La speranza di Aleppo

Il Manifesto – 12 gennaio 2017

REPORTAGE. La città assediata dal conflitto dal 2012 prova a ricostruirsi. I primi banchetti di verdure appaiono nel suq, gli ospedali registrano i nuovi nati. Sullo sfondo macerie e ferite aperte

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di Federica Iezzi

Aleppo (Siria) – “L’ospedale dove ero con i miei due bambini è stato attaccato quattro volte in tre giorni. Ci hanno fatto uscire dall’edificio perché era vicino al fronte di battaglia”. Ci arriva da lontano il racconto dalla delicata voce di Jamilaa. Esce dalla cucina e porta con sé una piccola teiera rossa, in quella sua casa attorniata da cadaveri di case.

«Come riescano a rimanere in piedi sventrate, rimane un mistero. In molte mancano porte e finestre». Alla nostra domanda sulle responsabilità di quei bombardamenti, lei risponde: «I nostri uomini sono i responsabili, che siano parte dell’esercito governativo o dell’opposizione. Gente che abitava queste case, gente che veniva curata in questi ospedali, gente che mandava i figli in queste scuole».

Rientrare con lei e la sua famiglia in quelle stanze, seppur profondamente ferite, riempie di gioia l’atmosfera ancora natalizia. Si, perché è stato Natale anche ad Aleppo per i 35mila cristiani rimasti, nel quartiere di Aziziyeh. Jamilaa ci racconta che conserva la carne sotto il sale perché l’elettricità non è sufficiente per il frigorifero. «Me l’aveva insegnato mia nonna quando ero piccola, non pensavo mi sarebbe mai potuto servire».

Dentro casa più o meno la temperatura è la stessa di quella fuori. C’è solo una piccola stufa elettrica che rimane accesa per qualche ora al giorno. C’è un caminetto ma non c’è legna da ardere.

I discorsi nelle strade di Aleppo sono velati di speranza. Speranza di tornare ad una vita normale. Per la prima volta dal 2012, le forze governative controllano l’intera Aleppo. Per la prima volta da allora, il conflitto non infuria.«Le notti sono silenziose. La mattina non ci svegliamo con il rumore assordante dei caccia», continua il marito di Jamilaa.

Per la prima volta si parla di ricostruzione. È iniziata sotto il freddo pungente una febbrile rimozione di macerie e detriti dalle strade principali. Tanta gente torna per vedere i propri negozi, le proprie case, per vedere se gli edifici sono in piedi. Nonostante l’enorme trauma e le ferite ancora aperte, tanta gente torna per restare.

Le priorità ora sono quelle del riscaldamento e dell’alimentazione. Le Nazioni Unite, entrate nella città, continuano a distribuire stuoie, coperte, vestiti, teli di plastica, per affrontare il continentale rigido inverno siriano. Le associazioni umanitarie assistono circa 20mila civili ad Aleppo Est, con pasti caldi due volte al giorno e acqua potabile. Più di un milione di persone hanno accesso di nuovo all’acqua pulita in bottiglia o tramite pozzi.

Le vie centrali di Aleppo sono oggi riempite da militari dell’esercito governativo con al seguito armi da fuoco, dalle bandiere siriane, dalla gente rimasta che cerca di comprare qualcosa da mangiare nei mercati ancora semivuoti. Ci sono teli colorati e bancarelle nella zona del mercato dell’antica città di Aleppo. Sono disposti in modo ordinato vicino l’al-Madina souq, il medievale mercato coperto, disegnato sulle mura della città, in gran parte distrutto da una guerra spietata, nonostante la protezione da parte dell’UNESCO.

È difficile da immaginare ora quel fiorente mercato che anni fa era il centro economico della città. Il grado di distruzione è estremamente grave. Le cicatrici profonde. I pezzi di storia perduti lacerano le memorie degli anziani. Le enormi quantità di macerie rendono irriconoscibili i luoghi, i passaggi, le strade, perfino per chi ha abitato la città per anni.

