REPORTAGE. Il campo tossico dove l’Europa scorda i migranti

Il Manifesto – 24 settembre 2019

REPORTAGE. Muri e migrazioni. A Vucjak, in Bosnia, si sopravvive senza assistenza, tra rifiuti e mine anti-uomo: il campo si trova sopra una vecchia discarica, l’acqua non è potabile e la terra, mai bonificata, è intrisa di veleni. E chi tenta la fuga in Croazia trova la polizia e il suo ‘gioco’: cibo confiscato e zaini dati alle fiamme

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Bosnia-Herzegovina – Vučjak refugees camp (photo credit Renato Ferrantini per One Life ONLUS)

di Federica Iezzi

Sarajevo – Nascosto tra le cime boscose del monte Plješevica e circondato da zone ancora minate delle guerre jugoslave, il campo rifugiati di Vucjak, nella Bosnia nord-occidentale, è una prova scioccante della crisi che si è abbattuta contro la porta di servizio dell’Unione europea. Le Nazioni unite hanno recentemente descritto questo campo, a pochi chilometri dal confine spinato croato, come del tutto inadeguato ad accogliere civili.

UNICO CAMPO in cui non sono presenti le grandi organizzazioni non-governative internazionali, è ufficialmente gestito dalla municipalità della cittadina di Bihac. E sotto-affidata, non ufficialmente, ai volontari della Croce Rossa locale di Bihac.

È sorto dopo che le autorità della Bosnia e i governi municipali del Cantone di Una-Sana, hanno deciso che i migranti non potevano più rimanere negli spazi pubblici o negli edifici abbandonati, entro i limiti della città.
Plastica, vetro, vecchi vestiti ormai diventati stracci, copertoni di gomme usate giacciono sul terreno contaminato.

Si tratta di resti tossici del passato. Il campo si trova sul sito di una vecchia discarica, in attività solo fino a qualche anno fa. Le condizioni sono terribilmente preoccupanti. La sopravvivenza è legata all’acqua non potabile, alla terra intrisa di anni di veleni, al solo lavoro dei volontari.

ALMENO UN MIGLIAIO di migranti sono ammassati in questo inferno. Provengono da Afghanistan, Iraq, Iran, Siria, Pakistan. L’accesso all’acqua è ridotto a dieci ore al giorno, non esiste un approvvigionamento idrico permanente.

Vucjak fa eco all’inumanità del campo profughi di Calais in Francia del nord e all’abietta inazione dei governi europei. La mancanza di infrastrutture di base e servizi igienico-sanitari a Vucjak viola profondamente le norme minime stabilite dai canoni delle Nazioni unite.

Nel bel mezzo del campo, un’enorme mappa mostra la posizione dei campi minati locali. Ogni giorno, più volte al giorno, camionette della polizia bosniaca riversano su Vucjak migranti che sono fuori dai circuiti dei centri di accoglienza temporanei, quelli dell’Organizzazione internazionale per le Migrazioni.

Come cani randagi, vengono scaricati in mezzo al campo, dopo aver aperto il portellone posteriore del furgone, sigillato da uno sfolgorante lucchetto. È strettamente proibito riprendere queste scene, non ci sono fotografie, video o materiali propagandistici, ma è una pratica che va avanti indisturbatamente.

Nonostante l’ingiustizia umanitaria, non sono le mine antiuomo, le condizioni precarie di salute o la mancanza di servizi igienico-sanitari che i migranti raccontano. Raccontano le violenze «passive» della polizia di confine. Nelle ultime settimane c’è un nuovo gioco che usa la polizia croata: rastrellare e bruciare cibo, vestiti, scarpe, zaini, telefoni dei ragazzi che tentano il game.

Nella programmazione dell’attraversamento del confine croato-bosniaco, si spendono circa 100 marchi (poco più di 50 euro) in generi alimentari, per lo più pane e derivati. Spesso quei 100 marchi rappresentano i risparmi di mesi, così bruciare il cibo diventa un segnale di terribile spietatezza.

Emad è fuggito dalla Siria, con la moglie e il figlioletto di appena due anni. Ha tentato il game ma l’hanno rispedito nel Borici temporary reception center della città di Bihac, derubandolo di tutto. Mentre lo staff medico dell’associazione italiana One Life Onlus visita il figlio, Emad ci porge una busta di plastica con un telefono all’interno. Ci chiede se lo vogliamo comprare, così con quei soldi può provare di nuovo ad attraversare il confine con la Croazia. È straziante. Non ci sono parole.

DAL GENNAIO 2018, quasi 36mila migranti sono entrati in Bosnia, rimanendo intrappolati tra le politiche europee, progettate per ridurre gli attraversamenti irregolari, e la situazione di stallo politico in Bosnia, che di fatto impedisce alle autorità locali di fornire protezione.

