SOMALIA. Lotta al morbillo

Nena News Agency – 22/12/2016

L’International Organization for Migration ha lanciato un programma di vaccinazione nella città di Kismayo. Obiettivo: raggiungere in breve tempo 2.000 persone. L’UNICEF e i suoi partner puntano a vaccinare in città 54.000 bambini sotto i 10 anni nei prossimi mesi

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di Federica Iezzi

Roma, 22 dicembre 2016, Nena News – L’International Organization for Migration ha lanciato una campagna di salute pubblica di massa per contenere l’ultima epidemia di morbillo in corso nell’area di Kismayo, a sud della Somalia. Il programma di vaccinazioni dovrebbe raggiungere in breve tempo oltre 2.000 persone, soprattutto nelle Comunità rurali. L’UNICEF e i suoi partner puntano a vaccinare 54.000 bambini sotto i 10 anni a Kismayo nei prossimi mesi.

Secondo i dati UNICEF, dallo scorso settembre, 704 casi di morbillo sono stati ufficialmente registrati in Somalia, 302 dei quali sono bambini sotto i cinque. La recente epidemia di morbillo ha destabilizzato le forze già esigue del Kismayo General Hospital, il più grande ospedale della quinta città portuale somala, dopo i trattamenti estenuanti messi in atto durante l’ultimo focolaio di colera, risalente allo scorso ottobre.

Incuranti del caldo e delle mosche, decine di bambini affollano l’ospedale. Arrivano presto le complicanze della malaria, come la polmonite, l’encefalite, la cecità. Spesso a questi bambini viene somministrata la terapia per la malaria, poi iniziano le eruzioni cutanee e il prurito agli occhi. In Somalia, il morbillo è una delle principali cause di morte tra i bambini sotto i cinque anni, malattia efficacemente prevenuta con un semplice vaccino. E proprio la Somalia ha uno dei più bassi tassi di vaccinazione in tutto il mondo.

Esistono 16 strutture in tutta la città che assicurano gratuitamente la vaccinazione contro il morbillo, ma ancora troppi bambini risultano non immunizzati. In arrivo a Kismayo da UNICEF, Ministero della Salute somalo, Croce Rossa Internazionale e OMS, 55.000 fiale di vaccini contro il morbillo insieme ad integratori di vitamina A per facilitare il processo di immunizzazione dei più piccoli. La campagna sociale lanciata dal governo di Hassan Sheikh Mohamud mira a sensibilizzare le famiglie circa fattori di rischio, eziologia, sintomi, segni e complicanze della malattia.

Inoltre operatori sanitari di comunità continuano a condurre visite casa per casa educando la popolazione all’immunizzazione di malattie prevenibili con vaccini. Evitando le disastrose complicanze della medicina tradizionale. Il morbillo è un indicatore chiave della forza di sistemi di immunizzazione di un Paese. Ad essere assistiti sono anche gli oltre 150.000 migranti vulnerabili, per la maggior parte provenienti dal Sud Sudan, sfollati interni e comunità ospitanti.

Nonostante una diminuzione del 79% di decessi per morbillo tra il 2000 e il 2015 in tutto il mondo, quasi 400 bambini ogni giorno ancora muoiono per questa infezione. E’ quanto le organizzazioni sanitarie leader affermano. Grazie alla copertura vaccinale sono stati salvati una stima di 20,3 milioni di giovani vite tra il 2000 e il 2015, secondo l’UNICEF. Nel 2015, circa 134.000 bambini sono morti a causa della malattia. Il 75% dei decessi appartengono a Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, India, Indonesia, Nigeria e Pakistan. Nena News

Nena News Agency “SOMALIA. Lotta al morbillo” di Federica Iezzi

 

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NIGERIA. Emergenza alimentare nello stato di Borno

Nena News Agency – 21/11/2016

14 milioni di persone, tra cui 400.000 bambini, hanno oggi bisogno di assistenza umanitaria nella regione, ex roccaforte di Boko Haram. Da quando il gruppo jihadista ha iniziato i suoi attacchi nel Paese nel 2009, sono state uccise decine di migliaia di persone. Oltre 2 milioni gli sfollati

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di Federica Iezzi

Maiduguri (Nigeria), 21 novembre 2016 – In mezzo a fame e migrazioni forzate, sono quasi spariti i bambini al di sotto dei cinque anni di età. E’ l’allarmante appello di Medici Senza Frontiere. Siamo nello stato di Borno, nel nord-est della Nigeria. Non ci sono più nei centri per la cura della malnutrizione, non ci sono più negli ambulatori medici, non ci sono più nei reparti degli ospedali, non ci sono più legati sulle spalle delle loro madri. E’ singolare non vedere bambini piccoli quando vengono allestiti nuovi campi per gli sfollati interni. Esistono sempre e solo fratelli e sorelle più grandi. Allora, dove sono andati?