Non restano che crateri, rovine e sbiaditi ricordi di centinaia di negozi di sapone, spezie, seta, lana, rame, oro e prodotti della ricca agricoltura siriana. Molti venditori non possono offrire nulla se non qualche verdura, coltivata in cassette di legno davanti le proprie case. Spinaci e ravanelli sono i più facili da trovare. Il resto delle bancarelle rimane vuoto.

Servizi di Primary Health Care sono disponibili attraverso sette cliniche mobili e 12 team mobili, per la distribuzione di medicine, materiali sanitari e chirurgici, per il trattamento dei traumi, e latte per neonati. 8.836 visite: questi i numeri dall’inizio delle evacuazioni.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità e i partner del settore sanitario forniscono assistenza a 11 strutture sanitarie pubbliche coprendo un bacino di 60mila persone. Più di 10mila bambini sono stati vaccinati contro la poliomielite; 1.381 malati sono stati trasportati nei più attrezzati ospedali della parte occidentale della città.

Anche se non c’è nessun combattimento, qualche famiglia continua ad uscire dall’Aleppo orientale, dopo approfonditi controlli, attraverso il Ramouseh checkpoint a est della città. Lo stesso da cui sono transitati i feriti nei corridoi umanitari allestiti dalla Croce Rossa Internazionale.

Sono 116mila le persone che hanno lasciato la città dal giorno del cessate il fuoco, mediato da Russia e Turchia. Di questi, 80mila sono sfollati interni ad Aleppo ovest e 36mila hanno raggiunto Idlib. E negli ultimi giorni circa 2.200 famiglie hanno fatto ritorno nel quartiere Massaken Hanano. Sono rimasti in tutta la città circa un milione e mezzo di civili, contro i quattro milioni che si contavano prima dei combattimenti.

Ma sono tornati nelle strade i bambini. E i bambini sono lo specchio di come vanno le cose. Giocano al freddo e sperano nella scuola. Alcuni di loro non entrano in un’aula da cinque anni. Sono entusiasti di sfogliare di nuovo un libro, di fare il dettato in classe, di tornare a casa per fare i compiti invece di essere costretti ad ascoltare i rumori della guerra.

E, allora, chi ha vinto una guerra che ha provocato la perdita di oltre 500mila vite, costretto milioni di persone ad abbandonare le proprie case e scatenato onde di profughi in stati confinanti?

Le tracce di combattimenti sono quasi ovunque. Bossoli, proiettili, vestiti e documenti di soldati uccisi, sacchi di sabbia e teli, verosimilmente tane dei cecchini, pitturano le strade di una Aleppo senza forze. Un campo di battaglia che non ha risparmiato scuole e ospedali. Circondato dalla morte. Ancora traboccante di vittime di guerra. Pericolosamente a corto di provviste, con grave mancanza di acqua pulita e elettricità. Segnato da colpi di mortaio. Ma con di nuovo la possibilità di censire le nascite e permettere ai bambini di essere registrati come siriani. È questo oggi l’al-Bayan hospital nel quartiere di al-Sha’ar, Aleppo Est. Qui si lavora ininterrottamente.

Mezzanotte ad Aleppo significa luci spente. I pochi generatori di corrente rimasti si fermano, gettando interi quartieri nel buio. E l’ospedale non è un’eccezione. I macchinari elettrici iniziano a funzionare con i comandi manuali grazie anche all’aiuto della gente comune. C’è acqua pulita per poche ore al giorno. Ci spiegano che la maggior parte dell’acqua che arriva ad Aleppo proviene dalla diga sull’Eufrate, nell’adiacente provincia di al-Raqqa, roccaforte ISIS. Ad Aleppo arriva acqua per il 20% del suo fabbisogno.

M10 è stato il nome di battaglia dell’al-Sakhour hospital, nel quartiere omonimo, un ospedale nell’Aleppo orientale, diventato sotterraneo negli ultimi mesi di combattimenti. «L’inferno ha visitato l’M10 ogni giorno – ci racconta Hayyan, volontario della Mezzaluna Rossa Siriana – Pazienti dissanguati sui pavimenti, sale operatorie sovraffollate, medici e infermieri costretti a decidere chi avrebbe potuto vivere e chi sarebbe dovuto morire».