Dalla Turchia e dalla Grecia, sono due le principali vie di passaggio per la Bosnia: una attraversa la Macedonia del nord e la Serbia, l’altra attraversa l’Albania e il Montenegro.

In piedi nel campo di Vucjak, tra una folla di corpi maltrattati e ossa rotte, ci si trova di fronte alle feroci conseguenze della geopolitica europea. Nel cinico sforzo del governo croato di dimostrare di avere le carte in regola per aderire all’area Schengen di libera circolazione, il Paese respinge i migranti senza seguire le adeguate procedure di asilo.

IL VIAGGIO DI GULRAIZ inizia a Kunduz, in Afghanistan. Facciamo fatica a guadagnare la sua fiducia. La solitudine che accompagna i migranti è invalicabile. Sorridono, ma gli occhi sono vuoti. Mese dopo mese camminano senza alcun riposo e senza alcun appoggio. Si viaggia insieme ad amici di circostanza, a meri compagni di percorso.

Per un marco ha ricaricato il suo prezioso e vecchio telefono a Vucjak. Dopo qualche racconto, ci mostra sul telefono la mappa che userà per tentare il game partendo dal monte Plješevica, addentrandosi nel fitto bosco bosniaco, passando per la cittadina bosniaca di Šturlic, fino ad arrivare agli anelati cartelli del granicni prelaz, il valico di frontiera. Un firmamento di punti rossi, di luoghi, di coordinate, di passi compaiono sulla funzione ‘satellite’ di Google Maps.

Ci ferma un biondo poliziotto bosniaco. Camicia chiusa fino all’ultimo bottone, aria spavalda e bieche gambe di piombo. Ci prende i documenti. Cerca di intimorirci segnando i nostri nomi su un taccuino spiegazzato, senza darci alcuna spiegazione.

Il favoreggiamento all’immigrazione clandestina ha un confine sottile. Siamo costretti ad allontanarci. Lo facciamo con l’immagine negli occhi della mappa satellitare di Gulraiz, con le mani segnate da un viaggio inumano di Abdurahman che con ago e filo riparava il suo zaino, con gli occhi sgranati dall’incertezza dei ragazzi che non hanno un badge per il ’5 stelle’ dei centri di accoglienza temporanei.

Lasciamo la Bosnia con l’immagine di Ibrahim, poco più di tre anni, che segue camminando il suo papà, imitandolo con le braccia piegate all’indietro.

Il Manifesto ‘Il campo tossico dove l’Europa scorda i migranti’ di Federica Iezzi

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Voices from Bosnia

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Bihać – Bira refugees centre

On Oslobođenje 21/01/2019

di Federica Iezzi

Bihać – The answers also come from the broken spirits and the bruised bodies of people like Maned.

A jacket of some size larger, a bag on the shoulders, an hand always stretched towards those who are more in difficulty.

Maned has traveled for miles to reach with his family Bihać.

“We walked for 15 hours a day, every day. Our journey started in 2015 in Herat “, he tells us. With a bus from Kabul they reached the city of Zaranj, in the southwestern afghan province of Nimroz, on the border with Iran and Pakistan. “We traveled with 20 other people, we passed the iranian border at Pul-e-Abrisham and then the border with Turkey, to reach the eastern turkish Van province”. The journey continues on foot, following traffickers, to the western turkish city of Edirne, on the border with Greece. “We spent a year trapped in Idomeni, in wet tents and unofficial camps. Then the transition to the Macedonian town of Lojane, a receptacle of traffickers and corruption, on the northeastern border with Serbia. For another year we were rebounded from one refugees camp to another in Serbia”. From Serbia to Bosnia the last obstacle is the city of Zvornik, on the Drina river. Defeated by fatigue and pain, stripped of his last savings, he says “I’m an engineer and I’m not working since 2015”.

How do smugglers get paid? This is one of the most interesting of the findings.

Migrant families don’t pay the money directly to smugglers, they pay the money to a third party, usually a money handler, normally in one of the main bazaars in Kabul. The money is only released by that third party to the smuggler once the migrant has arrived safely in his or her country of destination. So think about this, there is a money-back guarantee on smuggling. If you don’t make it to your destination safely the smuggler gets nothing. The money taken from the third party, from the money handler, goes back to the family and the whole deal is called off. This is how it works in Afghanistan.

Oslobodjenje ‘Migrantske rute su i rute trgovaca ljudima’


On Oslobođenje 14/01/2019

di Federica Iezzi

Bihać –  Usman can’t walk for more than half an hour without stopping. It is the sad result of croatian police violence on the refugees. “I walked tirelessly from Lashkar Gah”.

