Via dalla guerra di Khartoum con la propria vita in uno zaino

Il Manifesto – 09 maggio 2023

REPORTAGE. Nel Sudan martoriato dai combattimenti. Mentre a Gedda si tratta per un cessate il fuoco umanitario, dalla capitale si cerca di fuggire con ogni mezzo e a qualunque costo. Sull’unica strada che oggi porta alla stazione di Sherwani prima c’erano i venditori di tè con le loro grosse teiere e le ciotole di incenso. Adesso c’è solo un odore di morte. E anche partire significa dover pregare per la propria vita

Federica Iezzi, KHARTOUM

Gli occhi delle persone che fuggono dalla guerra raccontano tutti la stessa cosa: «Non c’è tempo per piangere né per pensare a un piano». E mentre a Gedda proseguono i colloqui tra membri delle Forze armate sudanesi (SAF) e membri delle Forze di supporto rapido (RSF), a Khartoum i civili sono ancora incapaci di uscire di casa perché hanno paura di essere uccisi sotto gli occhi dei propri bambini. I rumori dei colpi di arma da fuoco e degli aerei da guerra che volano sopra le case, tormentano i giorni e le notti. Senza elettricità, acqua potabile, cibo e cure mediche le giornate si sovrappongono tutte uguali, tutte diverse.

QUARTIERI COMPLETAMENTE devastati disegnano la città dove si incontrano il Nilo Azzurro e il Nilo Bianco. Da qui i civili possono entrare o uscire solo attraverso strade secondarie e vicoli. Le aree intorno al palazzo presidenziale sono circondate da veicoli blindati da un lato e depositi di armi dall’altro, e a pochi chilometri di distanza ci sono la sede centrale e i depositi di materiale bellico pesante dell’esercito.

«Sono uscita di casa senza più cibo né acqua», ci racconta Manar. Ha preso un autobus alla stazione di Sherwani. «C’è sempre stata carenza di veicoli qui. Adesso ancora di più». Prima dell’inizio del conflitto, fin dalle prime ore del mattino, su El Qasr Avenue South, oggi l’unica strada percorribile che porta alla stazione di Sherwani, non mancavano i venditori di tè, i settat-chai con le loro stufe in alluminio, le loro grosse teiere e le ciotole di incenso. Adesso nelle strade c’è solo un odore di morte.

A Sherwani, prima della guerra, partiva ogni giorno un autobus per Wad Madani e Manar dopo giorni di attesa ai margini della stazione, tra caldo, fame, paura, notti insonni e punture di zanzara, è riuscita ad avere un biglietto. Nessun autobus parte se non è completamente pieno. 202 chilometri al prezzo di 240 dollari, prima del conflitto il biglietto costava solo poche sterline sudanesi. «Tutto il denaro è congelato nelle banche e non c’è alcuna possibilità di ritirarlo», ci dice.

UN GALLONE DI BENZINA è arrivato a 25mila sterline sudanesi (circa 40 dollari) sul mercato nero, ci racconta un autista di autobus a Sherwani. Il prezzo è più alto di otto volte rispetto all’inizio della guerra. L’aumento impazzito dei prezzi del carburante e l’esodo di residenti disperati hanno costretto le compagnie a un aumento dei prezzi dei biglietti degli autobus, in un Paese che già partiva con un’inflazione a tre cifre e un tasso di povertà del 65%.

Uscire da Khartoum significa attraversare almeno 20 posti di blocco di entrambe le fazioni. I confini non sono netti, così come il controllo delle aree della città. E fermarsi in una stazione di servizio per fare rifornimento significa dover pregare per la propria vita.

Ma tutti a Khartoum sapevano che, nel momento in cui i cittadini stranieri sarebbero stati evacuati, i combattimenti sarebbero aumentati. Quindi la fuga degli uni era per gli altri la piccola porta per poter uscire dalla capitale. Le Nazioni Unite hanno stimato il movimento di almeno 334.000 sfollati interni. E quattordici dei 18 stati del Sudan sono già stati interessati dallo sfollamento. La maggior parte dei civili in fuga si è riversata nelle città di Wad Madani e El Manaqil, nello stato di Al Jazirah, a est di Khartoum, ospitati in edifici pubblici, scuole, moschee e mercati coperti.

GLI SCONTRI QUI sono meno duri che nella capitale, ma il suono della guerra accompagna l’intero viaggio. Le strade polverose portano le cicatrici dei bombardamenti, sotto il sole cocente e i 42°C di temperatura. Resti di ordigni, mezzi bruciati e posti di blocco abbandonati fanno da contorno.

Il viaggio di molti civili da Wad Madani continua verso l’Egitto. La prima tappa è Port Sudan, tramite autobus o camion. La parte orientale del Sudan è montuosa, spesso impervia. Da Port Sudan, la via è quella verso Argeen, cittadina di confine, appena visibile su Google Maps. Lì, dopo più di 2mila chilometri e due giorni di viaggio, si pagano 200 sterline sudanesi (30 centesimi di dollaro) a persona per avere il timbro di uscita sul passaporto. Il visto di ingresso in Egitto invece costa 140 sterline sudanesi (circa 4 dollari).

SECONDO LE ULTIME STIME ONU il numero di rifugiati sudanesi potrebbe sfiorare gli 860.000 nei prossimi mesi. Ciad, Sud Sudan, Egitto, Etiopia e Repubblica Centrafricana, sono i Paesi maggiormente coinvolti.
Ogni storia dipinge un quadro cupo di come il conflitto possa distruggere istantaneamente la vita. «Ho perso la mia casa, la mia famiglia e il mio Paese. Ho messo tutta la mia vita in uno zaino». È così che gli occhi di Manar ci lasciano.

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UNICEF. Un milione e mezzo di bambini rischiano la morte da malnutrizione

Nena News Agency – 22/04/2017

Somalia, Nigeria, Sud Sudan e Yemen soffrono gravissime carestie, dovute alla guerra ma con origini diverse: territori occupati da gruppi jihadisti, conflitti, errori della comunità internazionale, siccità, blocchi aerei

Sud Sudan

di Federica Iezzi

Roma, 22 aprile 2017, Nena News – I bambini. Sono sempre loro a pagare le conseguenze peggiori di guerre, carestie e disastri naturali in varie aree del mondo. In TV li vediamo spaventati, con gli occhi incavati e persi nel vuoto, spesso soli. Eppure il cosiddetto mondo sviluppato volge lo sguardo dall’altra parte e preferisce non sapere che più di un milione di neonati e bimbi rischiano realmente di morire di fame.

L’allarme arriva diretto dall’UNICEF. Almeno un milione e mezzo di bambini tra Somalia, Nigeria, Sud Sudan e Yemen, risultano a rischio di morte imminente da malnutrizione. E più di 20 milioni di persone si troveranno ad affrontare la fame nei prossimi sei mesi.

