In Sudan la guerra chiude e occupa gli ospedali

Il Manifesto – 13 maggio 2023

REPORTAGE – AFRICA. Da Khartoum al Darfur è crisi sanitaria. Nella capitale le RSF si prendono 12 cliniche e i loro medici. A rischio parti e dialisi

Federica Iezzi, KHARTOUM

Secondo i dati del Preliminary Committee of Sudan Doctors’ Trade Union, dei 130 ospedali pubblici e privati della capitale sudanese, solo il 16% è parzialmente funzionante e con una capacità molto limitata.

La mancanza di energia per le attrezzature salvavita, i danni alle infrastrutture, la disperata carenza di forniture, acqua e personale sanitario, disegnano il quadro comune del settore sanitario attuale a Khartoum, a un mese dall’inizio dello scontro militare tra le Forze di supporto rapido (RSF) e l’esercito regolare guidato dal generale al-Burhan, capo di stato de facto del Sudan.

NONOSTANTE le condizioni strazianti, gli operatori sanitari sudanesi continuano a lavorare gratuitamente negli ospedali rimasti aperti e nei cosiddetti Resistance Committees, gruppi di medici e infermieri che cercano di compensare la carenza di assistenza sanitaria fornendo il primo soccorso nei quartieri martoriati.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha verificato 28 attacchi deliberati a strutture sanitarie, tra cui il centralissimo Baraha Medical City, a Khartoum north. Il Jaafar Ibnouf Children’s Hospital, uno dei maggiori ospedali pediatrici della città, è stato costretto alla chiusura temporanea.

Sono 19 invece gli ospedali evacuati con la forza. Le tipologie di attacchi comprendono saccheggi, ostruzione all’accesso e all’assistenza sanitaria, attacchi violenti con armi e occupazione forzata delle strutture.

Numerosi gli appelli alla comunità internazionale per istituire un meccanismo investigativo di monitoraggio, raccolta e denuncia delle violazioni al diritto internazionale umanitario.

Secondo il rapporto del Sudan Doctors’ Trade Union, i paramilitari delle Rsf hanno evacuato interi edifici del Khartoum Teaching Hospital, del Fedail Hospital, clinica privata nel distretto di Al Khartoum Basr, e dell’East Nile Hospital, usandoli come basi e ospedali militari. Il ministero della salute conferma l’occupazione da parte delle Rsf di 12 ospedali della capitale.

NAZEER, ricercatrice all’Università di Khartoum, ci racconta: «Lo staff medico è stato trattenuto all’interno degli ospedali. Sono stati arruolati nelle fila del personale sanitario militare».

Secondo la Sudan’s Union of Pharmacists, i combattenti delle Forze di supporto rapido hanno occupato anche il Medical Supplies Center, maggior punto di raccolta di materiale sanitario a Khartoum, interrompendo la catena di fornitura di farmaci salvavita, come l’insulina.

Al Kassala Teaching Hospital, ospedale pubblico nella capitale dello stato di Kassala, è parzialmente funzionante una sala operatoria e mancano completamente le cure critiche. E nell’ospedale di Atbara, nel River Nile State, a nord-est del Paese, mancano materiale ostetrico, attrezzature per trasfusioni, anestetici e farmaci di urgenza. Entrambi gli ospedali stanno fronteggiando il crescente afflusso di sfollati interni.

Ad Al Fasher, nel nord del Darfur, solo due ospedali sono in funzione e alcuni centri sanitari sono stati riaperti in seguito all’ultimo cessate il fuoco. Mentre ad Al Geneina, capitale del West Darfur tutti gli ospedali e i centri sanitari sono fermi.

Per le donne in gravidanza rimane critico l’accesso alle cure mediche e ai controlli. Grave rischio dunque per le emergenze ostetriche: già prima del conflitto il Sudan aveva un tasso di mortalità materno di 295 decessi ogni 100mila nati vivi, secondo i dati delle Nazioni unite.

LE MALATTIE croniche, che prima del conflitto erano trattate regolarmente, ora mettono ogni giorno a rischio di vita centinaia di civili. La situazione nei centri di dialisi renale a Khartoum sta diventando seriamente preoccupante, secondo il Sudan Doctors’ Trade Union.

Tutti i centri, che prima del conflitto gestivano 140mila sessioni di dialisi al mese, stanno esaurendo le scorte: ben presto i pazienti si vedranno costretti ad affrontare le temibili complicanze dell’insufficienza renale.

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Il corpo straziato del Sudan

Il Manifesto – 06 maggio 2023

REPORTAGE – LA GUERRA DEI GENERALI. Terza settimana di duri combattimenti tra esercito e paramilitari, con i civili chiusi in casa, privi di accesso a cibo e acqua potabile. Chi può fugge con ‘un biglietto per ovunque’, ma per i profughi è una penosa odissea verso i Paesi confinanti. Reportage da Khartoum, dove si concentrano gli scontri armati più feroci. Una partita senza misericordia

Federica Iezzi, KHARTOUM

Entrare a Khartoum è come entrare in un incubo a occhi aperti. Gambe di piombo e polmoni che bruciano, in questo pezzo di terra dimenticato da Dio, in cui le famiglie sopravvivono con poco più di 3 dollari al giorno e le persiane di colori spaiati fanno vivere le strade di polvere.

LA MORTE SEGUE CHIUNQUE passo passo. Ogni sparo, ogni esplosione, ti riporta alla realtà. Giorno e notte, senza tregua. I corpi straziati e la facilità con cui le persone scivolano nella morte chiudono una partita senza misericordia. Il resto non esiste, il resto non conta, il resto non c’è.

Si è aperta la terza settimana di feroci combattimenti tra l’esercito sudanese (Sudanese Armed Forces, SAF) guidato dal generale Abdel Fattah al-Burhan, leader de facto del Paese e il gruppo paramilitare Rapid Support Forces, comandato dall’ex generale Mohamed Hamdan Dagalo, detto “Hemeti”. Insieme, presero il potere con un colpo di stato nel 2021, ribaltando una fragile transizione al governo civile che era stata avviata dopo l’allontanamento, nel 2019, del sovrano Omar al-Bashir. Le tensioni sono sorte durante i negoziati per integrare le Rapid Support Forces nell’esercito governativo come parte del piano di ripristino del governo civile. Dunque, quale sarebbe stata la nuova gerarchia?

Attualmente i combattimenti sono concentrati nella capitale, Khartoum, ma si registrano scontri in tutto il Paese, incluse le città settentrionali di Merowe e Port Sudan, le città orientali di Kassala, Gadarif, Kosti e Damazin, le città del Darfur di El Fasher, Kabkabiya e Nyala.

IL BILANCIO DELLE VITTIME, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha tragicamente superato le 500 persone, tra cui 190 bambini, insieme a almeno 4.600 feriti e 330.000 sfollati interni riversati nelle aree di Wad Madani, Gadarif, Kassala e Port Sudan.

I bombardamenti in strada consumano il centro di Khartoum, nonostante la tregua sia stata ufficialmente prorogata di una settimana. Scontri armati particolarmente intensi continuano nelle aree intorno alle principali infrastrutture governative e militari nel centro della città. Duri gli scontri anche nelle zone commerciali settentrionali di Omdurman e Al-Khartoum Bahri.

Il Paese è entrato in uno stato di terrore permanente, gli attacchi aerei e gli scontri a fuoco colpiscono interi quartieri residenziali. Nella periferia sud di Khartoum manca l’elettricità da quattro giorni.

LA VIOLENZA NON RISPARMIA l’assistenza sanitaria che è a rischio di collasso a causa di una grave carenza di forniture mediche, acqua, carburante e elettricità. Il 60% delle strutture ospedaliere di Khartoum sono chiuse. La pressione sugli ospedali ancora parzialmente funzionanti è intensa. E la chiusura delle frontiere impedisce la consegna di forniture sanitarie. Oltre alla mancanza di accesso all’assistenza di emergenza, le malattie croniche diventano incurabili. E si apre anche lo scenario delle temibili epidemie di colera e febbre dengue.