Tra il 2013 e il 2014, i civili del nord-est della Nigeria lasciano le proprie case per sfuggire agli attacchi dei jihadisti di Boko Haram. Da villaggi limitrofi, a migliaia trovarono rifugio a Maiduguri, capitale dello Stato di Borno. Il governo nigeriano ha lanciato una controffensiva nel 2014, che si è intensificata l’anno successivo. Mentre i combattimenti continuavano ad inghiottire la regione, milioni di civili sono stati sradicati dalle loro terre, spogliate di qualsiasi mezzo di sopravvivenza. La mancanza di cibo e di nutrienti essenziali ha portato a tassi di malnutrizione preoccupanti. La malnutrizione spazza via la resistenza di un bambino o di un anziano alle malattie più banali. E allora un focolaio di morbillo diventa mortale. Malaria, diarrea e infezioni respiratorie hanno decimato la popolazione, la mancanza di vaccinazioni ha fatto il resto.

Solo lo scorso giugno, il governo nigeriano ha dichiarato l’emergenza alimentare nello stato di Borno. Ormai troppo tardi. Troppi bambini e neonati avevano già perso la vita a causa della malnutrizione, aggravata da infezioni e malattie prevenibili. Sono state vittime della fame. Le proiezioni nutrizionali svolte in diverse località a Borno nei mesi tra maggio e ottobre hanno rivelato che il 50% dei bambini sotto i cinque anni sono acutamente malnutriti.

Nel mese di luglio, secondo i report redatti dall’ONU, quasi un quarto di milione di bambini in aree dello stato di Borno è affetto da malnutrizione grave. E almeno 75.000 bambini nel nord-est della Nigeria rischiano di morire per la fame nei prossimi mesi. Il prezzo degli alimenti di base è salito alle stelle negli ultimi mesi. E un numero sempre crescente di famiglie residenti o sfollate, semplicemente non può permettersi di mangiare.

La distribuzione gli aiuti umanitari al di fuori della capitale Maiduguri è estremamente difficoltosa. Le aree periferiche sono isolate e la lotta a Boko Haram infuria ancora attorno a villaggi rasi ormai al suolo. L’agricoltura è annientata, i mercati rimangono vuoti, il personale sanitario e le strutture mediche sono in condizioni gravose. 1,8 milioni di bambini a Borno non va a scuola a causa degli attacchi da parte dei combattenti di Boko Haram. I civili rimasti sono alla disperata ricerca di cibo, e hanno bisogno di assistenza medica, comprese le campagne di vaccinazione. Il ministero della salute nigeriano, con il supporto dell’OMS, si propone di raggiungere più di 75.000 bambini di età compresa tra i 6 mesi e i 15 anni, in 18 campi sfollati, tra cui Muna Garage, Custom House e Fariy, per le campagne di immunizzazione.

14 milioni di persone, tra cui 400.000 bambini, hanno oggi bisogno di assistenza umanitaria nella regione, ex roccaforte dei militanti di Boko Haram. Decine di migliaia di persone sono state uccise e si contano più di due milioni di sfollati da quando Boko Haram ha iniziato le sue operazioni militari nel 2009 nello stato di Borno e in altre aree nord-nigeriane. Nena News

Nena News Agency “NIGERIA. Emergenza alimentare nello stato di Borno” di Federica Iezzi

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GAZA. Ospedali sotto le bombe

Gaza City (Striscia di Gaza) 28 luglio 2014 – Al-Shifa hospital dopo il bombardamento israeliano che ha ucciso 10 bambini

 

Nena News Agency – 28 luglio 2014

 

Nella Striscia di Gaza devastati ospedali, ambulanze, servizi e forniture mediche. Colpito duramente il personale sanitario che continua, senza sosta, a curare feriti e a strappare alla morte centinaia di civili 

 

 

Striscia di Gaza - Ospedale di Beit Hanoun -

Striscia di Gaza – Ospedale di Beit Hanoun –

 

di Federica Iezzi

Khan Younis, 28 luglio 2014, Nena News – E’ il ventesimo giorno dall’inizio dell’attacco israeliano a Gaza. Il numero di palestinesi uccisi supera i 1000, per lo più civili. Almeno 194 sono bambini. I morti nelle fila dell’esercito israeliano sono 43. I feriti palestinesi sono più di 6.000 e continuano drammaticamente ad aumentare. Almeno 1300 sono bambini. Più di 165.000 i profughi.

Sabato, durante la tregua umanitaria di 12 ore – che  pareva prolungata a 24 – sono stati recuperati almeno 151 corpi carbonizzati dai bombardamenti, schiacciati sotto grigi edifici distrutti, mutilati e insanguinati. Molti di questi sono stati rinvenuti nel quartiere di Shujaya, zona est di Gaza City e nel villaggio di Khuza’a, a sud della Striscia. Continua l’incessante lavoro del personale sanitario, privo di alcuna protezione.

Secondo il Ministero della Salute palestinese dei 13 ospedali presenti nella Striscia di Gaza, 6 sono stati obiettivi dei bombardamenti indiscriminati e sono oggi danneggiati. Ventisei tra servizi medici, ambulanze, cliniche e ospedali maggiori sono stati oggetto della furia israeliana.

Dall’inizio dell’offensiva israeliana via terra, l’ultimo a essere colpito in ordine di tempo è stato l’ospedale di Beit Hanoun, a nord della Striscia. Dopo i bombardamenti di giovedì sulla scuola dell’UNRWA che accoglieva profughi palestinesi, venerdì anche il nosocomio è stato investito dai colpi dei carri armati israeliani. Al suo interno sono rimasti bloccati pazienti, civili e 61 persone dello staff medico. L’ospedale è stato parzialmente evacuato, mentre l’esercito israeliano circondava le aree limitrofe. Ieri è stata colpita un’altra ambulanza: è morto un paramedico e un altro è gravemente ferito.