La grave catastrofe provocata da malnutrizione e carestia, che oggi stringe questi paesi, risulta in gran parte provocata dagli scorretti atteggiamenti umani. Un’azione più veloce è prerogativa irrinunciabile per non permettere che si ripeta la tragica carestia che colpì il Corno d’Africa nel 2011 e che solo in Somalia uccise 250mila persone.

Nello Yemen, dove la guerra ha imperversato per più di due anni, 462mila bambini soffrono di malnutrizione. Non ancora dichiarato lo stato di carestia, lo Yemen fa i conti con 27 milioni di persone nel limbo dell’insicurezza alimentare. Tre milioni di persone soffrono di malnutrizione acuta, di cui più di due milioni sono bambini.

Il destino per altri 500mila bambini è ancora peggiore: malnutrizione acuta grave. Secondo l’Unicef si è assistito ad un aumento del 200% rispetto al 2014. Anche prima del conflitto interno, lo Yemen era costretto a fronteggiare la difficoltà della fame cronica. Ma era un problema, per la maggior parte, gestibile, visto che le agenzie umanitarie riuscivano a muoversi per il paese con relativa facilità.

L’economia è ora in piena caduta libera, con l’80% delle famiglie in debito. Il costo del cibo è elevato visto che i ritardi e le cancellazioni di voli commerciali e viaggi con navi mercantili sono all’ordine del giorno.

Almeno 450mila bambini sono gravemente malnutriti nel nord-est della Nigeria, territorio minato dei jihadisti di Boko Haram, che non permettono ancora l’ingresso di convogli umanitari. La crisi nigeriana è una crisi sia di finanziamento che di accesso. L’emergenza è stata lenta a rivelare la sua vera dimensione. Boko Haram aveva il controllo di gran parte del nord-est fino al 2014 e poco si sapeva dei bisogni dei civili intrappolati in quelle zone. E le zone rurali ancora oggi rimangono inaccessibili. Inoltre rimane il problema dell’insicurezza alimentare dei 1,8 milioni di sfollati interni nei tre stati del nord-est di Adamawa, Borno e Yobe.

La siccità in Somalia ha lasciato 185mila bambini sull’orlo della fame, cifra destinata a salire fatalmente. Anche qui, si osservano reazioni al rallentatore da parte della Comunità Internazionale. Vaste aree del Paese in cui la crisi alimentare tocca livelli preoccupanti e dove i guerriglieri di al-Shabab sono l’autorità de facto, sono classificate come ‘no-go zone’ per quasi tutte le agenzie umanitarie, a cui viene negato il permesso di accesso e di lavoro.

In Sud Sudan oltre 270mila bambini sono malnutriti. Già invocato da ONU e governo locale lo stato di carestia in alcune zone a nord del paese, in cui vivono più di 20mila bambini. Il paese è un mosaico sconcertante di gruppi armati, tra le fazioni ribelli, l’esercito e le milizie governative. E tutte le parti sembra si siano impegnate in uccisioni di massa a sfondo etnico. E le uniche scelte in mano alle agenzie umanitarie sono state le misure straordinarie negli interventi, spesso senza un programma concreto alle spalle.

Attualmente le aree a rischio di fame potrebbero avere una possibilità di scongiurare una catastrofe, se l’accesso umanitario rimanesse protetto e rispettato, secondo una dichiarazione dell’UNOCHA.

Sono già in programma visite da parte degli ambasciatori del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nel nord della Nigeria, in Camerun, Ciad e Niger, con il fine comune di evitare il ripetersi di una delle più gravi carestie di sempre, che colpì l’Etiopia nei primi anni ‘80. Dopo anni di siccità consecutivi, la dittatura militare di Mengistu, ha visto morire di stenti più di un milione di civili.

E in quegli anni l’attenzione della comunità internazionale si concentrò sull’impedire spedizioni di aiuti umanitari nelle aree controllate dai ribelli, che condusse definitivamente l’Etiopia al baratro.

Più di tre decenni più tardi, il rischio per Somalia, Nigeria, Sud Sudan e Yemen è il medesimo. Da cosa è sorretto il rischio? La risposta più semplice è il conflitto, che accomuna le storie dei quattro Paesi. Queste quattro carestie hanno somiglianze ma origini diverse. Diverse traiettorie. E le esigenze di conseguenza sono differenti.

Evitare una catastrofe umanitaria è solo una parte della battaglia. Ideare una strategia di risposta corretta e assicurare l’accesso necessario in zone dove la guerra entra complessa e frammentaria sono la vera sfida.

L’assistenza di emergenza aiuta solo se le persone che possono accedervi. Molto maggiore dovrebbe essere l’accento sulle contrattazioni diplomatiche nell’impegno della risoluzione dei conflitti, alcuni dei quali trascinati per anni, e per i quali qualsiasi metodo di assistenza umanitaria non risulta altro che un palliativo. Nena News

Nena News Agency “UNICEF. Un milione e mezzo di bambini rischiano la morte da malnutrizione” di Federica Iezzi

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SUD SUDAN. Quando l’aiuto umanitario alimenta la guerra

Nena News Agency – 07/04/2017

La crisi umanitaria in Sud Sudan ha raggiunto misure di estrema gravità ma la risposta internazionale appare guidata da preoccupazioni di politica estera, ripercorrendo una storia già vista in Afghanistan, Darfur, Bosnia, Rwanda

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di Federica Iezzi

Roma, 7 aprile 2017, Nena News – Chi viene davvero sostenuto dagli aiuti umanitari in Sud Sudan? La risposta della Comunità Internazionale spesso è stata guidata non dalle reali condizioni umanitarie ma da preoccupazioni nazionali e di politica estera, ripercorrendo una storia già vista in Afghanistan, Darfur, Bosnia, Rwanda.

La definiscono politicizzazione dell’assistenza umanitaria. In realtà non è altro che una continua scelta di schieramento.

La crisi umanitaria in Sud Sudan ha raggiunto misure di estrema gravità. Insicurezza sulle istituzioni, povertà, cattiva salute, spostamenti di massa di civili e orrendi abusi dei diritti umani hanno lasciato un quadro interno di inazione politica.

Il numero di persone in fuga dal Sud Sudan ha raggiunto il picco di 1,5 milioni di rifugiati. La maggior parte dei rifugiati è accolta dall’Uganda, dove sono arrivate circa 698.000 persone. L’Etiopia ne accoglie circa 342.000, mentre oltre 305.00 sono accolte in Sudan, circa 89.000 in Kenya, 68.000 nella Repubblica Democratica del Congo e 4.900 nella Repubblica Centrafricana. A questi si aggiungono altri 2,1 milioni di sud-sudanesi sfollati all’interno del Paese. Almeno 7 milioni e mezzo di civili sono dipendenti da aiuti umanitari. Più di un milione di bambini sotto i cinque anni soffre di malnutrizione grave. E più di 300.000 sono i morti,dall’inizio del conflitto nel 2013.