Il deterioramento della situazione in Sudan arriva in un momento in cui circa 15,8 milioni di persone nel Paese – un terzo della popolazione – dipendono da aiuti umanitari. Era già evidente una grave carenza di personale medico – quattro medici ogni 10mila civili – e grandi differenze tra i servizi disponibili per gli abitanti delle città e i residenti nelle aree rurali.

Mentre il fumo nero dei bombardamenti sale sulla capitale, la maggior parte dei civili resta intrappolata nelle proprie abitazioni senza accesso a cibo, acqua potabile, medicine o carburante. Solo in pochi quartieri, quelli situati nella periferia nord della capitale, è rimasto aperto qualche mercato.

A MEZZOGIORNO, l’ora in cui l’intensità dei combattimenti sembra ridursi un po’, lunghe file per comprare il pane appaiono e scompaiono come fantasmi. E sembra un momento di pace e normalità in un mondo impazzito. Molti prodotti, come latte, uova, frutta e verdura, sono scomparsi dagli scaffali da settimane.

I combattimenti hanno spinto migliaia di civili a fuggire nei Paesi vicini, Repubblica Centrafricana, Ciad, Egitto, Etiopia, Libia e Sud Sudan, spesso tra comunità già vulnerabili. Finora i movimenti transfrontalieri più significativi sono stati verso Ciad e Sud Sudan. Almeno 52mila civili sudanesi sono entrati in Egitto dall’inizio del conflitto, 42mila in Ciad e 14mila in Sud Sudan, secondo i dati dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati.

I VIAGGI SONO DISORDINATI e molto costosi. I biglietti degli autobus costano più di cinque volte rispetto al periodo precedente al conflitto. La gente compra ‘un biglietto per ovunque’. E nei posti di blocco i controlli sono irruenti e violenti. Membri armati appartenenti a entrambe le fazioni in lotta salgono sugli autobus e controllano ogni passeggero, bambini compresi.

La situazione ai valichi di frontiera rimane caotica. Decine di autobus che viaggiano in convogli di notte, tra veicoli bruciati e strade martoriate, rimangono bloccati per giorni. L’UNHCR esorta i Paesi confinanti con il Sudan di consentire un accesso «non discriminatorio» ai loro territori.

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YEMEN, in lotta per la vita sulla linea del fronte

Il Manifesto – 03 giugno 2021

REPORTAGE – Nello Yemen malgrado il cessate il fuoco i civili continuano a morire. E 16 milioni di persone restano senza assistenza umanitaria. Reportage dai villaggi più esposti al confitto e dall’ospedale di Medici senza frontiere a al-Mokha, un gioiello in un Paese distrutto

di Federica Iezzi

Taiz, Yemen‘Prego Allah perché tu possa tornare presto’. Quando il tuo team meraviglioso ti dice questo guardando il cielo e portandosi le mani al cuore, significa che hai toccato l’anima del progetto.

Siamo nella città di al-Mokha, nell’ospedale di Medici Senza Frontiere. Mettendo piede nell’ospedale, ci si rende conto di avere tra le mani un gioiello in un Paese interamente distrutto dalla guerra. Strade devastate, case abbattute dalla furia delle bombe, case ricostruite a metà, uomini a piedi nelle vie principali con kalashnikov in spalla, delle donne nemmeno l’ombra.

L’ATTIVITÀ DELL’OSPEDALE è rivolta alle vittime dirette e indirette del feroce conflitto armato che logora il Paese da più di sei anni. È’ l’unico ospedale sulla costa occidentale yemenita che fornisce cure chirurgiche di emergenza alla popolazione civile, vittima della violenza legata alla guerra. I pazienti provengono principalmente dalle aree limitrofe alle linee del fronte del governatorato di Taiz (Mawza, Dhubab, al-Wazi’iyah) e da quello meridionale di al-Hudaydah (Khawkah, Hays, at-Tuhayta, ad-Durayhimi, Bait al-Faqih), aree controllate dalla coalizione guidata dall’Arabia saudita, dove l’accesso alle cure è sostanzialmente ineguale.

I combattimenti indiscriminati e le ostilità attive presso zone densamente popolate continuano ad essere una delle principali cause di morte per la popolazione civile yemenita. I distretti rurali sono duramente colpiti, con oltre il 60% delle vittime civili, la maggior parte delle quali si trova nel governatorato di al-Hudaydah, nei distretti di at-Tuhayta e Hays, e nel governatorato di Taiz. Proprio in queste aree, l’accesso all’assistenza umanitaria è gravemente limitato.

Nonostante il cessate il fuoco mediato dalle Nazioni unite a al-Hudaydah, il numero di incidenti civili nel governatorato è aumentato. Quando le linee del fronte sono dinamiche e mutevoli, l’impatto della guerra sui civili è spesso significativamente maggiore rispetto a quando le linee del fronte sono statiche.

IL CONFLITTO nel governatorato di Taiz è emblematico. Le rivalità regionali tra gli Stati del Golfo e l’Iran e l’ipercompetizione locale per il potere e l’influenza si sono sviluppate e intersecate, espandendosi a macchia d’olio in tutto lo Yemen. In una certa misura, gli scontri locali sono il risultato diretto di dinamiche regionali più ampie. Affermando una politica estera più proattiva negli ultimi anni, gli Emirati arabi uniti hanno promesso di combattere l’Islam politico – incarnato nello Yemen dal poliedrico partito al-Islah – in tutte le sue forme, in tutta la regione e oltre.

DOPO LA CITTADINA di al-Mafraq, a più di 40 km da al-Mokha, lungo la via segnata con i puntini blu su google maps, improvvisamente c’è un’interruzione della strada principale, che segna la vicinanza alla linea del fronte. Siamo a circa un chilometro dai combattimenti.
Proprio in quel tratto di strada sono posizionati i tiratori scelti. Si continua su una strada sterrata che allunga il percorso. L’interruzione è segnalata da una montagnetta di terra su cui è piantato un tubo in plastica. Tutti gli autisti sanno che quel segno corrisponde a una deviazione. Da quel momento solo le montagne dividono il terreno di combattimento, le strade e le case. Passiamo attraverso 12 posti di blocco con la medesima coda di controlli e dopo due ore arriviamo nel distretto di al-Wazi’iyah, nel governatorato di Taiz.

IL PAESAGGIO CAMBIA, rispetto alla west coast yemenita arida, ventosa e afosa. Ai piedi delle montagne, con l’acqua del Wadi Rasyan, regna il verde con acacie e palme. Attraversiamo piccoli villaggi. Incontriamo un farmacista che, dopo anni di studio e sacrifici, guida un camion che trasporta thè fino alla città di Aden: «Non ci sono altre opportunità di lavoro», ci dice.

Alcune Health Facilities sono state supportate da Save the Children, Yemen Humanitarian Fund e Unicef per anni. Da agosto non arriva più nulla. Nel villaggio di al-Khoba come in quello di al-Khuraif le storie si ripetono. Non arrivano gli stipendi per il personale, le medicine e i reagenti di laboratorio stanno finendo. Chiediamo che fine faranno. Ci dicono che con molta probabilità avranno un sostegno governativo, ma nel frattempo il flusso di pazienti diminuisce fino a scomparire. I movimenti dei civili sono ridotti al minimo per la vicinanza con la linea del fronte, per i posti di blocco militare e per le strade totalmente distrutte. Il risultato è che le cure sono dilazionate in modo preoccupante, con la cronicità dilagante di patologie altrimenti sanabili.

IL PERSONALE SANITARIO offre alcuni servizi a pagamento, come ecografie in gravidanza, esami di laboratorio, esami al microscopio. Alcuni distretti sanitari hanno all’interno farmacie private, i cui farmaci colorati come caramelle sono inconfondibilmente “made in China”. L’escalation del conflitto, il deterioramento della situazione economica, l’insicurezza alimentare e le condizioni nutrizionali indicano un imminente collasso.

Circa 20 milioni di persone nello Yemen, su una popolazione totale di 24 milioni, necessita di una qualche forma di assistenza umanitaria e protezione. Dal 2015, il conflitto ha costretto 4 milioni di persone ad abbandonare le proprie abitazioni, rendendo il Paese la quarta più grande crisi, se si parla di sfollati interni, al mondo.