In the last weeks the italian NGO One Life ONLUS, in Bosnia and Herzegovina, has regularly treated patients, sometimes even women and small children, with wounds allegedly inflicted by state authorities when attempting to cross into Croatia, where, according to their testimonies, their claims for asylum and protection are regularly ignored.

Painful arms and legs, with visible bruises under the clothes and under the covers, are the news masks of the harsh Bosnian winter.

“I left Bira refugees centre, in Bihać, in the afternoon. It is an open camp”, Usman tells us. At the entrance to the field there is an almost frenetic coming and going of people.

“I stayed out all afternoon, I had my backpack with me, so maybe someone understood that I wanted to try to play – The Game -. I walked until Velika Kladuša”. From the north-western city of Bosnia, the border with Croatia is two kilometers away.

“At the border I was beaten by policemen”. Usman has extensive bruises on his leg, back and face.

The staff of Bira refugees center in Bihać know the stories like Usman one. They keep the bed for 48 hours for people who try to cross the border: it is sufficient time to understand if they can pass or if they are sent back.

After repeatedly being pushed back or forced to return to Bosnia on their own, asylum seekers find themselves in settlements such as open fields and squats while formal government camps are full.

“The use of violence is clearly not acceptable. It’s not acceptable under European human rights law, it’s not acceptable under international human rights law and it is to my mind also, not necessary.  It is possible to control borders in a strict matter without violence”, tell us dr Federica Iezzi, president of italian NGO One Life ONLUS.

Oslobođenje ‘Čemu nasilje policije nad izbjeglicama?’

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Crossing the border is the beginning of the story

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On Oslobođenje 27.11.2018
Interview to Federica Iezzi by Edin Salčinović

 

Why you joined the humanitarian mission?

I’m following the balkan route from august 2015, when I worked in sanitarian field in Gevgelija, Macedonia.
Despite declarations by governments that improvements need to be made to peoples’ immediate conditions, this is far from happening today.
Between March and August 2015 transit countries try to adapt to the unexpected and significant increase in arrivals with reactive policies. For example, due to the influx of people, Macedonia changed its ‘Law on Asylum and Temporary Protection’. Migrants now must obtain a document that allows them to legally transit through and leave the country within a period of 72 hours.
These policies represent cynical complicity in the organised business of reducing human beings to merchandise in human traffickers’ hands.
The recent rise in people using Albania, Montenegro, Bosnia and partly Serbia as a new transit route to reach Western Europe, re-opening the European migration policies dilemma.
That’s why with the italian NGO ‘One Life ONLUS’ we are supporting in sanitarian aspect the migrant needs.

 

With what you’ve been facing since coming to Bosnia?

Last october, with One Life ONLUS, I start an official collaboration with IOM (International Organization for Migration), already present in Bihać and Velika Kladuša refugees camps.
From the 2016 EU-Turkey deal, what we have seen in Greece, in France, in the Balkans and beyond, are a growing trend of border closures and push backs.
This agreement created in March 2016 meant to ensure the deportation of almost all asylum seekers arriving in Europe, and has seen thousands of people stranded in legal limbo in squalid conditions.
Blinded by the single-minded goal of keeping people outside of Europe, European funding is helping to stop the migration flows, but this policy is also feeding a criminal system of abuse.
All people need access to protection, asylum and increased voluntary repatriation procedures. They need an escape to safety via safe and legal passage, but to date, only a tiny fraction of people have been able to access this.

 

Infectious diseases still represent an important cause of morbidity and mortality. Are migrants at risk of infectious diseases?

The most frequent health problems of newly arrived refugees and migrants include infectious diseases, accidental injuries, hypothermia, burns, gastrointestinal illnesses, cardiovascular events, pregnancy and delivery related complications.
Vulnerable individuals, especially children, are prone to respiratory infections and gastrointestinal illnesses because of poor living conditions, suboptimal hygiene and deprivation during migration, and they require access to proper health care. Poor hygienic conditions can also lead to skin infections.
In spite of the common perception of an association between migration and the importation of infectious diseases, there is no systematic association. Communicable diseases are associated primarily with poverty. Migrants often come from communities affected by war, conflict or economic crisis and undertake long, exhausting journeys that increase their risks for diseases that include communicable diseases, particularly measles, and food and waterborne diseases.

 

How do economic crises affect migrants’ risk of infectious disease?