Non c’è alcun dubbio che l’aiuto umanitario è carico di controversie e imparzialità politiche ed etiche enormi. Come ci si può assicurare che gli aiuti non vadano ad alimentare il conflitto, che non diventino il mezzo per discriminare le stesse persone che si cerca di aiutare?

Di fronte al dilemma di alimentare un’economia di guerra o di sostenere strategie politiche o peggio militari, l’essenziale interesse è quello di preservare lo spazio umanitario. Anche se questo comporta una programmazione minimalista degli aiuti.

Infatti, una volta che le esigenze di emergenza della popolazione vengono soddisfatte, addirittura si dovrebbe decidere di revocare l’aiuto umanitario, qualora avesse una forte possibilità di prolungare la guerra. Questo è stato per esempio il caso degli aiuti umanitari nei campi profughi rwandesi in Congo e in Tanzania, bloccati nel 1994. O il caso degli aiuti umanitari sospesi ai Khmer Rossi lungo il confine tra Thailandia e Cambogia, negli anni ‘80. O ancora il caso degli aiuti umanitari utilizzati come strumento per coprire le brutali politiche di migrazione forzata messe in atto dal regime di Menghistu in Etiopia. Il dilemma rimane da anni lo stesso: ‘come sostenere le vittime senza fornire anche un aiuto ai loro aguzzini?’.

La difficoltà è quella di costruire un consenso su quando e dove tracciare la linea di demarcazione. L’Operazione Lifeline nata nel lontano 1989 in Sud Sudan, tra le agenzie delle Nazioni Unite e almeno 35 organizzazioni non governative internazionali, con lo scopo di garantire aiuti umanitari alla popolazione vulnerabile, ha ripetutamente fallito la sua missione. Non sono state affrontate le carenze strutturali del regime di aiuti, non sono state garantite valutazioni umanitarie indipendenti, non è stato tutelato il monitoraggio.

I mandati di molte ONG sono rimasti offuscati tra lo strettamente umanitario e la raccolta di informazioni politiche, il monitoraggio dei diritti umani, il ruolo non ufficiale nella conduzione del conflitto. Si è persa l’assistenza indipendente e imparziale.

C’è da porsi diverse domande sul Sud Sudan.

In primo luogo va esaminato il rapporto tra le organizzazioni di soccorso e la missione di peacekeeping delle Nazioni Unite (UNMISS), che ad oggi ha preso circa 200.000 minoranze etniche sotto la sua protezione, nei tentacolari campi sorvegliati. I gruppi di soccorso hanno acriticamente accettato la politica delle Nazioni Unite di sostenere i civili in questi ghetti etnici, per lo più situati in aree remote, con strade dissestate e cattiva sicurezza. L’ONU insiste sul ritenerli siti temporanei. Ma molti di questi campi sono stati utilizzati per scopi politici precisi, che li rendono improbabilmente smantellabili. Ad esempio, quello nella città settentrionale di Bentiu è il risultato di una campagna militare mirata a spopolare le aree produttrici di petrolio e a distruggere il cuore del gruppo etnico dei Nuer. Le organizzazioni umanitarie che forniscono servizi all’interno di siti di protezione UNMISS sono dunque complici nel fornire un falso senso di sicurezza agli abitanti.

Le organizzazioni umanitarie hanno per anni sostenuto in maniera involontaria l’assetto di guerra del governo sud-sudanese. Con l’offerta di servizi sociali nelle zone controllate dal governo, per esempio, che hanno consentito al governo stesso di spendere la maggior parte dei suoi ricavi sul fronte militare, senza affrontare i problemi che continuano a schiacciare la popolazione civile.

E ancora, le scuole nei campi interni non sono istituzioni di apprendimento formale, ma sono semplicemente spazi di apprendimento temporanei, dove gli insegnanti sono volontari. Di fatto, si contribuisce a creare un sistema di segregazione, rafforzando lo slancio verso la ghettizzazione permanente e le divisioni sociali durature. Nena News

Nena News Agency “SUD SUDAN. Quando l’aiuto umanitario alimenta la guerra” di Federica Iezzi

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SUD SUDAN. La guerra civile piega il paese

Nena News Agency – 15/12/2016

Il costante processo di pulizia etnica in corso in diverse aree del Sud Sudan tra le 64 diverse tribù che abitano il Paese, annovera fame, stupri di gruppo e incendi di villaggi

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di Federica Iezzi

Roma, 16 dicembre 2016, Nena News – Più volte paragonata al genocidio del Rwanda, la violenza etnica in Sud Sudan orchestrata dal governo di Salva Kiir sta raggiungendo cifre vertiginose.

Nel terzo anniversario della guerra civile nel Paese più giovane del mondo, non è più sufficiente l’enorme dispiegamento delle unità di protezione ONU per separare le parti in guerra.

La violenza è scoppiata nel dicembre 2013, quando il presidente Salva Kiir ha accusato il suo vice-presidente, Riek Machar, di essere a capo di un colpo di stato. Il Paese aveva ottenuto l’indipendenza dal Sudan nel 2011 a seguito di uno dei conflitti più lunghi e sanguinosi avvenuti in Africa.

Le tensioni etniche hanno fatto saltare in aria istituzioni deboli e inesistente identità nazionale. Le tribù più popolose del paese, i Dinka e i Nuer, avrebbero dovuto condividere il potere nel nuovo governo. Ma l’estrema povertà e la mancanza di istituzioni ha relegato il Paese nella morsa di una guerra etnica.

Decine di migliaia, i civili che hanno perso la vita nei combattimenti. Secondo i dati OCHA più di un milione di persone ha lasciato il Paese e sono più di un milione e mezzo i rifugiati interni. Il Programma Alimentare Mondiale stima che almeno 3,6 milioni di persone hanno necessità di assistenza alimentare.

Le minacce di violenza hanno avuto solo una debole riduzione quando i leader locali sono intervenuti per fermare le continue espressioni di odio.

L’Ufficio del Consigliere Speciale delle Nazioni Unite sulla Prevenzione del Genocidio, ha sottolineato l’importanza in questo delicato momento di imporre un embargo sulle armi. “Il genocidio” afferma, “E’ un processo che si instaura in un lasso di tempo medio-lungo, e proprio per questo può essere evitato. Ci sono passi che possono essere adottati, prima di arrivare vicini alla catastrofe”.

Solo nello scorso mese di luglio, a seguito di un aumento della violenza nella capitale Juba, altre 4.000 unità sudanesi facenti parte della missione dell’ONU in Sud Sudan (MINUSS) erano state reclutate per la protezione dei civili. Obiettivo mancato, visto che il governo sudanese ha accettato solo il dispiegamento di truppe straniere sul suo territorio.