IL NUMERO TOTALE DI VITTIME riportate è stimato a oltre 230 mila, principalmente nelle città di Taiz, Aden, Sana’a e Sa’adah. Le agenzie delle Nazioni Unite e le maggiori organizzazioni non governative hanno ripetutamente espresso preoccupazione per le violazioni dei diritti umani, esortando a fermare i bombardamenti indiscriminati.

Secondo l’ultima dichiarazione, rilasciata dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari, più di 16 milioni di yemeniti, due terzi della popolazione, hanno bisogno di assistenza umanitaria. Tra questi più di 12 milioni sono in grave bisogno. Nel frattempo, le malattie prevenibili sono diventate pervasive e la morbilità e la mortalità stanno esponenzialmente aumentando. Sono 15 milioni i civili senza accesso all’assistenza sanitaria di base, 400 mila i bambini che necessitano di sostegno psicosociale e 75 mila quelli che contraggono malattie abbattibili con i regolari cicli di vaccinazione.

IL CONFLITTO HA DEVASTATO i servizi sanitari. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, più della metà delle 5 mila strutture sanitarie dello Yemen non sono funzionanti o lo sono parzialmente, in 22 governatorati. Migliaia di professionisti sanitari sono sottoutilizzati a causa della distruzione delle strutture sanitarie, della mancanza di farmaci e dell’inaccessibilità della popolazione. Secondo il dataset 2020 dell’Health Resources and Services Availability Monitoring System (HeRAMS), dei 333 distretti dello Yemen, il 18% non ha affatto medici. Ma una particella di vita continua a combattere l’ultima disperata battaglia, nell’ospedale di Medici Senza Frontiere.

A AL-MOKHA ci sono sempre rumori: clacson, sirene, armi da fuoco, prove di artiglieria antiaerea, fuochi d’artificio. All’inizio sembra tutto un grande frastuono, tutto si confonde, ma poi inizi a riconoscere esattamente di cosa si tratta. Rumori di granate. Poi sirene. E già sai che devi correre a mettere la tua abaya per saltare nella macchina che ti porta in ospedale. Nell’aria c’è sempre odore di fumo, di polvere da sparo e di sabbia.

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Dall’Egitto al Camerun, crescono i casi di coronavirus in Africa

Nena News Agency – 13/03/2020

Il contagio da Covid-19 si sposta all’interno del continente africano, incontrando di fronte a sé sistemi sanitari deboli. Quasi tutti i governi hanno istituito controlli agli ingressi

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#outbreak #COVID19

di Federica Iezzi

Roma, 13 marzo 2020, Nena News – Continua il clima di allerta dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, riguardo i contagi da COVID-19 che entrano nei Paesi con sistemi sanitari deboli.

Quasi tutti i governi africani hanno messo pubblicamente in atto severi controlli nei punti di entrata, in particolare negli aeroporti. Casi di coronavirus sono stati confermati in Algeria, Tunisia, Marocco, Egitto, Senegal e Nigeria. Le compagnie aeree africane hanno cancellato voli di linea per la Cina ad eccezione dell’Ethiopian Airlines.

Il Nord Africa è sicuramente la regione più colpita, finora solo la Libia è sfuggita al contagio dilagante. L’Egitto ha attualmente all’attivo 59 casi confermati mentre l’Algeria ne ha 20, Tunisia, Marocco hanno 5 e 3 casi rispettivamente. E l’Egitto registra la prima morte legata a Covid-19 in Africa. Il ministero della salute ha confermato che il caso riguardava un cittadino tedesco di 60 anni, ricoverato per polmonite acuta in un ospedale pubblico della capitale.

Invece, il numero di casi confermati di coronavirus in Algeria è più che raddoppiato, negli ultimi giorni. Il ministero della sanità dell’Algeria ha riferito che la maggior parte dei casi è stata registrata nel distretto di Blida, a circa 30 chilometri dalla capitale, Algeri.

Il ministro della sanità tunisino Abdelatif el-Mekki, ha dichiarato la sospensione dei servizi di traghetto verso l’Italia. La notizia segue la conferma di un primo caso nel Paese, un cittadino tunisino arrivato di recente dall’Italia via mare. Altre misure adottate dalle autorità includono un terminal separato nell’aeroporto di Tunisi per i voli dall’Italia, che tiene separati i passeggeri prima di un processo di screening.

Il Burkina Faso ha confermato due casi di coronavirus. I pazienti sono di origine burkinabé ed erano di ritorno dalla Francia. Così il Burkina Faso diventa il sesto paese dell’Africa sub-sahariana a segnalare test positivi per il coronavirus.

L’Africa occidentale è la seconda regione più colpita con casi segnalati in Nigeria, Senegal e Togo. Il Camerun è l’unico paese dell’Africa centrale con due casi mentre nell’Africa meridionale solo il Sudafrica ha sette casi. Anche il Camerun ha confermato il primo caso di coronavirus. Si tratta di un cittadino francese di 58 anni che è arrivato nel Paese a fine febbraio. Il paziente è attualmente in cura nell’ospedale centrale di Yaoundé.

La Nigeria e il Ruanda intensificano le misure di controllo. Questa settimana il presidente nigeriano Muhammadu Buhari ha annunciato una task force sul coronavirus con l’obiettivo di aiutare a controllare la diffusione che ad oggi ha colpito due persone.

Il Ministro della Sanità nigeriano ha registrato il suo secondo caso di coronavirus, nello stato di Ogun, strettamente collegato al caso che ha coinvolto un italiano nello stato di Lagos. Il Nigeria Centre for Disease Control ha sottolineato che il paziente è stato messo in isolamento mentre continuano le tracce di altri possibili contatti.

Il Ruanda, nonostante non abbia confermato casi di coronavirus, si è mosso per intensificare le misure di prevenzione dell’epidemia che sta colpendo tutti i blocchi regionali del continente, con minor impetuosità l’Africa orientale. Mentre il Kenya identifica come aree ad alto rischio le due città costiere di Mombasa e Kilifi e la sua capitale Nairobi, per il grande afflusso di turisti.

Il ministro della sanità della Repubblica Democratica del Congo, Eteni Longondo, ha dichiarato in un comunicato ufficiale che ai viaggiatori provenienti da Italia, Francia, Germania e Cina, senza sintomi, verrà chiesta l’auto-quarantena di 14 giorni all’entrata nel Paese africano, mentre quelli con sintomi saranno immediatamente trasferiti in impianti di isolamento.

Il governo del Togo ha confermato il primo caso di infezione da coronavirus, nella capitale Lome. La paziente era entrata in Togo attraverso il confine terrestre di Sanvi Condji all’inizio di marzo, dopo plurimi spostamenti tra Benin, Germania, Francia e Turchia.

Il primo caso registrato in Sudafrica è stato identificato come un paziente di 38 anni che ha viaggiato in Italia. Gli altri casi sono riconducibili alla nave messa in quarantena a gennaio ‘Diamond Princess’. Nena News

Nena News Agency “Dall’Egitto al Camerun, crescono i casi di coronavirus in Africa

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Un mondo spietato con i bambini, in Somalia

Il Manifesto – 03 gennaio 2018

REPORTAGE. Nel Paese con i più alti tassi di malnutrizione acuta e mortalità infantile del mondo, dopo un anno di conflitti in cui 5 milioni di persone sono rimaste prive dei servizi sanitari essenziali. La salute è un modo potente per uno Stato di esercitare la sua autorità. E spesso le guerre civili coinvolgono Nazioni che sono grandi beneficiarie di aiuti internazionali. La malattia non rispetta i confini di un Paese. Tra i chirurghi italiani che operano nella regione del Somaliland, abbandonata dall’OMS perché ‘autonoma’

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Hargheisa, Somalia – Mohamed Aden Sheikh Children Teaching Hospital

di Federica Iezzi

Hargheisa (Somalia) – La situazione umanitaria in Somalia continua a deteriorarsi per portata geografica e complessità. Secondo il recente report Somalia – Humanitarian Needs Overview 2018, più di sei milioni di persone – dunque metà della popolazione, compresi tre milioni e mezzo di bambini – hanno bisogno di assistenza e protezione umanitaria. Il numero di bambini con diagnosi di malnutrizione acuta è aumentato del 50% dall’inizio del 2017, sfiorando il milione. I tassi di «Malnutrizione acuta globale» si confermano al 17,4%, ben al di sopra delle soglie di emergenza, fissate dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms).