When people are on the move and reach geographical areas different from those of their home country, they are more likely to experience disrupted or uncertain supplies of safe food and water, especially under difficult and sometimes desperate circumstances. In addition, basic public services, such as electricity and transport, can break down. In these conditions, people may be more prone to use inedible or contaminated food ingredients, cook food improperly or eat spoilt food. Refugees and migrants typically become ill during their journey, especially in overcrowded settlements. Living conditions can lead to unsanitary conditions for obtaining, storing or preparing food, and overcrowding increases the likelihood of outbreaks of food- and waterborne diseases.

 

Could act of migration be viewed as an opportunity for improving health – for example, through ensuring immunisation for people from countries with disrupted services.

Basic water, sanitation and hygiene standards are frequently not met during the journeys of refugees and migrants. Border or arrival points frequently lack sufficient numbers of sanitation facilities and washrooms; drinking-water is often not available in sufficient amounts, and the origin is unknown or water is untreated; hand-washing with soap and personal hygiene, including laundry, is often compromised. Waste bins and regular removal of waste in reception centres are insufficient, posing additional health threats for migrants, as flies, mosquitoes and rodents readily find breeding places.
It is important to prevent the development and spread of foodborne and waterborne diseases among refugees and migrants, especially during their stay in camps, where these diseases can easily attain epidemic proportions, especially in spontaneous settlements.
Access to sanitary facilities, including hand-washing, and sufficient amounts of safe drinking-water is critical for the prevention of food- and waterborne diseases, and water, sanitation and hygiene facilities at border points and reception centres should be thoroughly assessed.
Despite the widespread availability of vaccines in all countries of the Region, many people are opting not to avail themselves of the benefits of immunization due to misconceptions about vaccines. For others, access to vaccination services may be problematic.

 

Winter comes. Do the refugees in the camps in Bihać and Velika Kladuša have adequate living conditions?

The needs of refugees and the internally displaced are significantly higher during winter.
With One Life ONLUS, I’m deeply worried at the situation of refugees and migrants faced with harsh winter conditions across Europe. We have stepped up our assistance in several countries, including Bosnia.
Saving lives must be a priority and we urge States authorities across Europe to do more to assist and protect refugees and migrants.
Thousand refugees, asylum-seekers and migrants living in Bosnia, are now accommodated in heated government shelters. However, we are concerned at the situation of refugees who still stay rough in inadequate informal sites on the borders.

 

Who is responsible for this situation?

Three years since the start of the European refugee crisis, the continent’s politics are still convulsed by disagreements over migration.
The European Union’s immigration policy is a failure and was the greatest mistake made and will only pave the way for a humanitarian catastrophe.
We strongly reiterate our call to increase safe pathways for the admission of people in need of protection, including via resettlement, family reunification, private sponsorship and other mechanisms to provide a viable alternative to irregular movement and reliance on human smugglers.
The last EU-Turkey deal threatens the right of all people to seek asylum and violates your obligation to assist them.
Pushing people back to their country of last transit transforms asylum into nothing but a political bargaining chip to keep refugees as far away from European borders and the eyes of the European voting public as possible. Today, there is virtually no option left for people to safely reach European shores to claim asylum.
This deal is sending a troubling signal to the rest of the world: countries can buy their way out of providing asylum. If replicated by many nations, the concept of refugee will cease to exist. People will be trapped in warzones unable to flee for their lives, with no choice but to stay and die.

 

Do you think that Bosnian politicians could do more for refugees?

Last year, there were fewer than 1.000 migrant arrivals to Bosnia, but this year the Balkan country has seen at least 14.000.
In Velika Kladuša, a makeshift field camp on the outskirts of the town is home to about 800 people. Basic tents made from wooden sticks and tarpaulin provide temporary shelter for those planning a crossing, and those arriving back from violent returns.
In nearby Bihać, about 2.000 people are living, 30 to a room, in the concrete shell of a half-built building, left uncompleted by the bosnian war.
And other refugees camp are under construction.
The numbers heading north from Greece via Albania, Montenegro and Bosnia have considerably increased since last year, with Bosnia now struggling to provide accommodation and food to around 14.000.
It has put a particular strain on Bosnia, still in the long process of recovery from a 1992-95 war that killed 100.000 people and left the country divided along ethnic lines.
Bosnians memories of war and deprivation are still fresh, some residents have been quick to help, organising volunteers and donating food and clothes. But the situation has stirred fear and prejudice in others.
Dozens of local councillors and mayors from northwestern Bosnia staged a protest over the state’s handling of the situation. They are not against migrants, but they ask the Council of Ministers to find adequate accommodation and to get them off the streets.

 

While I was with migrants, they was constantly asking: “Will border be open?”. What do you think about that?