Il costante processo di pulizia etnica in corso in diverse aree del Sud Sudan tra le 64 diverse tribù che abitano il Paese, annovera fame, stupri di gruppo e incendi di villaggi.

L’economia schiacciata del Paese ha il più alto tasso di inflazione del mondo, arrivato a sfiorare più dell’800% nello scorso mese di ottobre.

I servizi sanitari continuano il lento processo di deterioramento, la crisi idrica nazionale è in crescita, il settore agricolo è in declino e i tassi di malnutrizione sono tra i più alti al mondo. La repressione è l’unico strumento di sopravvivenza per il regime nazionale. Nena News

Nena News Agency “SUD SUDAN. La guerra civile piega il paese” di Federica Iezzi

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I profughi dimenticati della Repubblica Centrafricana

Nena News Agency – 24/11/2016

A causa di scontri tra la maggioranza musulmana Séléka e le milizie anti-Balaka, per lo più cristiani, il Paese è immerso in un conflitto civile dal 2012

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di Federica Iezzi

Roma, 24 novembre 2016, Nena News – Secondo gli ultimi dati dell’UNICEF, l’agenzia dell’ONU per l’infanzia, più di 380.000 civili sono ancora profughi interni in Repubblica Centrafricana e 468.000 sono rifugiati nei Paesi limitrofi, quali Camerun, Ciad e Repubblica Democratica del Congo. Secondo il comunicato, l’insicurezza secondaria al conflitto ha impedito alla maggior parte dei 920.000 sfollati di rientrare nelle proprie case.

A causa di scontri tra la maggioranza musulmana Séléka e le milizie anti-Balaka, per lo più cristiani, il Paese è immerso in un conflitto civile dal 2012.

Le violenze e gli spostamenti obbligatori hanno reso i bambini particolarmente vulnerabili a sfruttamento, abusi e maltrattamenti. Più di un terzo della popolazione pediatrica ha lasciato la scuola e almeno il 40% dei bambini sotto i cinque anni soffre di malnutrizione cronica. Si stima che almeno 6.000 ragazzini sono stati reclutati in gruppi armati dal 2013.

Dopo le elezioni del 2016, con il voto al secondo turno, Faustin-Archange Touadéra è stato scelto per guidare la Repubblica Centrafricana e si è iniziato subito a parlare di una curva di sviluppo crescente. La realtà è ben diversa: un gran numero di persone è ancora prigioniera di violenza e paura, non ha accesso ai servizi di base, quali alloggio, cibo, acqua potabile, assistenza sanitaria e protezione.

Nella capitale Bangui, alle elezioni sono seguiti: omicidi mirati, proteste contro il mantenimento della pace da parte del mandato MINUSCA delle Nazioni Unite e scontri tra le milizie. Tutt’oggi a nord e ad est del Paese, sono ripresi i duri combattimenti tra il gruppo Séléka e gli anti-Balaka, con conseguenze drammatiche per la città di Kaga Bandoro e le zone circostanti l’area di Bambari, subprefettura di Ouaka.

Le aree settentrionali e orientali del Paese sono saldamente sotto la gestione di fazioni Séléka, che governano raccogliendo tasse e sfruttando le risorse. Decine sono state le vittime e migliaia i nuovi sfollati ancora in attesa di assistenza umanitaria.

La ridistribuzione delle FACA (Forces Armées CentrAfricaines) è vista da molti come forte opzione alternativa all’azione di contrasto con i gruppi armati. Nel corso degli ultimi mesi, crescenti tensioni e scontri localizzati sul territorio hanno segnato le ambizioni delle fazioni Séléka.

Queste divisioni potrebbero portare i combattenti Séléka al tentativo di cercare sostegno e rilanciare offensive esterne. In alternativa potrebbero rappresentare un’opportunità per il governo ad aprire negoziati con alcuni fazioni.

Alla fine dello scorso ottobre, anche la Francia ha chiuso le sue operazioni militari sulla Repubblica Centrafricana ritirando i suoi 2000 uomini. L’operazione francese Sangaris, iniziata nel dicembre del 2013, è stata impiegata nei combattimenti degli insorti e nel mantenimento della pace.

Invece il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha deciso di estendere il mandato MINUSCA fino al novembre 2017. Nena News

Nena News Agency “I profughi dimenticati della Repubblica Centrafricana” di Federica Iezzi

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NIGERIA. Emergenza alimentare nello stato di Borno

Nena News Agency – 21/11/2016

14 milioni di persone, tra cui 400.000 bambini, hanno oggi bisogno di assistenza umanitaria nella regione, ex roccaforte di Boko Haram. Da quando il gruppo jihadista ha iniziato i suoi attacchi nel Paese nel 2009, sono state uccise decine di migliaia di persone. Oltre 2 milioni gli sfollati

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di Federica Iezzi

Maiduguri (Nigeria), 21 novembre 2016 – In mezzo a fame e migrazioni forzate, sono quasi spariti i bambini al di sotto dei cinque anni di età. E’ l’allarmante appello di Medici Senza Frontiere. Siamo nello stato di Borno, nel nord-est della Nigeria. Non ci sono più nei centri per la cura della malnutrizione, non ci sono più negli ambulatori medici, non ci sono più nei reparti degli ospedali, non ci sono più legati sulle spalle delle loro madri. E’ singolare non vedere bambini piccoli quando vengono allestiti nuovi campi per gli sfollati interni. Esistono sempre e solo fratelli e sorelle più grandi. Allora, dove sono andati?

Tra il 2013 e il 2014, i civili del nord-est della Nigeria lasciano le proprie case per sfuggire agli attacchi dei jihadisti di Boko Haram. Da villaggi limitrofi, a migliaia trovarono rifugio a Maiduguri, capitale dello Stato di Borno. Il governo nigeriano ha lanciato una controffensiva nel 2014, che si è intensificata l’anno successivo. Mentre i combattimenti continuavano ad inghiottire la regione, milioni di civili sono stati sradicati dalle loro terre, spogliate di qualsiasi mezzo di sopravvivenza. La mancanza di cibo e di nutrienti essenziali ha portato a tassi di malnutrizione preoccupanti. La malnutrizione spazza via la resistenza di un bambino o di un anziano alle malattie più banali. E allora un focolaio di morbillo diventa mortale. Malaria, diarrea e infezioni respiratorie hanno decimato la popolazione, la mancanza di vaccinazioni ha fatto il resto.

Solo lo scorso giugno, il governo nigeriano ha dichiarato l’emergenza alimentare nello stato di Borno. Ormai troppo tardi. Troppi bambini e neonati avevano già perso la vita a causa della malnutrizione, aggravata da infezioni e malattie prevenibili. Sono state vittime della fame. Le proiezioni nutrizionali svolte in diverse località a Borno nei mesi tra maggio e ottobre hanno rivelato che il 50% dei bambini sotto i cinque anni sono acutamente malnutriti.