OLTRE 5,7 MILIONI DI PERSONE hanno bisogno di servizi sanitari di base, compresi i bisogni critici nella salute materna e infantile. Malattie prevenibili nella prima infanzia come diarrea, colera e morbillo continuano a mietere spietatamente vittime. Più di 20.000 casi sospetti di morbillo sono stati recentemente segnalati nelle aree di Nugaal, Mudug, Bari, Banadir e Lower Shabelle, l’84% di questi casi in bambini sotto i dieci anni.

E le promesse del governo di Mohamed Abdullahi Mohamed per il 2018, prevedono una campagna nazionale di vaccinazione contro il morbillo che si prefigge di raggiungere più di quattro milioni di bambini.

SE L’ATTIVITÀ VACCINALE è ormai ritenuta come affidabile indice di qualità di buona sanità in Occidente, nelle realtà rurali africane è considerata ancora un bene di lusso. E il governo di Mogadiscio, al momento, si classifica negli ultimi posti del panorama mondiale. La copertura vaccinale del tetano-pertosse raggiunge il 51%, per il morbillo è stata invece segnalata una copertura del solo 6% nel periodo neonatale.

IL SISTEMA SANITARIO SOMALO è stato significativamente sotto pressione per anni a causa dell’instabilità legata al conflitto civile, che affonda le sue radici negli anni ’90. Ulteriormente sovraccaricato durante il 2017 a causa di siccità, malnutrizione e malattie infettive, è stato contrassegnato da elevati tassi di morbilità e mortalità evitabili.

La mancanza di un servizio di epidemiologia completo e affidabile, ha reso difficile identificazione, valutazione e informazione sui focolai infettivi in tutte le regioni del Paese, con riscontro di lacune nella fornitura di servizi conseguentemente faticoso.

Per un bambino nato in Somalia, il rischio di morire è il più alto al mondo. Il tasso di mortalità dei bambini sotto i 5 anni è di 137/1000 nati vivi e il tasso di mortalità materna non è molto più rassicurante, è dello 0,7%.

Su più di mille strutture sanitarie in Somalia, quasi 300 sono inaccessibili o impraticabili. C’è meno di una struttura sanitaria per 10.000 abitanti. Persino questi numeri nascondono le significative disuguaglianze in termini di disponibilità di servizi sanitari nelle diverse aree del Paese.

Le stime attuali parlano di almeno cinque milioni di persone, rispetto ai 12 milioni della popolazione complessiva, senza accesso ai servizi sanitari essenziali. Almeno tre milioni di civili vivono in aree difficilmente raggiungibili dai corridoi umanitari, che cercano di far fronte al dramma di un Paese mai uscito dalla guerra, un Paese che cerca invano di opporsi al potere delle decine di milizie senza distintivo che amministrano il territorio.

NELLE AREE PIÙ COLPITE da conflitti e dislocamenti, la fornitura di farmaci essenziali e del materiale sanitario di base segue percorsi infiniti. Lo conferma il direttore internazionale del Mohamed Aden Sheikh – Children Teaching Hospital di Hargheisa, nella regione autonoma del Somaliland, il professor Piero Abbruzzese. «Il programma dell’ospedale – dice -, risultato della professionalità italiana, dovrebbe essere quello di autonomizzarsi almeno per le spese del personale e per le forniture mediche di base. Occorre ancora il supporto italiano invece per i programmi di teaching e per il reintegro di materiali di alta specializzazione». L’ospedale resta un punto di riferimento nell’intero territorio del Somaliland, incidendo tenacemente sulle politiche sanitarie del Paese.

La fornitura di servizi sanitari di base è ancora scadente per i circa 30.000 sfollati interni che abitano le regioni di Lower Shabelle e Galmudug. E considerando la grande portata degli spostamenti interni e la persistente siccità, gli sfollati interni delle aree di Doolow, Luuq, Baidoa, Marka, Bossaso, Garowe, Burco, Gaalkacyo e Buuhoodle, non hanno addirittura un accesso sicuro all’acqua.

L’impegno esclusivo con le istituzioni ufficiali, in realtà valuta male l’impatto politico di quegli aiuti internazionali che dovrebbero essere neutrali e apolitici.

La limitatezza di assistenza di base in quelle zone in cui la minima soglia di sicurezza non viene assicurata, alimenta il vortice della strumentalizzazione dell’accesso ai servizi sanitari, che sempre più spesso purtroppo etichetta il corso dei conflitti armati. E allora, il benessere diventa un modo ancora più potente per uno Stato di esercitare ed estendere la sua autorità. Spesso, i territori contesi nelle lotte civili, coinvolgono Nazioni catalogate come grandi beneficiarie di aiuti internazionali.

LE MALATTIE non considerano i confini di un Paese come limitazioni. Ne è un esempio evidente la regione indipendente del Somaliland, di fatto non riconosciuta come tale dalla comunità internazionale. Abbandonata totalmente, per esempio, dall’Organizzazione mondiale della sanità, che considera la sovranità di un Paese come prerequisito essenziale per l’accesso agli aiuti. Il risultato è una fetta di popolazione, che conta 750.000 persone rinchiuse nella soglia di povertà, esclusa da servizi igienici e sanitari, scolarizzazione, assistenza sociale.

Con programmi centralizzati che si dimostrano inefficaci e fallimentari, la cooperazione diretta con le giurisdizioni locali, sembra l’unica soluzione.

È proprio questo lo spirito su cui si basa il lavoro portato avanti dalla dottoressa Elisabetta Teruzzi, direttore f.f. della Chirurgia pediatrica dell’Azienda ospedaliero-universitaria Città della salute e della scienza di Torino, impegnata in una missione umanitaria al Mohamed Aden Sheikh – Children Teaching Hospital di Hargheisa. «Sono rimasta molto colpita dallo stato di indigenza in cui vive la popolazione del Somaliland – ci dice – e in particolar modo dalla mancanza dei basilari servizi igienici e sanitari. I bambini sono le persone che pagano di più in termini di malattie e istruzione, basti pensare che un bambino affetto da una patologia da trattare chirurgicamente, per poter essere assistito, non può che lasciare il Somaliland».

«Non esistono centri ospedalieri – prosegue Teruzzi – dove i piccoli pazienti vengano operati da chirurghi a loro dedicati e questo non solo in Somaliland, ma anche in tutto il territorio somalo e in quello della vicina Etiopia».

È INNEGABILE che l’intera Somalia abbia fatto rilevanti progressi nel rafforzare i suoi servizi sanitari, ma restano aperte notevoli sfide da affrontare: un maggior sostegno nelle voci di bilancio annuale, che al momento garantisce meno del 3% al settore sanitario, l’enorme divario tra le aree urbane e quelle rurali, la necessità di una maggiore professionalizzazione e la regolamentazione dei servizi.

Continua la dottoressa Teruzzi: «L’assistenza sanitaria è solo a pagamento presso cliniche fatiscenti. A una famiglia, composta mediamente da 6 o 7 figli, sottoporre uno di essi a una radiografia o a un’ecografia, costa dai 50 ai 100 dollari americani, l’equivalente di uno stipendio medio mensile. Tengo però anche a sottolineare che i medici e gli infermieri incontrati durante la missione umanitaria si sono rivelati tutti validi e preparati, anche se rassegnati alla situazione imperante. La speranza è quella di poter continuare a sostenere strutture di assistenza sanitaria, in cooperazione con le giurisdizioni ministeriali locali, in modo che tali strutture possano continuare ad esistere e lavorare dopo che le missioni internazionali abbiano concluso il loro intervento locale».

Il Manifesto 03/01/2018 “Un mondo spietato per i bambini, in Somalia” di Federica Iezzi

Nena News Agency “Un mondo spietato con i bambini, in Somalia” di Federica Iezzi

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Il milione dello Yemen

Il Manifesto – 30 settembre 2017

Golfo. L’allarme della Croce Rossa: già 700mila i casi di colera, entro l’anno altri 300mila contagiati. Ci si ammala bevendo dai pozzi. E con gli ospedali distrutti o troppo lontani si muore nel proprio letto, senza nessuna assistenza. Quando per salvarsi basterebbe acqua pulita.