Croatia’s border with Bosnia stretches for several hundred miles and is porous, but getting across the border is just the start of the game.
Those, with the 2.500 dollars smugglers charge for the trip to Italy, spend a week or more walking, sleeping in the day and moving by night, attempting to stay inside forested areas and avoiding roads and villages. Often, they are found by Croatian police close to the border with Slovenia, driven to the Bosnian border and unceremoniously shoved back.
Croatia is not part of the Schengen zone of free movement inside the EU, but hopes to accede to it soon, and as such is keen to prove it can police the EU’s external border. Croatia, governed by the alliance HDZ-Most since January 2016, thus began to protect the EU’s external borders, frequently resorting to illegal rejection and violence.
Amnesty International, as well as a number of Croatian non-governmental organisations and media, have documented cases of police using disproportionate force. The use of violence is not an exception, but a consolidated practice.
Minister of the Interior Davor Božinović has declined all responsibility, emphasising the need to control the borders and fulfill the technical conditions set by the European Union to enter the Schengen area, which Croatia hopes to access in 2019. The insistence on respect for the law in stopping the flow of what are now called ‘illegal migrants’ contrasts with the behaviour of the police, which uses violence and sabotages the right to asylum outside any form of legal legitimacy.

 

Many migrants want to come to Italy. Is Italy a good country for them?

UN was alarmed by recent anti-migrant violence in European countries like Germany, Austria and Italy.
Italians of all political persuasions are irritated by the way immigration has been mismanaged.
Italy’s interior minister, the leader of the hardline anti-immigration policy, has been accused of fomenting intolerance and hatred towards migrants with his uncompromising rhetoric. As head of the hard-right Lega Nord party, he made bold promises during Italy’s election campaign earlier this year to kick out half a million migrants. But rhetoric has fallen far short of reality.
A lack of bilateral agreements with source countries, making it hard to send some nationalities back home, as well as the time it takes to process migrants’ requests for asylum and the appeals they are entitled to lodge if rejected.
The insane decision to close Italian ports to NGO rescue vessels had had devastating consequences for vulnerable people.
Salvini’s rise to power has heightened concerns in Italy about the escalation of racist and xenophobic violence in the country.

 

Right-wing politics are in expansion in Europe. Is that dangerous?

Across Europe, nationalist and far-right parties have made significant electoral gains.
The joint programme for italian government includes plans for migrants mass deportations, in line with the strong anti-immigration stance.
From its beginnings, as an anti-euro party, the far-right Alternative for Germany has pushed for strict anti-immigrant policies.
A far-right party in neighbouring Austria has vowed a hard-line on immigration.
The anti-immigration Sweden Democrats made significant gains in the last general election. The party has its roots in neo-Nazism.
The french far-right National Front is opposed to EU and blames Brussels for mass immigration.
Last april, Hungary’s Prime Minister Viktor Orbán secured a third term in office with a landslide victory in an election dominated by immigration.
Although it fell a long way short of a majority, the anti-immigrant Slovenian Democratic Party was the largest party in 2018 general election.
Here the disastrous european landscape.

Oslobodenje “Prelazak granice je početak priče”

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REPORTAGE “In fuga sulla ferita balcanica”

Il Manifesto – 27/10/2018

Reportage dalla Valle di Bihać. La rotta balcanica è ‘chiusa’ dal marzo 2016, ma nel 2018 sono stati migliaia i passaggi. Al confine croato-bosniaco 400 profughi da Siria, Iraq, Afghanistan e Sahel sono bloccati dalla polizia. Dietro c’è il Muro di Orbán. Camminano con una sola certezza ‘La guerra ci guarda da ogni direzione’

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Bosnia – Campo rifugiati di Velika Kladuša

di Federica Iezzi

Sarajevo – La rotta balcanica è stata calpestata da milioni di passi fino al 2016. Da Turchia e Grecia si addentrava per arrivare in Europa occidentale, attraversando Bulgaria e Macedonia prima, Serbia e Ungheria poi. Sebbene la rotta sia stata ufficialmente chiusa da quando il criminale accordo tra UE e Turchia è entrato in vigore nel marzo 2016, ci sono stati almeno 4.000 attraversamenti non documentati in Bosnia nei primi mesi del 2018. Spesso la provenienza è dai centri per richiedenti asilo e di accoglienza-migranti nelle regioni balcaniche meridionali, dove i rifugiati permangono ai limiti della sopravvivenza per mesi.

«LA POLIZIA di frontiera croata è l’ennesimo incubo» ci dice Faisal con visibili segni di percosse sul viso. Violenze, aggressioni e abusi sono i protagonisti dei racconti dei rifugiati. Il Ministero degli Interni croato nega tutte le accuse, insistendo sul fatto che la polizia ha sempre osservato la legge. «I rapporti della polizia croata sui cosiddetti pushback illegali non sono corretti», raccontano le dichiarazioni ufficiali.