Nel mese di luglio, secondo i report redatti dall’ONU, quasi un quarto di milione di bambini in aree dello stato di Borno è affetto da malnutrizione grave. E almeno 75.000 bambini nel nord-est della Nigeria rischiano di morire per la fame nei prossimi mesi. Il prezzo degli alimenti di base è salito alle stelle negli ultimi mesi. E un numero sempre crescente di famiglie residenti o sfollate, semplicemente non può permettersi di mangiare.

La distribuzione gli aiuti umanitari al di fuori della capitale Maiduguri è estremamente difficoltosa. Le aree periferiche sono isolate e la lotta a Boko Haram infuria ancora attorno a villaggi rasi ormai al suolo. L’agricoltura è annientata, i mercati rimangono vuoti, il personale sanitario e le strutture mediche sono in condizioni gravose. 1,8 milioni di bambini a Borno non va a scuola a causa degli attacchi da parte dei combattenti di Boko Haram. I civili rimasti sono alla disperata ricerca di cibo, e hanno bisogno di assistenza medica, comprese le campagne di vaccinazione. Il ministero della salute nigeriano, con il supporto dell’OMS, si propone di raggiungere più di 75.000 bambini di età compresa tra i 6 mesi e i 15 anni, in 18 campi sfollati, tra cui Muna Garage, Custom House e Fariy, per le campagne di immunizzazione.

14 milioni di persone, tra cui 400.000 bambini, hanno oggi bisogno di assistenza umanitaria nella regione, ex roccaforte dei militanti di Boko Haram. Decine di migliaia di persone sono state uccise e si contano più di due milioni di sfollati da quando Boko Haram ha iniziato le sue operazioni militari nel 2009 nello stato di Borno e in altre aree nord-nigeriane. Nena News

Nena News Agency “NIGERIA. Emergenza alimentare nello stato di Borno” di Federica Iezzi

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SIRIA. Assedio e fame a Deir Ezzor

Nena News Agency – 11/04/2016

L’ONU ha consegnato ieri aiuti umanitari alla città contesa tra opposizioni e governo e in parte occupata dall’ISIS, dove i prezzi del cibo sono alle stelle e in 200mila non hanno accesso a cibo e acqua con regolarità 

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di Federica Iezzi

Roma, 11 aprile 2016, Nena News – Con il Programma Alimentare Mondiale sono state distribuite altre 20 tonnellate di forniture alimentari ai civili assediati nella città di Deir Ezzor, all’inizio del conflitto siriano, intrappolata in un territorio conteso tra ribelli e forze governative, ora in parte sotto il controllo dei combattenti dello Stato Islamico. Deir Ezzor, provincia orientale della Siria, collega la “capitale” siriana dell’Isis, la città di al-Raqqa, al territorio controllato dal gruppo jihadista nel vicino Iraq.

Dopo il primo lancio aereo degli aiuti umanitari dai mezzi cargo delle Nazioni Unite, avvenuti lo scorso febbraio, ieri consegnato ai civili altro materiale in collaborazione con la Mezzaluna Rossa Araba Siriana. Prima dello scorso febbraio l’ONU non era stato in grado di raggiungere una stima di almeno 720mila persone in aree come Deir Ezzor e al-Raqqa.

Il lancio aereo di aiuti umanitari, per pericolosità e poche garanzie di riuscita, era l’ultima risorsa disponibile per la popolazione intrappolata a Deir Ezzor, che subisce senza sosta un doloroso declino. Volti di bambini uccisi dalla fame, in un posto dove il pane costa 40 dollari, un chilo di riso 80 dollari, un litro di olio 50 dollari e un chilo di pomodori 35 dollari. Dove la malnutrizione è più frequente dell’influenza. Dove le code per prendere meno di 20 litri di acqua, possono durare anche dieci ore. Dove manca il latte in polvere per i neonati che viene sostituito con cocktail di amido e tisane o da zucchero diluito in acqua. E dove la gente paga anche 25.000 dollari per fuggire. Questa è la realtà di vita a Deir Ezzor, un tempo prospera città nel cuore dell’industria petrolifera siriana.

Oltre 200mila persone vivono sotto assedio nei distretti di Deir Ezzor dal marzo 2014, critiche le condizioni negli ultimi undici mesi. Fino all’80% della popolazione non ha più pasti regolari. L’ingresso a cibo, acqua, vestiti e medicine è bloccato ed è impossibile entrare via terra con gli aiuti umanitari. Impossibile è anche l’ingresso al personale sanitario, se non nei campi spontanei alla periferia della città, dove migliaia di sfollati sono stati costretti a sopravvivere.

I rappresentanti delle 17 Nazioni, dell’organizzazione non governativa International Syrian Support Group, hanno specificato che l’obiettivo delle Nazioni Unite è quello di fornire aiuto alimentare alle 18 aree assediate del Paese entro poche settimane, con il sistema del lancio aereo degli aiuti.

In tutto il territorio siriano, il Programma Alimentare Mondiale fornisce cibo a più di quattro milioni di persone ogni mese, lasciando però fuori la maggior parte dei civili che vive nelle zone difficili da raggiungere o in quelle assediate. L’ONU stima che sono più di 480.000 i siriani che vivono nelle zone assediate da parte del governo, dei ribelli e delle forze della dello Stato Islamico, dove le razioni alimentari di un mese sono costituite da una manciata di legumi o riso, da appena due triangoli di formaggio fuso, da 200 grammi di margarina e 100 di zucchero.

Secondo Human Rights Watch, il governo siriano ha fermato gli aiuti ad almeno sei delle 18 aree assediate, dal momento della cessazione delle ostilità lo scorso febbraio. Rimangono dunque ancora bloccati i 250mila civili di Douma, Harasta, Arbin, Zamalka, Zabadin e Daraya. Solo negli ultimi giorni, mezzi delle Nazioni Unite sono riusciti a fornire cibo e forniture mediche a più di 80mila siriani in cinque zone assediate.

I numeri sono preoccupanti visto che sono sempre meno i convogli di aiuti delle Nazioni Unite che riescono ad entrare nelle zone assediate della Siria. Secondo i dati del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, nel mese di marzo gli aiuti umanitari hanno raggiunto solo il 21% dei civili intrappolati in aree assediate. Nena News

Nena News Agency “SIRIA. Assedio e fame a Deir Ezzor” di Federica Iezzi

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ALEPPO, l’ostinazione di chi resta

Il Manifesto – 13 maggio 2015

REPORTAGE. Nella seconda città della Siria 400 mila persone, quel che rimane di suoi 2 milioni di abitanti, resistono a una guerra che non risparmia neanche gli ospedali. Tra cumuli di macerie, senza luce né acqua, monta l’odio per tutti gli schieramenti. “Non vogliamo né le forze di Assad né i ribelli”

640x392_31080_235977 Halab per blog

di Federica Iezzi

Aleppo (Siria) – Yaman ci dice che «il tonfo delle pale del rotore di coda degli eli­cot­teri e l’esplosione di ordi­gni libe­rati dalle truppe del governo siriano ormai sono rumori fami­liari; fami­liare è la corsa dispe­rata delle mamme con in brac­cio i figli verso i piani più bassi degli edi­fici già deva­stati; e fami­liare è anche l’inevitabile car­ne­fi­cina umana negli ospe­dali». Non sono sicuri nem­meno quelli. Bombe e mor­tai can­cel­lano senza alcun pre­av­viso l’esistenza di uomini che lavo­rano, vivono e muo­iono tra quelle vec­chie mura mac­chiate di iodio.