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di Federica Iezzi

Il colera è ovunque. L’ultimo preoccupante report del Comitato Internazionale della Croce Rossa afferma che l’epidemia di colera in Yemen è una spirale fuori controllo.

I casi sospetti hanno sfiorato i 700mila, più di 2mila le morti correlate alla malattia. Secondo quanto riferito in un briefing a Ginevra da Alexandre Faite, capo della delegazione del Comitato Internazionale della Croce Rossa in Yemen, è verosimile che si raggiunga un milione di casi di colera entro la fine dell’anno.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità disegna un piano in cui i casi sospetti di colera ormai serpeggiano nel 95,6% dei governatorati, in particolare in 22 su 23 governatorati e 304 su 333 distretti.

SI CONTANO PIÙ DI 5MILA nuovi sospetti contagi ogni giorno. La malattia continua a diffondersi a causa del deterioramento delle condizioni igieniche e sanitarie e delle interruzioni dell’approvvigionamento idrico.

Più di 14 milioni di yemeniti sono stati tagliati fuori dall’accesso regolare all’acqua, per non parlare del servizio di raccolta di rifiuti interrotto in tutte le grandi città. Il tasso complessivo di mortalità nel paese è dello 0,31%, il più alto è nel governatorato di Raymah, a est. I governatorati più colpiti comprendono Amran, al-Mahwit e Hajjah, al nord, e al-Dhale’e e Abyan, al sud.

Il disastro umanitario in Yemen non accenna a placarsi. Il paese è imprigionato in una spirale di violenze e patimenti che irrompono nelle vite di civili inermi, senza risparmiare neppure anziani e bambini.

E PROPRIO AI BAMBINI sono riservati i numeri più crudeli: il 54,9% di possibilità di contrarre il colera. Il colera è un’infezione acuta diarroica che si diffonde attraverso cibo o acqua contaminati. Può essere efficacemente trattata con l’immediata idratazione e con il repentino ripristino dei normali livelli di sali minerali nell’organismo, ma senza trattamento può risultare fatale.

LO YEMEN È DA ANNI teatro di una spietata guerra, capitanata ardentemente dalle forze militari di Riyadh. Mentre le morti da combattimento ottengono sporadicamente attenzione, i risultati indiretti del conflitto rimangono celati.
L’epidemia di colera, la malnutrizione incalzante, l’aumento delle morti da malattia infettive curabili, rimangono i più grandi assassini.

L’acqua che arriva nelle case è contaminata e la gente non la beve più. Si incontrano grossi serbatoi, spesso vuoti, su quelli che un tempo erano i marciapiedi delle strade principali delle città, ma non c’è approvvigionamento regolare. Nel governatorato di Hajjah, la gente beve acqua contaminata da pozzi e cisterne.

E la situazione è in peggioramento nel distretto di Abs, nel governatorato di Hajjah, nel nord dello Yemen. Qui nel mese di agosto è stato colpito l’ennesimo ospedale, sostenuto da Medici Senza Frontiere, che trattava i casi di colera.

IL DISTRETTO DI ABS ospita il numero più alto di sfollati interni, ma la maggior parte delle strutture sanitarie non funziona. Non ci sono né personale medico né attrezzature, né forniture sanitarie di base.

In 49 distretti, non ci sono medici. Almeno 30mila operatori sanitari locali non hanno ricevuto i loro stipendi da più di un anno, 3.500 centri medicali non hanno ricevuto fondi per il regolare rifornimento.

Quasi tutte le strutture e i servizi sanitari del paese hanno raggiunto livelli di cedimento irreversibili, non sono in grado di rispondere alla crescente necessità della popolazione, non sono in grado di affrontare malattie e traumi legati alla guerra. E, tuttora, molti ospedali vengono utilizzati illegittimamente come presidi militari.

LA MAGGIORPARTE della gente rimasta nelle proprie case non può permettersi nemmeno il trasporto dalle aree rurali ai centri medici più vicini. E allora diarrea, vomito, lento e tormentato spegnimento: si muore di colera in casa.

Nel suo piano di affrontare la malattia, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha previsto la distribuzione di vaccini per contenere il colera e sradicare il 90% dei casi entro il 2030. Ma contenere un’epidemia di tale entità è estremamente difficile e le probabilità di perdere sono molto elevate.

Secondo il Cholera Emergency Operations Centre, i partner umanitari in Yemen supportano 250 centri di trattamento, con più di 4mila posti letti e almeno mille punti di reidratazione orale in 20 governatorati. Una campagna di sensibilizzazione porta a porta continua a coinvolgere 40mila volontari, raggiungendo circa 14 milioni di abitanti persone.

Ma il 12% dei distretti in Yemen è ancora classificato come estremamente difficile da raggiungere, tra questi Marib, al-Jawf, Sa’ada, Hajjah, Taizz, al-Bayda. E più di 1,7 milioni di persone, in questi distretti, ha urgente necessità di assistenza umanitaria.

SECONDO I DATI DIFFUSI delle Nazioni Unite, più di 10mila persone sono state uccise dal conflitto, almeno 50mila sono i feriti e i disabili, 1,6 milioni di civili sono stati costretti ad abbandonare il paese e 3 milioni sono gli sfollati interni.

Gli anni di sanguinari abusi hanno trasformato l’agonizzante Yemen nel più grande bacino di insicurezza alimentare. In base ai dati diffusi dalla piattaforma Humanitarian Needs Overview, circa 20 milioni di persone hanno bisogno di assistenza o protezione.

Di questi, per almeno 9 milioni, il bisogno si trasforma in impellente urgenza. Inoltre 17 milioni di persone non si alimentano adeguatamente.

E tra questi, quasi due milioni sono bambini e un milione sono donne in gravidanza. Direttamente correlata alla mancanza di cibo è la malnutrizione: più di 400mila bambini sotto i cinque anni sono affetti da malattie connesse alla malnutrizione acuta.

Il Manifesto 30/09/2017 “Il milione dello Yemen” di Federica Iezzi

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YEMEN. Sette giorni in sette foto: guerra

Nena News Agency – 08/06/2017

Per una settimana vi proporremo ogni giorno una foto scattata dalla nostra collaboratrice Federica Iezzi a Sana’a. Sette foto per raccontare la vita quotidiana in un paese martoriato dalla guerra

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di Federica Iezzi

Sana’a, 8 giugno 2017, Nena News – Dal marzo 2015, il conflitto in Yemen conta più di 8.000 morti e almeno 44.000 feriti, secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Oltre tre milioni di persone sono state costrette a fuggire dalle loro case, troppo spesso senza sicurezza. Circa quattro milioni e mezzo di persone hanno bisogno di un riparo di emergenza.

Sono 18 milioni i civili che attendono sostegno umanitario e di questi, 12 milioni hanno bisogno di assistenza urgente. Su 333 distretti distribuiti nei 22 governatorati yemeniti, 43 continuano ad avere difficile accesso via terra, per gli operatori umanitari. In questi distretti vivono più di due milioni di persone. Marib, Sa’ada, e il governatorato di Taiz hanno il maggior numero di distretti difficili da raggiungere.

Secondo il Comitato Internazionale della Croce Rossa, tra marzo 2015 e lo scorso marzo ci sono stati almeno 160 attacchi contro ospedali e centri di salute con il loro personale, si sono ripetuti intimidazioni e bombardamenti fino a limitazioni all’accesso alla cura e alla somministrazione di farmaci. Nel mese di novembre 2016, c’era un letto di ospedale ogni 1.600 persone e circa il 50% delle strutture sanitarie non erano operative.