L’ospedale è stato bombardato almeno tredici volte fino a quando è stato gravemente danneggiato nel mese di ottobre.

Oggi come molti ospedali, l’M10 è stato sostituito da edifici identificati da una mezzaluna rossa. Nelle strade del centro storico, al disegno della mezzaluna rossa si associano lunghe file di attesa. File che hanno l’aspetto di un timido ritorno alla normalità.

Il Manifesto 12/01/2017 “La speranza di Aleppo” di Federica Iezzi

Il Manifesto Global “Hope for Aleppo as normalcy slowly returns” by Federica Iezzi

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GAZA. Sanità in ginocchio, vittima del blocco e dei conflitti politici

Nena News Agency – 10/03/2016

Intervista ad Angelo Stefanini, Coordinatore dei programmi sanitari della Cooperazione Italiana nei Territori Palestinesi Occupati dal 2008 al 2011 e rappresentante a Gerusalemme dell’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2002

UNRWA Primary Health Care

Intervista di Federica Iezzi

Gaza, 10 marzo 2016, Nena News – A seguire l’intervista realizzata da Federica Iezzi ad Angelo Stefanini, Coordinatore dei programmi sanitari della Cooperazione Italiana nei Territori Palestinesi Occupati dal 2008 al 2011 e rappresentante a Gerusalemme dell’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2002.

Com’è la situazione sanitaria a Gaza oggi?

La situazione sanitaria palestinese è frutto di tutta la sua storia. La caratteristica principale è quella della sua frammentazione. Frammentazione tra il Ministero della Sanità, l’UNRWA e le varie Organizzazioni Non Governative palestinesi e internazionali. Ognuna delle ONG ha la propria storia, loyalty, ambiti e compiti specifici. Nessuna inoltre sembra essere esente da posizioni politiche, anche se tutte si dichiarano apolitiche. Uno dei fattori principali che impattano e che sono responsabili di come si sta sviluppando o desviluppando il sistema sanitario sia in Cisgiordania sia a Gaza, risulta essere proprio la Comunità Internazionale con i suoi aiuti. L’enormità di aiuti che riceve un palestinese pro-capite è mal distribuita e consegnata con poca coerenza. E questo riflette il senso di colpa che ha la stessa Comunità Internazionale per non riuscire a risolvere la situazione politica. Anche se gli aiuti si pensa abbiano solo un impatto di tipo tecnico, in una situazione di conflitto come nei Territori Palestinesi, hanno indubbiamente un impatto sull’andamento di quello che una volta chiamavano ‘processo di pace’. Perché? Perché l’aiuto avrà un suo destinatario preciso che può essere una famiglia, un ospedale, un settore all’interno del sistema sanitario, una ONG locale, il Ministero della Sanità, l’UNRWA. Il fatto stesso che si aiuti uno e non evidentemente l’altro crea già i presupposti per un conflitto interno. Se con uno specifico aiuto viene rinforzata una sezione, viene indebolita in qualche modo l’altra, quindi inevitabilmente gli aiuti hanno un effetto divisivo nelle dinamiche interne.

L’effetto divisivo è visibile anche sulla popolazione?

Purtroppo anche sui civili. In queste ore un’enorme quantità di aiuti sta arrivando dagli Stati Uniti, per essere indirizzati esclusivamente al settore privato sanitario palestinese. Questo vuol dire che si va a rafforzare uno degli attori del sistema sanitario, a scapito dell’altro. E quindi a privilegiare uno degli attori che non dovrebbe essere il principale. Il sistema sanitario di un Paese democratico in genere dovrebbe essere gestito e governato dalla struttura politica. Le politiche sanitarie sono parte dell’entità governativa. In questo caso si rafforza un attore in un modo che decide il mondo esterno. Quindi anche il processo dell’identificazione delle priorità che, per definizione, è un percorso politico viene ad essere completamente scavalcato.