Nella notte tra giovedì e venerdì è stato bombardato anche l’ospedale pediatrico al-Durrah  a Gaza City. E’ morto un bambino di due anni, già severamente ferito, in trattamento nel reparto di terapia intensiva. E i feriti sono stati almeno 30.

Giovedì della scorsa settimana, dopo l’attacco aereo israeliano, è stato completamente evacuato il centro ospedaliero geriatrico e di riabilitazione al-Wafa, nel quartiere di Shujaya. Mercoledì è stato interamente distrutto dalla pioggia di missili israeliani. Il bilancio è stato di almeno 7 cliniche mediche lesionate, 5 membri dello staff sanitario uccisi e altri 13 feriti.

Nei giorni passati è stata colpita da ininterrotti bombardamenti – insieme a 12 ambulanze – la clinica medica al-Atatra, nell’omonimo quartiere di Beit Lahiya, a nord di Jabaliya. E’ stato attaccato per la seconda volta l’ospedale Balsam, a nord della Striscia.

Lunedì scorso i carri armati hanno devastato l’ospedale al-Aqsa, a Deir al-Balah, nel centro della Striscia di Gaza, provocando la morte di almeno 5 persone e il ferimento di più di 50 civili. E’ stato danneggiato e reso inutilizzabile il sistema di erogazione di ossigeno dell’ospedale.

I bombardamenti non sono stati preceduti da nessun avvertimento.

L’evacuazione di molti ospedali causa l’inevitabile sovraffollamento di altri: è il caso dell’ospedale Nasser a Khan Younis, che lotta ogni giorno per far fronte alle centinaia di feriti che si riversano come fiumi nel pronto soccorso.

Nell’European Gaza Hospital di Khan Younis, a sud della Striscia di Gaza, le notti diventano sempre più difficili. Il rumore assordante delle esplosioni e l’odore amaro della polvere da sparo riempiono la porta del pronto soccorso. Molte famiglie dormono nelle aree circostanti l’ospedale. Tutti i letti della terapia intensiva generale sono occupati, molti da donne e bambini. Il personale sanitario si avvicenda con turni di 24 ore. L’ospedale è senza elettricità e senza acqua per la maggior parte della giornata. Le sale operatorie sono state parzialmente lesionate da colpi di artiglieria, ma riescono ancora a rimanere funzionanti. La mancanza di farmaci essenziali e di forniture mediche ha raggiunto livelli critici. Pericolosi e senza copertura gli spostamenti delle ambulanze e del personale sanitario, che avvengono solo prima delle 11 di mattino, diventati, contro ogni norma del Diritto Internazionale Umanitario, target delle bombe israeliane.

Venerdì l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha chiesto la possibilità di aprire un corridoio umanitario, per consentire l’ingresso di materiale sanitario nella Striscia di Gaza e per permettere l’evacuazione di feriti. Soltanto 61 feriti hanno avuto il permesso di attraversare il valico di Rafah, al confine con l’Egitto. E’ rimasto aperto venerdì e sabato il valico di Kerem Shalom, al confine tra Striscia di Gaza, Israele ed Egitto, per l’ingresso di aiuti umanitari. Nena News

 

Nena News Agency “GAZA. Ospedali sotto le bombe” – di Federica Iezzi

 

 

 

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GAZA. Sempre più critica la situazione sanitaria

Gaza City (Gaza Strip) 20 july 2014 – Massacre in Shujaya neighborhood

 

Nena News Agency – 12 luglio 2014

 

Gli ospedali sono vicini al collasso. L’Organizzazione Mondiale della Sanità segnala l’insufficienza di forniture mediche e di carburante per i generatori autonomi di elettricità. Condizioni che non consentono di gestire l’ondata dirompente di feriti, mutilati e invalidi

 

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di Federica Iezzi

Khan Younis, 12 luglio 2014, Nena News – L’Organizzazione Mondiale della Sanità segnala la grave carenza nei serivizi sanitari palestinesi. Insufficienza di forniture mediche e di caburante per i generatori degli ospedali, rendono le strutture sanitarie della Striscia di Gaza inadatte a gestire l’ondata dirompente di feriti, mutilati e invalidi causata dall’offensiva aerea israeliana.

I risultati degli indiscriminati bombardamenti fanno salire ora dopo ora il numero di civili feriti, che si riversano caoticamente negli atri e negli affollati corridoi degli ospedali maggiori della Striscia. I pazienti arrivano negli ospedali in ambulanze, furgoni, auto private e taxi collettivi, senza nessuna forma di allertarmento. Il 23% sono bambini.

Attualmente almeno 250 palestinesi non hanno la possibilità di ricevere cure mediche adeguate, per la mancanza assoluta di letti e barelle nei centri di pronto soccorso. Bloccata le attività sanitarie in elezione.

Mancano farmaci di emergenza, antibiotici e antidolorifici, materiale monouso e materiale sterile. Mancano guanti, cateteri urinari, punti di sutura e attrezzature mediche diagnostiche. Crolla l’attività  dei laboratori. Pesante lo stato delle banche del sangue. Già in utilizzo le scorte di materiale, che diminuiscono severamente. Non ultime, mancano forniture di carburante medico-ospedaliero per fronteggiare le innumerevole ore in cui l’elettricità manca. Critiche le condizioni dei pazienti ammessi nei reparti di emergenza, nelle rianimazioni e nelle sale operatorie.