Più di un milione di studenti è stato costretto a bloccare gli studi al 2015. Uno studio condotto dall’UNESCO nel 2015 ha classificato lo Yemen come secondo fra i Paesi arabi, in termini di tasso di analfabetismo che oggi raggiunge il 30%. Nena News

Nena News Agency “YEMEN. Sette giorni in sette foto: guerra” di Federica Iezzi

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Ricordate la Somalia? Sta morendo di fame

Il Manifesto – 29 marzo 2017

Africa. Vent’anni dopo la missione italiana e l’omicidio di Ilaria Alpi, Mogadiscio è scomparsa dalle cronache. Ma è in piena carestia: 360mila bambini malnutriti, 900mila persone a rischio. L’Italia della cooperazione c’è con un ospedale pediatrico all’avanguardia

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di Federica Iezzi

Hargheisa (Somalia) – La memoria italiana ha lasciato la Somalia a 20 anni fa, con la missione di peacekeeping Restore Hope, a cui partecipò anche il nostro contingente, e l’omicidio di Ilaria Alpi.

Da allora solo notizie sporadiche: raccontati approssimativamente gli attentati del jihadista al-Shabaab, cellula somala di al-Qaeda, sfiorate da lontano le tematiche legate a siccità, carestie e malattie correlate, taciute le questioni politiche che girano intorno a istituzioni deboli, fazioni in lotta e disoccupazione dilagante.

ACCANTO ALLA VITA che riprende su Lido Beach, Jazeera Beach e Warsheekh Beach, le più frequentate spiagge di Mogadiscio, e accanto alle elezioni del nuovo presidente Mohamed Abdullahi Mohamed, “salutate” a febbraio da un attentato nel mercato di Kaawo-Godeey, nel quartiere Wadajir, il lavoro italiano non si è fermato.

Siamo ad Hargheisa, capitale del Somaliland, riconosciuta dalla comunità internazionale come regione autonoma della Somalia, soggetta al governo federale di Mogadiscio. Le mappe coloniali africane dal 1960 hanno subito solo due modifiche significative: la separazione dell’Eritrea dall’Etiopia nel 1993 e l’autonomia del Sud Sudan nel 2011.

La Somalia britannica nel 1991 ha autoproclamato la sua indipendenza, ma l’affermazione come paese non è mai arrivata. In questo lembo di terra è cresciuto il progetto del Mohamed Aden Sheikh – Children Teaching Hospital (MAS-CTH).

OSPEDALE COSTRUITO grazie all’ingegno italiano, è stato fortemente voluto da Mohamed Aden Sheikh, medico chirurgo, ministro della Salute in Somalia negli anni ’70 e prigioniero politico del regime di Siad Barre. La costruzione nel 2012 è stata seguita da un periodo di formazione in loco di una nuova generazione di medici e infermieri. Ed esattamente un anno dopo, il MAS-CTH ha iniziato la sua attività.

Il quadro è quello di un paese con oltre sei milioni di persone che necessitano di assistenza alimentare, più della metà della popolazione secondo le stime dell’ONU.

PIÙ DI 363MILA BAMBINI sono affetti da malnutrizione acuta, tra questi 71mila lottano contro forme di malnutrizione grave. Secondo il Cluster Nutrizione per la Somalia, se non verranno forniti aiuti con urgenza i numeri potrebbero quasi triplicare: in 944mila rischiano di entrare nel tunnel della malnutrizione nell’arco di quest’anno, inclusi 185mila bambini che avranno bisogno di sostegno urgente salvavita, secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

PIÙ DI 50MILA BAMBINI, secondo l’ONU, rischiano di perdere la vita. E la risposta della comunità internazionale alla minaccia della carestia in Somalia, ripercorre i gravi errori dell’ultima crisi risalente al 2011, che uccise 250mila persone.

L’UNICEF, con il supporto dell’European Civil protection and Humanitarian aid Operation (ECHO), ha istituito centri di nutrizione nei campi rifugiati somali, che finora hanno permesso un tasso di recupero del 92,4% per i 42.526 bambini gravemente malnutriti in tutta la Somalia. Il programma ha mostrato grandi progressi a partire dal 2013, fornendo assistenza a migliaia di bambini malnutriti e donne in gravidanza o in allattamento.

AD AGGRAVARE IL QUADRO è il gran numero di rifugiati che sta rientrando forzatamente nel paese: 57.329 somali sono tornati a casa dal dicembre 2014, quando l’UNHCR ha iniziato a sostenere il rientro dei rifugiati somali dal Kenya (di cui 17.359 solo nel 2017).

E per la fine dell’anno è previsto il rientro di oltre 79mila rifugiati: prese d’assalto la zona di Baidoa, a nordovest di Mogadiscio, e la zona di Kismayu, a sudovest della capitale.

MA MOLTI RIFUGIATI continuano a ritrovarsi senza un riparo e versano in condizioni igieniche gravi, diretta conseguenza della promiscuità nei campi profughi non ufficiali, nati nelle periferie delle città. La qualità dell’acqua provoca la rapida diffusione di diarrea e malaria.

Non ci sono latrine, le pratiche non igieniche espongono le comunità al rischio di gravi epidemie. Si contano ad oggi oltre 8.400 casi di diarrea acuta e colera. Più di 200 i decessi.

A pieno regime il MAS-CTH, nei suoi 13mila m2, garantisce assistenza sanitaria a tutta la popolazione pediatrica, fino a 14 anni. E ad oggi sono 50mila i bimbi visitati nell’arco dei passati cinque anni. Ogni giorno i piccoli pazienti accolti al MAS-CTH sono tra i 50 e 70.

OTTO CAMERE DI DEGENZA pediatrica e neonatologica per un totale di 36 posti letto, due camere di isolamento dedicate a bambini portatori di malattie infettive contagiose, ambulatori medici e di piccola chirurgia, farmacia, laboratorio analisi, centro malnutrizione e padiglione chirurgico, disegnano il corpo dell’ospedale.

Lo staff sanitario locale è costituito da cinque medici, 15 infermieri, due tecnici di laboratorio, due farmacisti, un nutrizionista, un health promoter e, come supporto, da personale per le pulizie, cuochi, addetti alla lavanderia, autisti, guardie, logisti, tecnici.

Negli anni passati personale internazionale ha accompagnato il team locale con attività di insegnamento e training specialistico. E attualmente specialisti internazionali coadiuvano l’attività del centro mediante missioni umanitarie.

QUALI SONO I PROGRAMMI futuri dell’ospedale? Lo abbiamo chiesto alla dottoressa Khadra Ibrahim, direttore generale: «La gestione amministrativo-finanziaria è attualmente sotto la completa responsabilità del governo del Somaliland. I piani legati alla sostenibilità sono dunque stati ereditati dallo stesso governo. I prossimi passi da affrontare sono l’ottimizzazione dei trattamenti per la malnutrizione, già in esecuzione in un’ala dell’ospedale, la specializzazione delle cure nella già presente terapia intensiva neonatale e l’ampliamento del dipartimento chirurgico, già operativo».

Abbiamo anche chiesto alla dottoressa Ibrahim se il MAS-CTH ha inciso nelle politiche sanitarie del Somaliland. «È l’unico ospedale pediatrico del Somaliland. È diventato, relativamente in poco tempo, un punto di riferimento per l’intera popolazione pediatrica somala. La programmazione di periodi di tirocini formativi per il personale sanitario e l’attenta gestione mirata alle cure dei più piccoli, hanno reso l’ospedale meritevole di guadagnare gli standard qualitativi occidentali».

INTELLIGENTE MODELLO di cooperazione internazionale, entrato imponentemente nell’assetto sanitario del paese, il MAS-CTH, incidendo sulle politiche sanitarie del Somaliland, riveste oggi l’importante compito di punto di riferimento per l’intera popolazione pediatrica.

L’opera, finanziata dall’associazione torinese Soomaaliya, grazie ad un contributo del Ministero degli Affari Esteri, dalla Fondazione La Stampa ‘Specchio dei tempi’, da contributi della Marco Berry Onlus e della Mediafriends Onlus, rimane il più grande progetto sanitario realizzato dalla guerra civile nel 1991.