E’ una mossa politica da parte degli Stati Uniti?

Non forse esplicitamente ma in modo piuttosto ovvio, il Ministero della Sanità di Ramallah non ha mai avuto nessuna intenzione di rafforzare la sanità di Gaza, perchè il successo di questa sulla Striscia, sarebbe stato equivalente a un successo di Hamas. Le aspettative e le politiche di Fatah sono uno dei fattori principali che deframmentano il sistema sanitario gazawi.

Come l’occupazione ha modellato gli attuali sistemi sanitari a Gaza?

La situazione di Gaza è asimmetrica per la prevalenza di rifugiati. Ne consegue un autorevole potere dell’UNRWA, con i suoi interventi di alta qualità che operano solo in parallelo con il Ministero della Sanità gazawi. Un esempio è proprio la gestione ‘privata’ delle loro cliniche per la Primary Health Care. Uno dei progetti portati avanti dalla Ong Palestine Children’s Relief Fund Italia, al momento sostenuto dalla Regione Toscana, “Cooperazione sanitaria pediatrica per l’emergenza a Gaza”, prevede proprio l’organizzazione di un workshop per permettere prima di tutto la comunicazione tra le parti. Il fine ultimo è la collaborazione tra UNRWA, con i suoi centri sanitari che coprono il 70% del fabbisogno a Gaza, Ministero della Sanità, con i suoi servizi, i suoi ospedali e le sue strutture sanitarie, e altre ONG indipendenti. Le conseguenze dell’erogazione dei servizi in maniera frammentaria sono: le destinazioni difformi e la ripetizione degli stessi esami per la stessa persona in seno ai tre attori sanitari principali. L’impatto degli aiuti paradossalmente ha un effetto divisivo, rallenta il processo di pace e acuisce il conflitto, aumentando le divisioni e le discrepanze.

Quali sono le colpe dell’occupazione?

Alle morti legate alle offensive militari israeliane su Gaza, è da aggiungere una violenza strutturale, dovuta a una quotidiana perdita di salute per la situazione di povertà, di stress, di condizioni psicosociali degradanti. In Cisgiordania la violenza è indiretta, più subdola, fatta dalla frustrazione quotidiana di chi non riesce a muoversi, dalla demolizione delle case, dalle incursioni militari notturne, dalla paura per la tortura nelle carceri. Questo ha un impatto devastante nella stessa salute della popolazione. L’accesso ai materiali sanitari a Gaza è ridotto in modo considerevole. Per esempio, tutti i farmaci che vengono destinati alla Striscia devono attraversare il Central Store di Ramallah e spesso non ricevono il nulla-osta al passaggio.

L’ostruzionismo non è evidente, non è eclatante ma si percepisce chiaramente. Ancora, la qualità delle prestazioni mediche e dei servizi nei Territori Palestinesi continua a inclinarsi perchè se un medico palestinese non ha la libertà di partecipare a meeting o conferenze internazionali, non ha la possibilità di confrontarsi con altri medici, non può aggiornarsi per mezzo della lettura di articoli scientifici, non avrà mai uno stimolo a migliorare e ad aumentare il suo standard qualitativo. Possibile che non si possa fare in modo che i donatori si assumano le proprie responsabilità dal punto di vista di accountability? Se con un aiuto si crea un problema è responsabilità del donatore la risoluzione del problema.

La Comunità Internazionale fa di tutto per aiutare i palestinesi, però non riesce a smuovere di un millimetro la posizione di Israele da un punto di vista politico, dal punto di vista dell’occupazione. Mantenere lo status-quo vuol dire normalizzare una situazione che è inaccettabile secondo le norme del Diritto Internazionale Umanitario. E in questo modo la Comunità Internazionale si ritrova paradossalmente a sovvenzionare Israele. Secondo la quarta Convenzione di Ginevra, il Paese occupante ha la responsabilità del benessere del Paese occupato, e invece a Gaza la garanzia è data dalla Comunità Internazionale a proprie spese. E i fondi che Israele non spende per il benessere del Paese occupato, magari li spende per armamenti militari.