Nel centro della Striscia di Gaza, nei pressi dei campi profughi di al-Nussairat e al-Maghazi,  negli ultimi bombardamenti sono stati danneggiati un ospedale, tre cliniche secondarie e un centro di desalinizzazione di acqua. Secondo il portavoce del Ministero della Salute palestinese, Ashraf al-Qedra, mancherebbe il 30% dei farmaci essenziali per la cura dei feriti gravi. A Gaza rimane un’autonomia del 15% per il resto dei farmaci, utilizzati nelle cure croniche.

Il Primo Ministro palestinese, Rami Hamdallah e il Ministro della Salute palestinese, Jawad Awwad, hanno coordinato una spedizione via mare, dai territori cisgiordani, Ramallah e Nablus, di farmaci per cure croniche, come diabete e malattie renali, farmaci oncologici, soluzioni arteriose, sacche di sangue e materiale di laboratorio.

Il Qatar avrebbe donato 5 milioni di dollari per l’acquisto di forniture ospedaliere e per servizi di emergenza nella Striscia di Gaza. La donazione sarebbe stata annunciata da Muhammad al-Ummadi, membro del Ministero degli Esteri del Qatar, che presiede il Comitato per la ricostruzione della Striscia di Gaza.

Intanto il personale medico gazawi lavora senza sosta, con turni logoranti senza orari.

Tre giorni fa, l’European Gaza Hospital di Khan Younis, a sud della Striscia di Gaza, ha subito danni durante un attacco aereo avvenuto a breve distanza. Un infermeire è stato ferito. Nonostante il barbaro perpetrarsi di bombardamenti senza preavviso su case, famiglie e bambini, nei pressi dell’ospedale, il personale sanitario continua a lavorare. Divisi in tre gruppi, medici e infermieri, coprono le 24 ore.

Ormai gli spostamenti sono diventati troppo pericolosi. Alcuni non riescono ad arrivare in ospedale perché vivono troppo lontani, per affrontare, senza rischi, il cammino a piedi. A molti mancano soldi per il trasporto pubblico. L’ospedale al-Shifa, nel distretto di Rimal a Gaza City, riceve ininterrottamente da quattro giorni feriti da schegge di proiettili – pare in qualche caso anche dalle operazioni di lancio dei razzi indirizzati dai miliziani palestinesi verso Israele – vittime dei martellanti bombardamenti e dei crolli degli edifici. I 12 letti della terapia intensiva dell’ospedale sono assiduamente occupati.

Da quando, giovedì, le autorità egiziane hanno aperto il valico di Rafah, dopo estenuanti pratiche burocratiche, solo 11 pazienti con ferite gravi hanno avuto il permesso di attraversare il confine tra Striscia di Gaza ed Egitto, in ambulanza. Chiuso nuovamente ieri dopo l’opera di allertamento degli ospedali egiziani più vicini a Rafah e quelli del Sinai settentrionale. Nena News

 

Nena News Agency “GAZA. Sempre più critica la situazione sanitaria” – di Federica Iezzi

 

Gaza Strip 21 july 2014 – AlJazeeza “Deaths as Israeli tanks shell Gaza hospital”

 

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Ebola. Epidemia fuori controllo in Guinea, Sierra Leone e Liberia

Nena News Agency – 30 giugno 2014

 

Oltre 600 le infezioni dal virus ebola confermate in laboratorio in Africa Occidentale. 390 i decessi, secondo gli ultimi aggiornamenti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità

 

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di Federica Iezzi

Conakry (Repubblica di Guinea), 1 luglio 2014, Nena News – Il numero di probabili infezioni e il numero di quelle confermate cambia continuamente e rapidamente. Dallo scorso marzo più di 600 casi di ebola e oltre 390 morti sono stati documentati, dall’Organizzazione Mondiale della Sanità tra Guinea, Liberia e Sierra Leone. Oggi i Paesi dell’Africa Occidentale maggiormente colpiti dal virus.

In Guinea riportati 396 casi di infezione convalidati in laboratorio, con 280 morti. Gli ultimi tre casi nei distretti meridionali di Gueckedou e Telimele.

In Liberia sono 63 i casi confermati e 41 i decessi. Solo nelle ultime settimane 10 nuovi casi e 8 decessi.

In Sierra Leone, il virus ebola con i suoi primi 16 casi è comparso per la prima volta lo scorso maggio. Oggi il numero di morti è arrivato a 46, tra i 176 casi confermati. Il maggior numero dei quali a Kailahun, nella zona est del Paese, al confine con la Liberia.

Il virus ha iniziato a diffondersi in Guinea Conakry all’inizio del 2014. Nei primi tre mesi dell’anno i casi confermati raggiunsero il numero di 112. 70 i morti. Sembrava che il numero di contagi fosse contenuto, invece il virus dalle zone rurali, ha lentamente fatto il suo ingresso nelle aree urbane. Alla fine dello scorso marzo, ebola ha attraversato i confini della Liberia, raggiungendo Monrovia. E la propagazione ha perso il controllo, per la difficoltà di tracciare i movimenti delle persone potenzialmente contagiate.