Il Manifesto 29/03/2017 “Ricordate la Somalia? Sta morendo di fame” di Federica Iezzi

Radio Città Aperta “Somalia, la guerra dimenticata e le nostre responsabilità”

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Carestia in Somalia. Federica Iezzi, medico sul campo nell’emergenza

@Mentinfuga – 24/03/2017

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Intervista di Cristiano Roccheggiani a Federica Iezzi

Impantanati nella melma delle sabbie mobili della grande crisi economica e sociale che attanaglia le nostre vite, chiuse sempre più ermeticamente nelle nostre città, ci siamo dimenticati ancora una volta dell’Africa. E pensare che a questo Continente, che abbiamo spogliato mentre lo condannavamo a un eterno non-futuro, la nostra civiltà deve tanto. Per il grande debito morale e umano che vi abbiamo contratto; e perché lo sfruttamento sistematico delle risorse ha consentito a tutti noi di poterci permettere vite, nonostante tutto, ancora comode.
Proprio nei giorni in cui ricorre il ventitreesimo anniversario dell’assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, giungono in queste ore drammatiche notizie dalla Somalia, dove la terza carestia in 25 anni, sta portando alla diffusione di epidemie come colera e morbillo tra le popolazioni, soprattutto, come è solito in queste situazioni, bambini. Testimoni di questa nuova emergenza umanitaria sono ancora una volta i medici volontari che, insieme alle diverse organizzazioni non governative presenti nella zona, cercano disperatamente di portare il loro aiuto nella speranza di ridurre il più possibile le perdite umane.
Tra queste persone meravigliose, dalla generosità e umanità sconfinate, c’è Federica Iezzi. Cardiochirurgo pediatrico, ma anche curatrice di un sito web (http://www.federicaiezzi.wordpress.com) di informazione continua, chiediamo a Federica di farci un resoconto di queste drammatiche ore.

Federica, innanzitutto com’è ora la situazione?
Il numero di persone che necessita di assistenza alimentare in Somalia attualmente è di 6.2 milioni, oltre la metà dell’intera popolazione del Paese, a causa del peggiorare della siccità, della conseguente carestia e della presenza incombente del gruppo estremista islamico al-Shabaab.
Oltre due milioni di persone, che hanno bisogno di assistenza alimentare, sono al momento irraggiungibili a causa delle condizioni di insicurezza.
Più di 363mila bambini sono affetti da malnutrizione acuta, tra cui 71.000 affetti da forme di malnutrizione grave. Secondo il Cluster Nutrizione per la Somalia, se non verranno forniti aiuti con urgenza i numeri potrebbero quasi triplicare: in 944mila rischiano di entrare nel tunnel della malnutrizione nell’arco di quest’anno, inclusi 185.000 bambini che saranno gravemente malnutriti e che avranno bisogno di sostegno urgente salvavita, secondo i dati diffusi dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. In questo momento, secondo le Nazioni Unite, più di 50.000 bambini rischiano di perdere la vita.
Solo un rafforzamento massiccio e immediato dell’assistenza umanitaria, potrà evitare al Paese di precipitare nell’ennesima catastrofe.

Quali sono le zone maggiormente colpite? Di che estensione si può parlare? La carestia ha raggiunto anche gli altri Paesi della zona?
Negli ultimi mesi la siccità che ha colpito la Somalia centro-meridionale, e le regioni settentrionali del Puntland e del Somaliland, la peggiore dal 1950, si è intensificata notevolmente a causa del mancato verificarsi delle piogge stagionali. Le condizioni dei bambini che soffrono la fame e delle loro famiglie sono in netto peggioramento. Nelle aree maggiormente colpite dalla siccità molte persone restano senza cibo per diversi giorni.
La siccità attuale ha lasciato interi villaggi senza raccolti, la Comunità ha visto morire il bestiame. I prezzi dell’acqua e del cibo, prodotto localmente, sono aumentati drasticamente. In alcune parti della Somalia il prezzo dell’acqua è cresciuto di 15 volte rispetto al periodo precedente alla siccità e anche il prezzo dei beni alimentari ha subito lo stesso incremento. La conseguenza diretta è lo spostamento in massa dei civili, verso le grandi città somale. Questo ha determinato una promiscuità nei campi profughi non ufficiali nati nelle periferie delle città, con un aumento delle malattie causate dall’acqua contaminata. A complicare il quadro, si contano ad oggi oltre 8.400 casi di diarrea acuta e colera. Più di 200 i decessi.
Secondo l’UNICEF, quest’anno, circa un milione e mezzo di bambini è a rischio di morte imminente per malnutrizione acuta grave, viste le incombenti carestie in Nigeria, Somalia, Sud Sudan e Yemen. E più di 20 milioni di persone si troveranno ad affrontare la fame nei prossimi sei mesi tra Gibuti, Eritrea, Etiopia, Kenya, Sudan e Uganda. La siccità, che continua ad essere una piaga in Somalia, è secondo le stime peggiore dell’ultima del 2011 che uccise 250.000 persone.

Come si può riuscire a fronteggiare un’emergenza di queste dimensioni? Quali sono i provvedimenti di prima necessità? Di cosa c’è bisogno?
La comunità internazionale deve intensificare i propri sforzi per fare in modo che quel tragico momento storico, risalente al 2011, non si ripeta e sappiamo che agire efficacemente in questa fase può fare realmente la differenza.
C’è bisogno di acqua. I pozzi poco profondi che fornivano acqua alla gente, ora sono asciutti. Nei letti dei fiumi aridi bisogna scavare fino a 15 metri per trovare l’acqua. Nella maggior parte dei casi si tratta di acqua non potabile che viene utilizzata ugualmente per bere, aumentando il rischio di infezioni del tratto gastrointestinale. Bisogna pianificare la trivellazione di nuovi pozzi, scegliendo oculatamente siti.
C’è bisogno di cibo. Le acque somale continuano ad essere controllate dalla moderna pirateria che implica dirottamento, presa in ostaggio e estorsione delle navi commerciali, non permettendo il trasporto in sicurezza dei pacchi alimentari del World Food Programme (WFP).
Manca un rafforzamento del servizio sanitario nei centri di salute primaria locali, con la fornitura di farmaci di base e beni alimentari.
Se si supportasse la gente con acqua, servizi sanitari e mezzi di sostentamento e venisse pianificata una distribuzione di semi e attrezzature per l’agricoltura, l’insicurezza alimentare sarebbe quanto meno un’entità più lontana, così da migliorare l’accesso al cibo e l’accesso alle attività produttrici di reddito.

Come sta reagendo la Comunità Internazionale di fronte a questa ennesima emergenza umanitaria? Ci sono stati interventi ufficiali, ad esempio dei governi?
Secondo Save the Children la risposta della Comunità Internazionale alla minaccia della carestia in Somalia, sta ripercorrendo i gravi errori dell’ultima crisi.
L’UNICEF, con il supporto dell’European Civil protection and Humanitarian aid Operation (ECHO), ha istituito centri di nutrizione nei campi rifugiati, che finora hanno permesso un tasso di recupero del 92,4% per i 42.526 bambini gravemente malnutriti in tutta la Somalia. Il programma ha mostrato grandi progressi a partire dal 2013, fornendo assistenza a migliaia di bambini malnutriti e donne in gravidanza o in allattamento.
Generosi contributi sono stati forniti da donatori internazionali dell’Europa, dell’Asia, del Nord America e dal sistema ONU per servizi salvavita nei campi della nutrizione, della sicurezza alimentare, della salute, dell’istruzione, delle risorse idriche e sanitarie.
Con l’aumento dei bisogni, l’UNICEF e il WFP insieme, necessitano di oltre 450 milioni di dollari per poter fornire assistenza urgente nei prossimi mesi.
L’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA) ha chiesto alla comunità internazionale lo stanziamento di circa 860 milioni di dollari per fornire immediati aiuti salvavita alle popolazioni.

Organizzazioni mondiali come l’UNICEF, la FAO, l’OMS, sono presenti? Come vi supportano?
Il WFP sta sfamando un milione e mezzo di persone nelle zone settentrionali e centrali della Somalia e a Mogadiscio, dove continuano ad arrivare quanti riescono a fuggire dalle zone della carestia. A partire dallo scorso novembre, più di 135.000 persone sono state costrette a spostarsi all’interno della Somalia a causa della siccità.
Quest’anno, l’UNICEF sta lavorando con i suoi partner per garantire cure terapeutiche a oltre 200.000 bambini gravemente malnutriti in Somalia.
Come dato preoccupate rimane quello dell’accesso umanitario limitato, soprattutto alle regioni a sud. Il WFP e l’UNICEF stanno rafforzando gli impegni congiunti per potenziare la risposta nelle aree meno accessibili dove sono a rischio milioni di vite.