Come si può migliorare la salute della popolazione di Gaza?

Devono prima di tutto migliorare le condizioni di vita e i determinanti sociali, quali, il livello di occupazione, l’istruzione, la qualità della quotidianità. Ma finché si ha un Paese che viene mantenuto a livello minimo anche di alimentazione, tanti discorsi hanno poco senso. Il sistema può essere migliorato capillarizzando e uniformando i servizi sanitari di base, secondo i bisogni reali della popolazione. Sempre con l’idea del ‘primum non nocere’, quindi senza creare più divisioni di quelle che già sono presenti, a causa della non corretta distribuzione degli aiuti.

Il territorio di Gaza è ben coperto dai Primary Health Care che però non hanno tutti lo stesso livello di qualificazione. I centri dell’UNRWA sono molto più efficaci, molto meglio organizzati, molto meglio forniti rispetto a quelli del Ministero della Sanità. Perché gli investimenti sono maggiori, perché hanno un personale selezionato in base a qualità e non in base all’appartenenza politica. Nei Centri si inizia a portare avanti il programma della ‘Family Health Team’, in cui il personale sanitario lavora in maniera multidisciplinare avendo come target la famiglia nella sua interezza. Questo significa mirare l’intervento sanitario al benessere globale della famiglia. Nena News

Nena News Agency “GAZA. Sanità in ginocchio, vittima del blocco e dei conflitti politici” di Federica Iezzi

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FOTO. Il PCRF cura i cuori dei bambini di Gaza

Nena News Agency – 07/03/2016

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di Federica Iezzi

Khan Younis (Striscia di Gaza), 7 marzo 2016, Nena News – Da pochi giorni conclusa la diciassettesima missione di cardiochirurgia pediatrica sulla Striscia di Gaza. Altri nove piccoli pazienti sono stati sottoposti a delicati interventi al cuore, grazie al lavoro del team guidato dal dr Stefano Luisi, responsabile del Palestine Children’s Relief Fund (PCRF) – Italy Chapter, presso l’European Gaza Hospital, di Khan Younis, a sud della Striscia di Gaza.

Hanno partecipato alla missione: Stefano Luisi e Federica Iezzi (cardiochirurghi), Pierantonio Furfori, Carmelo Vullo, Cristiana Carollo e Tatiana Chicu (anestesisti), Vittoria De Lucia (cardiologa), Federica Raffin (perfusionista), Angela Prendin (infermiera), Martina Luisi (coordinatrice del PCRF Italia) e Angelo Stefanini (consulente per il PCRF Italia in materia di Primary Health Care).

Nelle 17 missioni di cardiochirurgia pediatrica, realizzate sulla Striscia di Gaza a partire dal 2013, di cui dieci tutte italiane, sono stati operati più di 150 bambini. Almeno 90 i bimbi operati durante le missioni italiane, a cui si aggiungono i piccoli sottoposti a procedure chirurgiche con i team australiano, inglese, americano, francese e belga.

Lavorando a stretto contatto con il team palestinese, i medici italiani continuano a portare avanti il piano di formazione sanitaria di giovani medici e infermieri palestinesi. Con estrema difficoltà, per le sempre più scarse e brevi occasioni di apertura del valico di Rafah, al confine con l’Egitto, unica via di uscita per i gazawi, conclusi già periodi di formazione in Italia per due di loro.

Grazie al progetto biennale “Cooperazione sanitaria pediatrica per l’emergenza a Gaza”, sostenuto dalla regione Toscana, verranno per la prima volta incrementate anche le iniziative del Primary Health Care, all’interno dei diversi distretti della Striscia. Il progetto in passato è stato fondamentale per il sostegno dei lavori di ristrutturazione e riabilitazione dell’European Gaza Hospital di Khan Younis, colpito duramente da Margine Protettivo, l’ultima offensiva militare israeliana.

Nena News Agency “FOTO. Il PCRF cura i cuori dei bambini di Gaza” – di Federica Iezzi

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