LA POLITICA violenta di Orbán in Ungheria, la dura sorveglianza dei confini e la brutalità della polizia ungherese contro i migranti hanno spalancato le porte ad una nuova rotta attraverso i Balcani, che attraversa Albania, Montenegro e Bosnia. E così il commercio clandestino di essere umani, dal Sahel ha raggiunto anche la Bosnia. Qui i rifugiati pagano i contrabbandieri fino a 1200 dollari per il passaggio in Croazia o Slovenia. Altri tentano di attraversare il confine su camion o treni. La maggior parte ancora cerca di entrare in territorio croato a piedi.

DALLA GRECIA il passaggio in Albania è relativamente semplice sulla città di confine di Kakavia. A Tirana i taxi collettivi traghettano illecitamente i rifugiati fino al confine nord con il Montenegro. Nonostante il governo Rama conosca esattamente l’entità dei movimenti del passaggio non legale dei rifugiati, lo permette senza osservazioni. «In fondo in Albania rimangono solo per qualche giorno», sono le affermazioni dei funzionari, secondo i racconti raccolti tra i rifugiati.

UNA VOLTA giunti a Bozaj, sul confine montenegrino, la via continua seguendo a piedi la rete ferroviaria fino a Podgorica, la capitale montenegrina. È da qui che inizia il tragitto verso la Bosnia-Erzegovina, dove la sopravvivenza è legata spesso a campi non ufficiali e edifici abbandonati. Le strade partono dalle città meridionali di Trebinjie, Višegrad, Foca e Goražde, che attraversano l’intero Paese per arrivare nelle città nord-occidentali di confine di Bihać e Velika Kladuša. L’uso della violenza deliberata e calcolata da parte della polizia croata sul confine bosniaco-croato è l’ostacolo successivo, come accadeva con la brutalità della polizia ungherese sui confini della vecchia rotta balcanica. La Bosnia è sempre stata un rifugio per chi era in fuga. Nel 1400 accoglieva i profughi ebrei perseguitati in Spagna e Portogallo, e non nei ghetti, come fece la maggior parte dei Paesi europei, ma con l’integrazione a Sarajevo. E già dal Medioevo, il Paese accoglieva i catari del sud della Francia e i gli eretici bogomili.

NEI CAMPI profughi il tempo è fermo al giorno in cui ognuno dei rifugiati ha lasciato la propria casa. Per i bambini: lezioni a scuola congelate. Nessun lavoro per gli uomini. Nessuna quotidianità per le donne. Si dipende interamente dalla bontà o dall’indifferenza del vicino. Un crudele esperimento sociale. Nel centro di accoglienza di Bihać, per ora sono presenti almeno 400 rifugiati, per lo più provenienti da Afghanistan, Pakistan, Siria e Iraq, qualcuno dal Sahel dopo aver attraversato la rotta di Agadez. Di questi, la metà sono bambini tra i due mesi e i 16 anni. Alcuni con le mamme, altri sono soli, altri ancora sono accompagnati da amici di famiglia.

LA SITUAZIONE è totalmente diversa nel campo di Borici, tra Bihać e Cazin, dove le presenze cambiano freneticamente ogni giorno. Il ritmo incessante di nuovi arrivi e nuove partenze non permettono un censimento esatto. Ed è la stessa situazione che troviamo nel campo di Velika Kladuša, unico punto di raccolta gestito dalla municipalità della città, dopo la decisione dello stesso sindaco, Fikret Abdić , «originale» figura della crisi bosniaca. Già discusso manager del colosso agroalimentare jugoslavo Agrokomerc, a inizio guerra anni Novanta era il leader musulmano più popolare di Alja Izetbegovic. La rottura tra i due provocò quella con i musulmani di Sarajevo, quando Abdić proclamò la Regione autonoma del Bihać. Ne nacque una guerra feroce tra musulmani. Fu condannato a 20 anni per crimini di guerra in Croazia.

SEGUIAMO con gli occhi la ferrovia che attraversa la terra bosniaca e che si perde ai piedi dei boschi e tra i villaggi. Piccoli gruppi di rifugiati si fanno strada nella fitta nebbia delle montagne. Instancabili camminano verso nord, su strade secondarie, seguendo i binari dei treni o sfidando i boschi, dove non di rado pernottano. Basta guardare quanto fitti siano questi boschi di conifere, faggi e castagni, per capire come mai la scelta dei rifugiati sia caduta su questa via, in cui scemano le percentuali di essere arrestati e rimandati a morire nei propri Paesi. «La guerra ci osserva da ogni direzione. Non sai mai se ti stanno seguendo con un mirino o se sarai tu la prossima vittima», ci dice Saad. Le storie sono comuni e si ripetono in duri corsi e ricorsi storici. Il desiderio di ogni rifugiato è tornare nel proprio Paese di origine, anche se attanagliato e tormentato da migliaia di problemi. La guerra, la fame, la disperazione più profonda impedisce il rientro di questa gente nelle proprie case, nelle proprie vite. «Vedere morti e feriti abbandonati nelle nostre strade è normale», continua Saad. Questa è la grande distorsione dell’anima di quanto vivono. E allora chi è il vero responsabile dei flussi migratori?