Oltre all’emergenza legata alla carestia, ce ne è senz’altro un’altra di carattere sociale, e la complicata situazione politica di tutta la zona del Corno d’Africa non fa altro che peggiorare le cose. Come stanno reagendo la popolazione e i governi, anche nel resto dei paesi colpiti?
Attualmente un’altra emergenza è quella legata al gran numero di rifugiati che sta rientrando in Somalia. Il programma di rimpatrio a Dadaab, campo profughi a nord-est del Kenya, per esempio, continua con una media di quasi 2.000 rifugiati che, a settimana, tornano volontariamente in Somalia. 49.376 rifugiati somali sono tornati a casa dal dicembre 2014, quando l’UNHCR ha iniziato a sostenere il rientro volontario dei rifugiati somali dal Kenya. Di questi 10.062 sono stati sostenuti nel solo 2017. I rifugiati stanno rientrando in particolare nella zona di Baidoa, a nordovest di Mogadiscio, e nella zona di Kismayu, a sudovest della capitale. Molti rifugiati si ritrovano senza un riparo e versano in condizioni igieniche molto gravi. La qualità dell’acqua rimasta, produce diarrea e malaria che si stanno diffondendo rapidamente. Non ci sono latrine per i nuovi rifugiati, le diffuse pratiche non igieniche espongono le Comunità al rischio di gravi epidemie.
Il cambio al governo somalo e la nuova presidenza, affidata a Mohamed Abdullahi Mohamed, dovranno affrontare molteplici sfide: la minaccia rappresentata da gruppi estremisti somali, la carestia incombente, le istituzioni deboli, le fazioni in lotta, il rientro di civili somali da Paesi limitrofi e la disoccupazione dilagante in un Paese in cui oltre il 70% della popolazione è sotto i 30 anni.
Intanto il neo-presidente somalo Mohamed Abdullahi Mohamed ha dichiarato lo stato di disastro nazionale. Sa’ad Ali Shire, ministro degli esteri dell’autoproclamata repubblica del Somaliland, ha invocato aiuti urgenti, soprattutto cibo, acqua e medicine per scongiurare la catastrofe.

Una testimonianza, se puoi, del tuo incredibile impegno e coraggio.
In Somalia ho lavorato nel ‘Mohamed Aden Sheikh Children Teaching Hospital’ (MAS-CTH), un ospedale pediatrico costruito grazie al lavoro e all’impegno italiano, ora amministrato totalmente dal governo del Somaliland.
Intelligente modello di cooperazione internazionale, entrato imponentemente nell’assetto sanitario del Paese, il MAS-CTH, incidendo sulle politiche sanitarie del Somaliland, riveste oggi l’importante compito di punto di riferimento per l’intera popolazione pediatrica.
Sono stati oltre 50.000 i bimbi visitati in cinque anni. Sono stati formati medici e infermieri locali. Negli anni il percorso di apprendimento è stato accompagnato da personale sanitario internazionale.
E tutto questo in un Paese dove dispute tra clan, corruzione, violenze, sono state pratiche quotidiane per anni, dal dittatore Mohamed Siad Barre, al fallimento delle missioni di peacekeeping delle Nazioni Unite, dai governi di transizione e dalle corti islamiche all’intervento militare di Etiopia e Stati Uniti.

Mentinfuga “Carestia in Somalia. Federica Iezzi, medico sul campo nell’emergenza”

Radio Città Aperta “Somalia, la guerra dimenticata e le nostre responsabilità”

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SOMALIA. Terza carestia in 25 anni

Nena News Agency – 14/03/2017

Secondo l’ONU, oltre sei milioni di persone hanno bisogno di assistenza alimentare, più di 360.000 bambini sono affetti da malnutrizione acuta. Secondo alcune stime, la siccità è peggiore dell’ultima del 2011 che uccise 250mila somali. A inizio mese, in meno di 48 ore, sono morte 110 persone per carenza di cibo e malattie nella regione di Baay

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di Federica Iezzi

Mogadiscio (Somalia), 14 marzo 2017, Nena News – Bambini dagli occhi scuri e spaventati, tende senza acqua e elettricità, non un pasto adeguato per settimane. Sono un quadro comune in Somalia. Secondo le stime delle Nazioni Unite oltre sei milioni di persone hanno bisogno di assistenza alimentare e questo significa più della metà della popolazione dell’intero Paese. Di questi, più di 363mila bambini sono affetti da malnutrizione acuta e 270mila rischiano di entrare nel tunnel della malnutrizione nell’arco di quest’anno, secondo i dati diffusi dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.

I tre anni di siccità soprattutto nel nord del Paese, la conseguente carestia e la presenza incombente del gruppo estremista islamico al-Shabaab, hanno lasciato la Somalia e la sua gente in una situazione disperata, in una miseria dilagante. La comunità internazionale assiste alla terza carestia in Somalia in 25 anni. L’ultima, nel 2011, ha contato circa 260.000 vittime, la metà delle quali erano bambini sotto l’età di cinque anni. Secondo Save the Children la risposta della Comunità Internazionale alla minaccia della carestia in Somalia, sta ripercorrendo i gravi errori dell’ultima crisi.

Anche all’interno dei campi rifugiati, l’insicurezza alimentare è a livelli preoccupanti. Il campo rifugiati di Baidoa, a nordovest di Mogadiscio, oltre ad essere già il riparo di migliaia di sfollati interni, risultato di anni di conflitti civili, continua ad accogliere rifugiati che rientrano dal campo di Dadaab, in Kenya nord-orientale.

L’UNICEF, con il supporto dell’European Civil protection and Humanitarian aid Operation (ECHO), ha istituito centri di nutrizione nei campi rifugiati, che finora hanno permesso un tasso di recupero del 92,4% per i 42.526 bambini gravemente malnutriti in tutta la Somalia. Il programma ha mostrato grandi progressi a partire dal 2013, fornendo assistenza a migliaia di bambini malnutriti e donne in gravidanza o in allattamento.

Secondo i dati dell’UNICEF, un milione e mezzo di bambini tra Somalia, Nigeria, Sud Sudan e Yemen, risultano a rischio di morte imminente da malnutrizione. E più di 20 milioni di persone si troveranno ad affrontare la fame nei prossimi sei mesi. La siccità, che continua ad essere una piaga in Somalia, è secondo le stime peggiore dell’ultima del 2011 che uccise 250.000 persone.

A partire dallo scorso novembre, più di 135.000 persone sono state costrette a spostarsi all’interno della Somalia a causa della siccità. Nelle zone più colpite, piogge insufficienti e conseguente mancanza di acqua hanno spazzato via i raccolti. La produzione vegetale risulta drasticamente ridotta anche in zone precedentemente stabili e fertili. Il bestiame è decimato e le comunità sono costrette a vendere i loro beni e prendere in prestito cibo e denaro per sopravvivere.

In aggiunta a siccità e carestia, le malattie come il colera e il morbillo iniziano a macchiare la popolazione soprattutto pediatrica. All’inizio del mese, il primo ministro somalo Ali Hassan Khaire ha annunciato il decesso di almeno 110 persone in meno di 48 ore, per carenza di cibo e malattie, legate al fenomeno della siccità, nel sud-ovest della regione di Baay, nella Somalia meridionale. Quasi 8.000 persone sono state colpite da colera e ad oggi più di 180 sono morte. E l’OMS riporta che circa cinque milioni di persone sono a rischio di colera.

I primi progressi sul problema sono stati fatti nel 2015, quando è stato tagliato il traguardo del dimezzamento della fame nel mondo. L’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO) riferisce che oltre 100 milioni di persone non soffrono più di disturbi legati alla malnutrizione, a partire dagli ultimi dieci anni. Testimonianza di quanto una maggiore cooperazione e il coordinamento tra governi, società civile, ricercatori, settore privato e agricoltori siano in grado di fornire soluzioni concrete per l’insicurezza alimentare. Nena News

Nena News Agency “SOMALIA. Terza carestia in 25 anni” di Federica Iezzi

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