Pazienti infetti dal virus sono stati identificati in più di 60 località dei tre Paesi coinvolti e questo rende il lavoro di limitare l’epidemia estremamente dispendioso. A fronteggiare la seconda ondata di infezioni, il lavoro instancabile e continuo di Medici senza Frontiere, a supporto delle autorità sanitarie nei tre Paesi africani. MSF ha curato finora 470 pazienti, di cui 215 casi confermati.

La febbre emorragica è la più temibile conseguenza dell’infezione, che nel 90% dei casi è fatale. La diffusione poco localizzata del virus rende più complesse le operazioni di intervento, sia per trattare i pazienti, sia per limitare e circoscrivere l’epidemia.

Essenziali diventano educare il personale sanitario locale e informare la popolazione sui metodi per non diffondere la malattia. Necessario l’isolamento di persone infette. Secondo il parere degli infettivologi l’epidemia andrà ancora avanti per alcuni mesi.

Di questo tratterà l’incontro organizzato dall’OMS ad Accra in Ghana, nei prossimi 2-3 luglio, in cui parteciperanno i ministri della Sanità di undici Paesi africani e altri rappresentanti.

L’obiettivo della conferenza è lo sviluppo di un piano globale per fermare l’implacabile avanzata del virus. Nena News

 

Nena News Agency – “Ebola. Epidemia fuori controllo in Guinea, Sierra Leone e Liberia” di Federica Iezzi

 

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SIRIA. Due ospedali su tre sono distrutti

Siria – Lo scorso 7 giugno, bombardamenti sull’ospedale di Bab al-Hawa, al confine con la Turchia

 

Nena News Agency – 23 giugno 2014

 

Nelle zone sotto bombardamento non vengono risparmiati nemmeno gli ospedali. Scarseggiano medici, trattamenti e sicurezza in tutte le strutture sanitarie della Siria

Idlib (Syria) - Bab al-Hawa hospital

Idlib (Syria) – Bab al-Hawa hospital

 

 

di Federica Iezzi

Aleppo, 23 giugno 2014, Nena News – L’ultimo in ordine di tempo è l’ospedale di Bab al-Hawa, colpito da bombardamenti aerei il 7 giugno scorso. Questo sconosciuto ospedale non è finito sulle prime pagine dei media internazionali. Queste notizie passano inosservate. Sono diventate di routine. Eppure l’ospedale di Bab al-Hawa rappresenta uno dei centri medici di riferimento nel governatorato di Idlib e accoglie ogni mese fino a 2000 pazienti, che confluiscono anche da città come Aleppo, Homs e Hama, a oltre 200 chilometri di distanza.

E’ un ospedale in cui nonostante le bombe dell’aviazione di Damasco e i colpi di mortaio dei ribelli qaedisti, nonostante i tagli sempre più pesanti alla fornitura elettrica, 35 persone, fra medici, infermieri e staff, continuano il loro lavoro. La struttura medica, che ha notevolmente intensificato la sua attività dal gennaio del 2013, si trova vicino la frontiera di Bab al-Hawa, sul lato siriano di fronte alla città turca di confine di Reyhanli.

All’inizio, la maggior parte dei pazienti erano membri dell’Esercito Siriano Libero, i ribelli che da 39 mesi combattono il regime di Bashar al-Assad. Oggi sono i civili, sono gli sfollati, sono i bambini a insanguinare le barelle. I missili caduti dal cielo sull’area vicina al confine con la Turchia sono esplosi a distanza ravvicinata dall’ospedale, quanto basta per causare danni all’edificio e alle attrezzature. Tra i feriti risultano anche due bambini, che giocavano nel cortile dell’ospedale.

Secondo i recenti dati pubblicati dalle agenzie delle Nazioni Unite UNRWA (United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East) e UNDP (United Nations Development Programme) e secondo il Syrian Centre for Policy Research, 61 dei 91 ospedali siriani sono stati gravemente danneggiati e quasi la metà, il 45%, sono fuori servizio.

La copertura dei programmi di vaccinazione è crollata al 68%. Le drammatiche e precarie condizioni di igiene nei campi profughi da as-Salama, nel governatorato di Aleppo, a Yarmouk, alla periferia di Damasco, fanno crescere i casi di leishmaniosi, poliomielite, morbillo, meningite, tifo e colera, tra i sempre più affollati angusti spazi. Circa  80 mila bambini sono affetti da polio. La leishmaniosi è passata da 3 mila a 100 mila casi. Sono già 7 mila i casi di morbillo.

Tre donne su quattro non sono assistite durante il parto. Per il timore di un travaglio sotto le zone assediate e sotto i pesanti bombardamenti quotidiani, è raddoppiato il numero di parti cesarei (passati dal 19 al 45 per cento, con picchi del 75 per cento nelle città sotto assedio), in pronto soccorso improvvisati, illuminati solo con qualche vecchia torcia. I neonati prematuri rischiano di scomparire nelle incubatrici per i frequenti blackout elettrici. Il problema collaterale è la mancanza di latte artificiale, spesso disperatamente sostituito da semplici soluzioni di acqua e zucchero.