«NON SO QUANTI chilometri a piedi ho fatto da Herat. Hai un paio di scarpe che ti devono bastare per tutto. Se è caldo o freddo non ha importanza. Alla fine di ogni giornata di cammino avevo le caviglie gonfie e ferite sulla pelle che non si rimarginavano mai. Si impara a sopportare quel dolore, così come quello delle ferite da freddo sulle mani. Respiri l’aria di chi cammina davanti a te. Il freddo ti entra nelle ossa. Ti scorre nel sangue. Di notte a volte non sai se sei ancora vivo o se sei morto. Se muoio, solo e abbandonato, a 4000 chilometri da casa chi lo dirà alla mia mamma? Quanto tempo ci vorrà per dimenticare tutto questo?». Ascoltiamo, indifesi contro l’indifferenza del mondo, in rispettoso silenzio, le parole e le lacrime di Tawfiq. Non c’è da aggiungere altro. Vengono etichettati come profughi, pensando che avere un permesso di soggiorno rappresenti il fine ultimo, quello che spalancherà loro la porta della felicità. Ma non è così perché quando la gente è costretta a lasciare il proprio Paese, quel Paese smette di vivere. Le poche cose che riescono a crescervi, marciscono in fretta.

IN QUELL’INFINITO viaggio porti con te solo un nome e cognome che ti martella la testa, nessun documento, nessun segno del passato. Sai solo come ti chiami e questo è l’unico patrimonio che puoi consegnare. Alla domanda come si continua a vivere in fuga dalla guerra, Taiba ci risponde: «Devi almeno pensare a quello che farai oggi e domani». Ha lasciato l’Iraq quattro mesi fa e spesso durante il viaggio l’unico tetto sopra la sua testa è stato un sottile telo di plastica sostenuto da bastoni. Ha smesso di fare piani per il futuro, ha smesso di sperare che tornerà a lavorare a scuola, ha smesso di credere che tutta la sua famiglia un giorno si riunirà. Ci dice, con una malinconica rassegnazione: «A Mosul non sarà possibile vivere per altri 20 anni».

NELL’ULTIMA campagna elettorale bosniaca, le voci nazionaliste sono state preponderanti. Qui il dopoguerra, in qualche modo, non è ancora concluso. In Bosnia Erzegovina tutti hanno vissuto la condizione di profughi e ora la nuova rotta balcanica occidentale, riapre lacerazioni non ancora cicatrizzate.

Il Manifesto “In fuga sulla ferita balcanica” di Federica Iezzi

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RIFUGIATI. Dall’Africa all’Europa: un anno in fuga

Nena News Agency – 20/12/2016

Nel 2016 quasi 171mila migranti sono arrivati nel Vecchio Continente dai Paesi africani, 360mila gli arrivi totali. Scappano da guerre civili e nazioni ridotte alla fame

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Idomeni – Dal villaggio greco di Idomeni i rifugiati hanno lasciato la Grecia per entrare nella Repubblica di Macedonia

di Federica Iezzi

Roma, 30 dicembre 2016, Nena News – Dall’ultimo rapporto diffuso dalle Nazioni Unite, il numero di migranti provenienti da Paesi africani che annega nel Mediterraneo nel tentativo di raggiungere l’Europa ha raggiunto il picco di 5.000. Poco meno di 3.800 il numero di morti nel 2015. Quasi 360.000 i migranti entrati in Europa via mare quest’anno, secondo i dati dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, arrivi concentrati in Italia e Grecia.

Il numero di migranti entrati in Italia dal continente africano ha toccato livello massimi quest’anno, sfiorando i 171.000. Su questa strada, secondo i dati dell’agenzia dell’ONU per i rifugiati, i principali Paesi di provenienza dei rifugiati sono Nigeria (15%), Gambia (10%), Somalia (9%), Costa d’Avorio, Eritrea e Guinea (8% ciascuno) e Senegal (7%). E più di 176.000 sono i rifugiati ospitati in centri di accoglienza in tutto il Paese.