Nella metà orien­tale di Aleppo si muore. La città è con­tesa tra le forze gover­na­tive, che hanno il con­trollo della parte occi­den­tale e che con­ti­nuano ad avan­zare verso nord, e le forze di oppo­si­zione, con capo­li­sta il Fronte al-Nusra, il brac­cio siriano di al-Qaeda, che ha il con­trollo della parte orien­tale della città. Il quar­tiere di Sheikh Maq­soud è sotto il con­trollo delle auto­rità curde. Almeno 19 gruppi armati invece gareg­giano per i quar­tieri al con­fine tra le tre aree. Cumuli di mace­rie alti decine di metri coprono vie e strade dell’antico trac­ciato elle­ni­stico. I segni di una guerra che ha pro­messo la spe­ranza, ma ha invece con­se­gnato alla Siria solo anni di disumanità.

Solo pol­vere gri­gia e odore di fuoco

«Ieri pome­rig­gio ho respi­rato den­tro una nuvola di fumo e pol­vere, dopo aver sen­tito quel rumore assor­dante che ti scop­pia den­tro il torace. Era un’esplosione vicino a una ban­ca­rella di frutta. Né il ven­di­tore né il suo cliente si sono tirati indie­tro. Io ero dall’altra parte della strada», ci rac­conta Hanan. Car­relli di arance, mele, banane e coco­meri get­tati vio­len­te­mente per terra senza più colori né sapori. Solo pol­vere gri­gia e odore di fuoco. E’ que­sta oggi Aleppo.
Chie­diamo a Kha­lil, un vec­chio signore del quar­tiere di al-Sakhour, per­ché 400.000 per­sone si osti­nano a rima­nere ancora ad Aleppo. Risponde con un sor­riso, una rarità nel nord della Siria. «Que­sto è il posto da dove vengo e que­sto è il posto dove morirò».

Nei giorni scorsi, il quar­tiere è stato nuo­va­mente e dura­mente ferito da raid aerei delle truppe gover­na­tive. Col­pito l’al-Sakhour hospi­tal, costretto a sospen­dere tutte le atti­vità. Nel solo mese di marzo nell’ospedale sono stati ammessi 2444 pazienti e sono state ese­guite più di 300 pro­ce­dure chi­rur­gi­che d’urgenza. Men­tre ad al-Sakhour i feriti ven­gono mala­mente medi­cati nei pochi sot­ter­ra­nei e rifugi rima­sti, di fronte, nel quar­tiere di al-Shaar, il Fronte Isla­mico cura i suoi com­bat­tenti in un ospe­dale da campo, ambi­gua­mente spon­so­riz­zato dagli Emi­rati Arabi.

La nuova fami­glia di Ammar

Ammar cam­mina sui ciot­toli lisci e tra i palazzi smem­brati di al-Shaar, zop­pi­cando visto­sa­mente. Kefiah a qua­dretti bian­chi e neri in testa, una sorta di uni­forme mili­tare verde scuro, nes­suna arma. Ha 21 anni e il Fronte Isla­mico è la sua nuova fami­glia. Lui la chiama così. È sal­tato su un ordi­gno: «Sono stato ope­rato già una volta — dice -, ho viti e plac­che di acciaio nella mia gamba sini­stra. Ho avuto un’infezione sulla ferita. Non cam­mino ancora bene. Ma tor­nerò pre­sto a com­bat­tere. Allah mi ha dato una seconda possibilità».

Secondo l’ultimo report di Human Rights Watch, su Aleppo si com­batte una guerra aerea indi­scri­mi­nata e ille­gale con­tro i civili. Nell’ospedale da campo di al-Shaar c’è una con­nes­sione inter­net via satel­lite. Ammar segue così i suoi “fra­telli”. Que­sto è l’unico modo per avere noti­zie. Per quasi due anni nelle zone della Siria con­tro il regime, tutti i mezzi di comu­ni­ca­zione, tele­foni fissi e rete mobile sono stati tagliati. «Quando com­bat­tevo avevo un walkie-talkie sem­pre con me, è così che comu­ni­cavo le mie posi­zioni, i miei spo­sta­menti, le mie azioni».

Dai rubi­netti che riman­gono nelle case mar­to­riate, l’acqua cor­rente c’è per un’ora a set­ti­mana. È appena suf­fi­ciente per riem­pire i ser­ba­toi sti­pati sui tetti delle case. Layal ci dice: «Quando non ci rie­sco devo com­prare l’acqua da un pozzo. I nuovi pozzi sono stati sca­vati in modo casuale, in mezzo a quar­tieri affol­lati, senza gli inge­gneri o gli studi».

Ci rac­conta che nel quar­tiere di al-Sukkari hanno ener­gia elet­trica per circa quat­tro ore al giorno, così tante per­sone pagano per avere una fonte alter­na­tiva di luce. Spesso l’elettricità manca per una set­ti­mana intera. I com­mer­cianti locali hanno inve­stito molto denaro in grossi gene­ra­tori e distri­bui­scono ener­gia elet­trica agli altri con un canone men­sile. Men­tre parla, Moha­mad pian­gendo le tira l’hijab. «Voglio por­tare la mia bici fuori per gio­care, ma i miei fra­telli non me lo per­met­tono, per­ché è pas­sato un aereo di Assad nel cielo». Moha­mad ha solo sette anni e non ricorda la vita prima della guerra.

Layal gli spiega pazien­te­mente che qual­cuno potrebbe pren­derlo. Ci dice con il ter­rore negli occhi: «Potreb­bero but­tare il suo corpo ovun­que. Non ci sono le auto­rità a inda­gare, non c’è poli­zia. Ci sono gruppi di ribelli grandi e pic­coli che si divi­dono strade e edi­fici e la gente cono­sce solo quelli che hanno basi nel loro distretto. Qui vicino ci sono i com­bat­tenti del gruppo Fista­qum Kama Oma­rit. Gli altri non li conosco».