Scarseggiano i farmaci salvavita e i pazienti con malattie croniche possono contare solo su un accesso limitato e carente alle strutture sanitarie, secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Nel governatorato di al-Raqqa, dove risiedono 500 mila sfollati, il numero di pazienti diabetici ha raggiunto i 21 mila: nessuno di loro ha possibilità di ricevere una terapia farmacologica adeguata. Nel centro di emodialisi di al-Thanaa a Damasco, una seduta su tre è stata cancellata per la scarsità di scorte. A causa della mancanza di farmaci chemioterapici, i trattamenti ciclici per cancro sono sospesi: 70 mila bambini sono malati di cancro e 5 mila sono in dialisi.

Circa il 50 per cento dei medici è fuggito all’estero: queste le stime di Save the Children. Il resto del personale medico è stato ucciso o imprigionato. Ad Aleppo, più di 2 milioni di persone sono assistite da soli 36 medici. Physicians for Human Rights (PHR) ha documentato la morte di 468 professionisti sanitari in Siria. Oltre 100 operatori sanitari sono stati giustiziati o torturati dalle forze governative. Nei tre anni di conflitto armato, l’ONG ha dimostrato 150 attacchi mirati contro strutture mediche. Dallo scorso gennaio sono stati contati almeno 14 attacchi.

Nell’ultimo report del PHR dello scorso maggio è descritta minuziosamente la situazione sanitaria in Siria. Ad Aleppo sono funzionanti solo 4 ospedali. A Qaboon, quartiere a nord-est di Damasco, sono funzionanti 2 dei 18 servizi sanitari. A Jobar, alle porte di Damasco, il villaggio dei ribelli conosciuto dal mondo per gli attacchi chimici dello scorso anno, non ci sono ospedali funzionanti e 1.900 persone sono completamente senza assistenza medica. A Damasco sono funzionanti 3 ospedali pubblici. Dallo scorso aprile, i decessi dovuti alla difficoltà di ingresso a strutture mediche sono almeno 191. Nena News

Nena News Agency – “SIRIA. Due ospedali su tre sono distrutti” di Federica Iezzi

 

 

 

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ARABIA SAUDITA. La Mers fa paura ai pellegrini

Nena News Agency – 07 giugno 2014

 

Il governo di Riad ha ridotto il numero di fedeli ammessi a La Mecca per il pellegrinaggio dell’Hajj e alcuni Paesi hanno consigliato di rinviare il viaggio che ha inizio durante il Ramadan (28 giugno-27 luglio) 

 

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di Federica Iezzi

La Mecca (Arabia Saudita), 7 giugno 2014, Nena News –  Il rito del pellegrinaggio a La Mecca da 14 secoli abbraccia i quattro angoli del mondo. Situata nella regione saudita dell’Hegiaz, La Mecca ogni anno accoglie due milioni di musulmani. Il numero di pellegrini, nella città santa dell’Islam prima di Medina e Gerusalemme, è stato ridotto quest’anno dal governo di Riad per la serpeggiante presenza del virus responsabile della Middle East Respiratory Syndrome (MERS). Il principale timore, soprattutto in Arabia Saudita, è che il tradizionale pellegrinaggio dell’Hajj possa scatenare una spirale di infezioni prima che si trovi una cura efficace.

La grande moschea di Masjid al-Haram, potrebbe dunque non vedere tra l’ottavo e il tredicesimo giorno del mese di Dhu l-hijjah, ad ottobre, la solita potente affluenza di fedeli, vestiti con due pezzi di tessuto bianco non cucito. Paesi come Tunisia, Egitto e Iran hanno consigliato ai fedeli di rinviare l’Umrah, il piccolo pellegrinaggio, e l’Hajj, il grande pellegrinaggio annuale, che ha inizio per molti musulmani nel corso del digiuno del mese di Ramadan, quest’anno dal 28 giugno al 27 luglio.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha confermato, con dati di laboratorio, 636 casi di MERS e 193 morti legati alla polmonite infettiva che nel 2002 scoppiò in Cina, infettando 8.000 persone e uccidendone quasi 800. La maggior parte dei casi è legata alla penisola arabica, dove attualmente i decessi per MERS sono arrivati a 283. E i casi di contagio sono saliti a 689. Casi confermati in altri Paesi del Medio Oriente, quali Giordania, Kuwait, Oman, Qatar, Emirati Arabi, Yemen e Libano. Casi sporadici in paesi del nord Africa, in Malesia, nelle Filippine, negli Stati Uniti e in alcuni Paesi dell’Unione europea.

Due settimane fa si è tenuto un vertice di emergenza a Ginevra, dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, sulla minaccia crescente a livello globale del virus MERS. È stata inviata a Gedda una squadra dell’OMS per studi sulle modalità di trasmissione del virus, in vista del grande pellegrinaggio religioso annuale a La Mecca.