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Calais – Il più grande campo di migranti d’Europa, abitato da almeno 3.000 persone, evacuato con la forza pochi giorni fa

E cercare i rifugiati prima che diventino rifugiati è molto difficile. In luoghi come l’Eritrea e il Gambia, la gente lascia illegalmente il Paese. Il più grande flusso delle moderne migrazioni africane è traghettato ad imbuto da un singolo Paese: la Libia.

Famiglie, con bambini e anziani al seguito, provengono dai Paesi del sud e dalle loro guerre civili, che lasciano Nazioni intere in rovina, provengono dai Paesi militarizzati dell’est, provengono da miseria e arbitrari governi dell’ovest. Fuggono in massa da almeno una dozzina di Paesi diversi.

I migranti vittime del fuoco incrociato sono spesso usati come pedine nella lotta per il potere. Alcuni arrivano per scelta, altri con la forza. La Libia è la fine di mesi o addirittura anni di deserto. E’ la fine dell’Africa. E’ il sottile confine prima del mare aperto.

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Lampedusa – La rotta più pericolosa: attraversare il Mediterraneo rappresenta un rischio altissimo

Intercettare il flusso significherebbe tracciare la metà di un intero continente. Per raccontare il ruolo della Libia nella crisi migratoria, si deve partire dall’instabilità lasciata da Mu’ammar Gheddafi e dal vuoto di potere della lotta tra fazioni. In questo contesto sociale le reti di contrabbando hanno prosperato, fino a creare un pianificato mercato lucrativo. Ciascun migrante arriva a pagare fino a 2.400 dollari per il viaggio dalla costa del Nord Africa verso l’Europa.

Di fatto 1.100 miglia del Paese sono diventate un confine aperto senza le forze governative di monitoraggio. L’Unione Europea nel 2008 ha sottoscritto un accordo con l’ex dittatore libico, accettando di pagare 500 milioni di dollari in cambio di uno stretto controllo sul confine. Obiettivo: no migranti. 5 miliardi in 20 anni fu il pacchetto finanziario destinato a correggere gli errori del colonialismo.

A differenza dei milioni di rifugiati provenienti dal Medio Oriente, i migranti che attraversano la Libia lo fanno in mezzo a una complessa rete di forze che hanno sradicato intere generazioni. Per anni, vaste regioni dell’Africa sub-sahariana sono state inghiottite da squallore e povertà estrema, schiacciate sotto il dominio di governi oppressivi, catturate da gruppi fondamentalisti. Il collegamento con trafficanti senza scrupoli, venditori di un passaggio sicuro verso una nuova vita, era tutto d’un tratto rappresentato solo da una telefonata.

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Macedonia – La rotta dei rifugiati, dal mare continua sul confine tra Macedonia e Serbia

Tombe senza nome. E’ questo che è diventato il punto più insidioso del Mediterraneo, in cui le sponde settentrionali della Libia si collegano alla serie di isole che circondano la costa italiana. Le autorità europee hanno cercato di reprimere la ‘blackdoor per l’Europa’ con rimpatri, sequestri, arresti, ma una nuova traballante versione sostituisce sempre la precedente e i viaggi non si arrestano.

Il piano della Commissione Europea sarebbe quello di ampliare il programma di rimpatrio dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, con un accento particolare su Libia, Mali e Niger. Inoltre prevedrebbe l’assistenza a circa 24.000 migranti bloccati per essere rimpatriati e la fornitura di un riparo temporaneo agli almeno 60.000 migranti dispersi lungo le rotte di migrazione.

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Mar Mediterraneo – Dal 2000 al 2013 sono morti più di 23mila migranti nel tentativo di raggiungere l’Europa via mare

La pressione migratoria dall’Africa si prevede continui a crescere nei prossimi anni. Gli esempi del 2016 sono stati cruciali, tra muri di cinta e filo spinato per segnare il confine di un Paese, a chiusura delle frontiere e passaggi senza nessuna umanità. A poche miglia a sud da Calais appare la giungla dei campi non ufficiali che ospita almeno 7.000 migranti, provenienti per lo più dai Paesi africani. Stesso discorso vale per Idomeni, in Grecia, parte della cosiddetta “rotta balcanica”, che i migranti hanno attraversato per giungere nei Paesi del Nord Europa.

E ancora i campi profughi in Grecia. Attraverso la rotta dei Balcani, più di un milione di migranti ha oltrepassato i confini europei. La storia è sempre la stessa, campi originariamente concepiti per poche centinaia, alla fine arrivano ad accogliere migliaia di migranti in spazi angusti e senza servizi. Nena News

Nena News Agency “RIFUGIATI. Dall’Africa all’Europa: un anno in fuga” di Federica Iezzi

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