Il mondo dei ribelli e la vec­chia Aleppo sono sepa­rate da una linea a zig-zag da sud-est a nord e il con­trollo dei ter­ri­tori è rima­sto pra­ti­ca­mente inva­riato per mesi. Le uni­che cose che hanno ancora in comune sono il caffè e il nar­ghilè.
Il pae­sag­gio è ripe­ti­tivo: sagome di edi­fici quasi crol­lati, camere aperte e fac­ciate intatte. Squa­dre di elet­tri­ci­sti rat­top­pano linee elet­tri­che rotte dopo ogni attacco. Ospe­dali sot­ter­ra­nei con­ti­nuano a fun­zio­nare, man­ten­gono ban­che del san­gue e con­ti­nuano cam­pa­gne di vaccinazione.

La solita infe­zione cutanea

Le indi­ca­zioni per arri­vare nel quar­tiere di Bustan al-Qasr suo­nano addo­lo­ranti. «Passa l’edificio com­ple­ta­mente distrutto. Poi gira a destra dopo l’edificio con i graf­fiti colo­rati e appena dopo sor­passa la casa da cui si vede l’interno di una came­retta con una culla rosa».

L’ospedale del quar­tiere è ormai un relitto: un gro­vi­glio di mace­rie, cavi e pol­vere, con la metà del sof­fitto man­cante e parti dell’edificio com­ple­ta­mente rase al suolo. È saturo di bam­bini con la solita infe­zione cuta­nea che torna con il caldo, l’«Aleppo bol­lire» come la chia­mano qui.

«Non ci sono più medi­cine, che prima arri­va­vano dalla Tur­chia, e que­ste pia­ghe diven­tano ogni giorno più grandi. Non posso fare niente» rac­conta Amira, gio­vane dot­to­ressa con alle spalle anni di studi a Dama­sco. Non va via da Aleppo per­ché non vuole entrare nella schiera dei sette milioni di sfol­lati interni in Siria o nella squa­dra dei quasi quat­tro milioni di siriani rifu­giati all’estero.

Quelli che restano di solito fanno pochi lavori umili: gui­dano mac­chine tra­sfor­mate in taxi, gesti­scono minu­scoli inter­net caffè, o sem­pli­ce­mente ven­dono merce di con­trab­bando. Le orga­niz­za­zioni non gover­na­tive por­tano solo riso e olio. Tutto il resto entra per vie ille­gali. Un rivolo di aiuti si fa strada attra­verso i con­fini labili della città.

Anche nel silen­zio della notte, in quar­tieri interi con­su­mati dal buio, la guerra va avanti. La gente ha ini­ziato a odiare tutti gli schie­ra­menti. «Non vogliamo né le forze del regime né i ribelli. Vogliamo solo vivere in pace», ci dice Majd. Prima lavo­rava per il pro­getto rifiuti solidi del Pro­gramma Onu per lo svi­luppo. «Avevo un po’ di soldi per com­prare il pane per me e i miei vicini. Ora non ho più niente. Aleppo è un’ombra, un guscio. Interi quar­tieri sono stati svuo­tati di resi­denti e case».

Il Manifesto 14/05/2015 “Aleppo, l’ostinazione di chi resta” – di Federica Iezzi

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I bambini spariti dalle prigioni di Israele tra molestie, rapimenti e omicidi

Frontiere News – 08/05/2015

Agenzie umanitarie internazionali hanno documentato che il 75% dei bambini palestinesi in Cisgiordania, detenuto dal governo israeliano, sopporta soprusi e maltrattamenti. Dati confermati dall’UNICEF

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di Federica Iezzi

Cisgiordania – Solo qualche settimana fa l’ennesimo episodio di aggressione e arresto di giovani palestinesi in Cisgiordania. I soldati israeliani hanno fatto irruzione e perquisito abitazioni nei quartieri di Ras al-Amoud, Silwan e al-‘Eesawiyya, a Gerusalemme Est, portando via sette bambini con destinazione Corte distrettuale di Gerusalemme per interrogatori.

Secondo il Ministero della Giustizia palestinese, solo nel 2013 l’esercito israeliano ha sequestrato 3874 palestinesi, tra cui 931 bambini. Osservato un aumento del 5,7% del numero di minori rapiti dai soldati israeliani, rispetto al 2012, e un aumento del 37,5% rispetto al 2011.

Nello scorso gennaio, circa 7000 palestinesi sono stati detenuti nelle carceri israeliane, senza essere stati sottoposti a imparziale processo. Circa 151 di questi, erano bambini.

La repellente verità è che Israele è una democrazia solo se si è abbastanza fortunati da possedere un passaporto israeliano o da essere uno dei due milioni di arabo-palestinesi di Israele, con passaporto israeliano. Restano fuori gli altri 4,5 milioni di palestinesi, che abitano le periferie di Gerusalemme Est e il resto della Cisgiordania. Loro, rimangono sotto la legge marziale militare israeliana senza diritti.

La sofferenza dei ragazzini strappati dalle loro case dall’esercito israeliano, inizia al momento dell’arresto, quando decine di soldati, spesso nelle ore notturne, irrompono nelle case e iniziano a picchiare i membri delle famiglie, fino a rapire i bambini. Ammanettati e bendati vengono scaraventati su tuonanti jeep e trascinati in campi militari o insediamenti. Da lì, al via una serie di violazioni, abusi, minacce, torture, umiliazioni, percosse e isolamento prolungato. Obiettivo: le confessioni pilotate durante gli interrogatori.

Tra il 2012 e il 2014, gli agenti militari israeliani hanno tenuto 54 bambini palestinesi in isolamento per fini di interrogatorio, prima di accusarli di alcun reato.

A differenza dei loro coetanei israeliani, i bambini palestinesi non hanno il diritto di essere accompagnati da un genitore durante un interrogatorio. Nel 93% dei casi, i minori sono stati privati di assistenza legale e raramente informati dei loro diritti.

Secondo i dati ONU, 1266 bambini sono stati feriti dalle forze israeliane in Cisgiordania nel 2014. Modello di abuso progettato dal governo Netanyahu, per costringere i bimbi alle dichiarazioni.

Secondo una ricerca del Defense for Children International Palestine, confermata dall’UNICEF, i piccoli sequestrati arrivano nei centri di interrogatorio israeliani legati e privati del sonno. Più del 60% dei detenuti, subisce forme di violenza fisica tra il periodo dell’arresto e gli interrogatori.

Quasi la totalità di questi confessa una colpa non accertata, per non subire ulteriori soprusi. E il 30% firma dichiarazioni in ebraico. Una lingua che non capiscono. Tutto legale secondo l’Ordine Militare israeliano n.1651, in vigore dopo l’occupazione della Cisgiordania del 1967. Dunque, invece di godere di protezione universale, i bambini palestinesi dei Territori Occupati dal 1967, vivono sotto la legge militare israeliana e vengono perseguiti nei tribunali militari, senza garanzie processuali.

Dopo la condanna, più della metà dei bambini detenuti viene trasferito dal territorio occupato a carceri all’interno di Israele, in chiara violazione della Quarta Convenzione di Ginevra. Questo significa nessuna visita da parte della famiglia, per le evidenti restrizioni alla libertà di movimento dei cittadini palestinesi, in terra israeliana.

