt “Grida il nome di Allah” – di Federica Iezzi

 

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