Il cammino verso La Mecca, descritto nella Sura al-Hajj del Sacro Corano, rappresenta il quinto pilastro dell’Islam ed è un atto obbligatorio nella vita di ogni musulmano. Dallo scorso ottobre, inizio del calendario musulmano, il numero di pellegrini dell’Umrah in Arabia Saudita  ha già toccato i 4,8 milioni. Quest’anno, vicino alla sacralità della Ka’bah, i pellegrini si trovano a fronteggiare una serie di precauzioni dettate dalle autorità saudite per ridurre al minimo i contagi. Nena News

 

Nena News Agency “A. SAUDITA. La Mers fa paura ai pellegrini” di Federica Iezzi

 

 

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SUD SUDAN, oltre alla guerra il colera: già 23 morti

Nena News Agency – 29 maggio 2014

A Juba in meno di un mese si contano quasi 700 contagi. Il colera ha ucciso già 23 persone. Raddoppiate le dosi di vaccino tra gli sfollati dei campi profughi interni 

 

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di Federica Iezzi

 

Roma, 29 maggio 2014, Nena News  – Sono saliti a quasi 700 i casi di colera registrati in Sud Sudan. Il bollettino dell’Organizzazione Mondiale della Sanità parla di 23 morti. L’epidemia è per ora confinata a Juba, la capitale della piccola nazione africana, che ha ottenuto l’indipendenza soltanto 3 anni fa. In altre località nel Paese, negli stati di Jonglei, Lakes and Upper Nile, ci sono stati casi sospetti, in attesa della conferma di laboratorio.

La prima conferma di infezione da colera è arrivata il 6 maggio. Il 15 maggio il Ministero della Salute del Sud Sudan ha confermato ufficialmente l’epidemia nella capitale. Una delle aree maggiormente colpite è il distretto di Gudele. Colpite anche le aree: Juba Nabari, Jopa, Kator, Gabat, Mauna, Newsite, Nyakuron e Munuki. I primi 200 casi sono stati trattati al Juba Teaching Hospital, con oneroso dispendio delle già scarse risorse. Medici Senza Frontiere sul territorio del Sud Sudan dal 1983, sta operando duramente per contenere il contagio di colera.

Insieme allo staff di Medici Senza Frontiere, UNICEF, Medair, Organizzazione Mondiale della Sanità e Organizzazione Internazionale per le Migrazioni hanno supportato con donazioni di medicinali e materiali medicali le strutture sanitarie del Sud Sudan. Inviati letti, kit di laboratorio per la diagnosi di colera, materiale per la clorazione dell’acqua, sali per la reidratazione orale. Inviato personale medico e paramedico di appoggio.

La guerra civile che impera nel Paese da anni e le selvagge violenze tra gruppi etnici hanno provocato mezzo milione di sfollati interni. Attualmente gli scontri tra truppe e ribelli continuano, nonostante l’accordo per un cessate il fuoco, firmato all’inizio del mese a Addis Abeba tra il presidente del Sud Sudan, Salva Kiir, e il leader dei ribelli, Riek Machar.

La situazione sanitaria nei campi profughi è drammatica. Condizione che peggiora di giorno in giorno per l’arrivo della stagione delle piogge. La mancanza di acqua potabile nei traboccanti campi profughi costringe gli sfollati ad usare l’acqua del Nilo per bere e per lavarsi le mani, aumentando il rischio di contagio del batterio. Il colera si diffonde attraverso acqua e cibi contaminati. Il numero di casi raddoppia ogni giorno. Nel campi profughi di Mingkaman, Malakal, Bor, Tomping, Melut e Bentiu sono stati installati centri per rispondere all’epidemia di colera, sono state organizzate linee per la distribuzione di acqua potabile, sono state condotte campagne di sensibilizzazione e vaccinazione contro il colera.

Dei 12 milioni di abitanti, più di 80 mila persone tra aprile e maggio sono state vaccinate contro il colera. Nei campi profughi, distribuite due dosi di vaccino per ogni soggetto. Particolare attenzione ai 50.000 bambini a rischio imminente di morte per malnutrizione e ai 740.000 ad elevato rischio di insicurezza alimentare. Nena News

 

Nena News Agency “SUD SUDAN, oltre alla guerra il colera: già 23 morti” di Federica Iezzi

 

 

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La Somalia dimenticata, in piena crisi politica ed umanitaria

Nena News Agency – 11 maggio 2014

In costante ritardo la catena di aiuti umanitari in Somalia, dovuta alle difficoltà di accesso in alcune aree del Paese e agli scarsi fondi messi a disposizione dai donatori

 

SOMALIA

 

di Federica Iezzi

Mogadiscio (Somalia), 11 maggio 2014, Nena News – Nella Somalia esposta agli attentati di al-Shabaab, l’organizzazione fondamentalista collegata ad Al-Qaeda, che controlla l’area centro-meridionale del Paese e che destabilizza l’intero territorio dello Stato, si frantumano anche gli aiuti umanitari. Gran parte della popolazione somala convive quotidianamente con denutrizione, malattie e infezioni, il tutto gravate da duri cicli di siccità e carestie.

Il corridoio umanitario nella terra di Afghoy, costruito sulle rovine della strada nazionale che collegava Mogadiscio a Baidoia, e i gremiti campi profughi di Mogadiscio, non sono bastati a scongiurare nei due precedenti decenni, emergenze umanitarie di singolari proporzioni. La carestia, causata dalla guerra tra fazioni nel 1992, ha provocato la morte di oltre 220 mila persone. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite quasi 260 mila somali sono morti di fame durante la crisi umanitaria che ha sconvolto il Paese nel biennio 2010-2012.

Oggi come vent’anni fa la guerra civile demolisce il Paese. Le città appaiono come una guarnigione misera e trascurata. Lungo le strade decine di posti di blocco a poche centinaia di metri l’uno dall’altro, sprofondano nella gretta desolazione. Campi abbandonati all’incuria e alla desertificazione. I villaggi sopravvivono a stento non potendo più contare nemmeno sui raccolti agricoli. Ogni giorno scontri a fuoco e attentati falliti.