Israele sta attualmente tenendo in cattività 5200 palestinesi in 17 carceri, campi di detenzione e strutture per interrogatori. Il numero comprende 250 bambini.

Ogni anno, circa 500-700 minori palestinesi, alcuni con età inferiore ai 12 anni, vengono arrestati e detenuti nel sistema giudiziario militare israeliano. La maggior parte dei bambini detenuti è accusato di lancio di pietre. Considerato dal governo Netanyahu reato contro la sicurezza, che può potenzialmente portare ad una condanna fino a 20 anni, a seconda dell’età del bambino. Israele è l’unico Stato che persegue i bambini in tribunali militari. Naturalmente nessun bambino israeliano entra in contatto con il sistema giudiziario militare.

Molte famiglie palestinesi si rifiutano di sporgere denuncia, per paura di ritorsioni e per mancanza di fiducia nel sistema giudiziario di Tel Aviv.

Mentre la legge militare israeliana si applica a qualsiasi palestinese si trovi nei Territori Occupati, i coloni israeliani che vivono in Cisgiordania, sono soggetti al sistema legale israeliano civile e penale.

Nel 2014, le forze israeliane hanno ucciso 11 bambini palestinesi in Cisgiordania. A solo un incidente ha fatto seguito sia un’indagine sia un atto d’accusa. Dal 2000, le forze di sicurezza israeliane hanno ucciso più di 8896 palestinesi. Almeno 1.900 di questi sono stati bambini.

Frontiere News “I bambini spariti dalle prigioni di Israele tra molestie, rapimenti e omicidi” – di Federica Iezzi

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SIRIA. Ad uccidere è anche la fame

Siria – Ad al-Rastan (Homs) manca il latte che è spesso disperatamente sostituito da soluzioni di acqua e zucchero

 

Nena News Agency – 14 giugno 2014

Secondo i dati ONU, almeno 250.000 siriani sono a rischio immediato di fame. I lunghi assedi, i bombardamenti indiscriminati dell’esercito governativo e dei miliziani islamici, l’obbligata assenza di aiuti umanitari, hanno come risultato quello di affamare disastrosamente la popolazione civile 

 

Douma (Siria) - by Abd Doumany

Douma (Siria) – by Abd Doumany

 

di Federica Iezzi

Aleppo, 14 giugno 2014, Nena News  – Secondo i recenti report dell’ONU, nella Siria in preda alla guerra civile ci sono almeno 250.000 persone che si trovano in zone difficilmente raggiungibili dall’assistenza umanitaria e che sono quindi a rischio fame. Quest’anno il World Food Programme, ha previsto di fornire assistenza alimentare a 6,5 milioni di siriani. 4 milioni di persone all’interno della Siria e 2,5 milioni di rifugiati nei paesi limitrofi: Libano, Giordania, Turchia, Iraq ed Egitto.

In terra siriana, nelle maggiori città e nei più isolati villaggi la situazione è sovrapponibile: gli scaffali dei negozi sono desolatamente vuoti. Dalle strade malridotte si vedono campi abbandonati alla noncuranza, si attraversano villaggi che sopravvivono a stento non potendo più contare sui raccolti agricoli. Troppo pericoloso seminare. Manca il gasolio, per permettere il funzionamento dei sistemi di irrigazione, specialmente nelle aree agricole di Idlib, Aleppo e Homs, le più coinvolte nel conflitto. I trattamenti e i concimi sono costosissimi e spesso introvabili.

Le zone orientali del Paese, lambite dalle acque dell’Eufrate, che consentivano la quasi totalità del sostentamento alimentare della popolazione siriana, sono oggi quelle più colpite dai bombardamenti. A questo si aggiunge la siccità che colpisce le colture nelle zone occidentali. Si vedono i primi segni di una ingente carestia.Alla scarsa produzione si sommano le imponenti difficoltà legate alla distribuzione del cibo. Percorrere le strade militarizzate della Siria, tra le centinaia di posti di blocco e attraversando le linee del fronte, è sempre più pericoloso.

Dai dati dell’Ufficio di Statistica Siriana, il costo di pane e cereali sono aumentati del 115%.

Secondo Human Rights Watch nelle campagne che circondano Damasco e Homs cresce la scarsità di cibo. Nelle zone tenute sotto assedio, 288 mila civili sopravvive mangiando olive, verdure di campo, erbe e radici. Quasi ogni giorno si hanno notizie di scontri a fuoco, attentati falliti e episodi di violenza. E poi si fa i conti con  la pratica dell’assedio e con quel che ne consegue: mancanza di cibo, di medicine, di generi di prima necessità.

Lo scorso febbraio il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, con la risoluzione 2139, ha imposto al governo siriano e alle forze dell’opposizione di consentire l’accesso ai convogli umanitari nelle aree abitate dai civili. Nelle aree controllate dall’esercito regolare, le Agenzie delle Nazioni Unite operano con il consenso di Damasco, permesso che viene spesso rifiutato quando l’intervento è nelle zone, faticosamente accessibili, in mano ai ribelli.

Attualmente il World Food Programme trasporta derrate alimentari nel nord-est della Siria, superando il confine con la Turchia, attraverso il passaggio Nusaybin.

Dunque, oggi, ad uccidere in Siria è anche la fame. Dagli ultimi comunicati del Damascus Center for Human Rights Studies, nel solo mese di maggio in Siria sono morte 2422 persone, tra cui 290 bambini.

Secondo le agenzie umanitarie, prime fra tutte Amnesty International, solo nel campo profughi palestinese di Yarmouk, nella periferia sud di Damasco, circa 20 mila persone si trovano in uno stato di estrema povertà e a rischio malnutrizione, per il mancato arrivo degli aiuti umanitari. Le forze ribelli controllano il campo da oltre un anno e l’esercito ha iniziato un assedio lo scorso giugno. Negli ultimi due mesi più 100 persone sono morte per fame o per mancanza di farmaci essenziali. Nel campo, l’UNRWA (Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei profughi palestinesi nel vicino oriente) riesce saltuariamente a consegnare aiuti, solo dopo estenuanti e ripetute richieste di permesso al governo di Assad.

La mancanza di un coprifuoco e i bombardamenti in pieno giorno senza preavviso, da parte dell’esercito di Assad e da parte dei miliziani jihadisti dell’opposizione, rendono impossibile perfino rovistare per strada alla ricerca di cibo. Rendono impossibile fuggire dai combattimenti che infuriano tutt’intorno. Per il Diritto Internazionale Umanitario, colpire zone densamente popolate da civili, dalle quali la popolazione non ha alcun modo di fuggire, e assediarla fino alla fame, è un crimine di guerra. Nena News

 

Nena News Agency “SIRIA. Ad uccidere è anche la fame” – di Federica Iezzi

 

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