Data la dispersione su tutto il territorio di una popolazione prevalentemente nomade e seminomade, la Somalia non è mai stata preda di un governo centrale. Questo delicato equilibrio fu alterato dall’imposizione del dominio coloniale, di un sistema di egemonie tribali.Il Paese continuò negli anni a rimanere ostaggio delle fazioni armate, nonostante tregue e tardivi interventi ONU (missioni UNOSOM I e UNOSOM II) e degli Stati Uniti (operazione Restore Hope), dagli esiti manifestamente fallimentari.

Oggi come vent’anni fa, nel Corno d’Africa imperversano siccità e carestie stagionali, giudicate normali dagli esperti. Il numero delle vittime, incalcolabile. I profughi, decine e decine di migliaia: verso il campo di Dadaab nel nord-est del territorio keniano, che ospita ormai più di 450.000 rifugiati, e verso il sud dell’Etiopia. Come vent’anni fa, sono continui i ritardi negli aiuti umanitari, dovuti alle difficoltà di accesso in alcune aree del Paese e agli scarsi fondi messi a disposizione dai donatori.

Attualmente circa 3 milioni di persone necessitano per sopravvivere di immediati aiuti umanitari. Sono poche le possibilità di trovare un’assistenza sanitaria di qualità, per l’inabilità di trasportare medicine, come cibo, nelle aree controllate militarmente dalle milizie estremiste islamiche. Le autorità sanitarie somale, con la collaborazione di UNICEF, OMS e Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione, ha presentato un programma, che si concluderà nel 2016, per il miglioramento dell’assistenza sanitaria di base. Progetto da 8 milioni di dollari.

Per il ritardo della stagione delle piogge, per l’aumento dei prezzi sugli alimenti e per la persistente insicurezza nel Paese, più di 800.000 persone rischiano i danni di una incalzante carestia. La FAO risponde con un progetto annuale da 12 milioni di dollari che prevede la duratura pianificazione del programma alimentare e il dinamico sostegno alla coltivazione locale. Nena News

 

Nena News Agency “La Somalia dimenticata, in piena crisi politica ed umanitaria” – di Federica Iezzi

 

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Il virus MERS fa paura in Medio Oriente

Nena News Agency – 24 aprile 2014

E’ la Sindrome Respiratoria Medio-Orientale da coronavirus. 253 casi nella sola penisola arabica e registrati già i primi 10 casi in Europa 

 

 

di Federica Iezzi

 

Virus MERS

Virus MERS

Roma, 24 aprile 2014, Nena News – C’è confusione e paura in Medio Oriente per la nuova ondata di infezioni dovuta ad un virus della  stessa famiglia di quello della temuta SARS (Sindrome Acuta Respiratoria Grave).  Con oltre 8000 casi di contagio nel 2003, di cui il 9% sfociato in decessi, la SARS è oggi controllata magistralmente grazie al lavoro della rete di medici e ricercatori messi a disposizione  dall’OMS. La variante mediorientale della SARS oggi si chiama MERS (Sindrome Respiratoria Medio-Orientale). L’inedito agente patogeno non ha alcuna relazione con nessun altro coronavirus  identificato prima d’ora ed ha un tasso di mortalità che si avvicina al 50%. Le prime propagazioni, dai contorni poco chiari, si allargarono a macchia d’olio, a partire da Guangdong in Cina, tra il novembre del 2002 e il luglio del 2006, mietendo circa 800 vittime.

Il focolaio epidemico nasce a Jeddah, in Arabia Saudita. Inizialmente è stato maggiormente concentrato nelle regioni orientali della penisola arabica, oggi è diffuso su più aree. Attualmente 253 sono i casi di infezione confermati dai laboratori dell’OMS. 93 i decessi. Solo nell’ultima settimana, si sono contate 49 nuove infezioni. E sono stati registrati anche i primi 10 casi in Europa. L’ultimo in Grecia, 6 giorni fa, in un settantenne, di ritorno da Dubai. La Grecia così si unisce a Regno Unito, Francia e Italia, nella lista di Paesi Europei in cui sono stati registrati casi di MERS. Altri casi in Giordania, in Tunisia, in Malesia e nei territori lambiti dalle acque del Golfo Persico, quali Kuwait, Qatar, Oman.

Il virus della MERS dà sintomi simili a quelli di un comunissimo raffreddore, è invece responsabile di cruente polmoniti virali, che necessitano di periodi di quarantena. Dalla Columbia University arrivò la notizia che i pipistrelli potevano essere il vettore del coronavirus. Dai Paesi Bassi invece l’annuncio che il serbatorio del virus della MERS potrebbero essere i dromedari. Non esistono evidenze di trasmissione intracomunitaria.

L’OMS incoraggia il Medioriente a continuare sorveglianza, misure di prevenzione e controllo delle infezioni respiratorie acute. Il governo dell’Arabia Saudita dice di avere la situazione sotto controllo. Il numero di casi registrati non è ancora tale da poter parlare di epidemia. Nena News

 

Nena News Agency – “Il virus MERS fa paura in Medio Oriente” – di Federica Iezzi

 

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