YEMEN. Sette giorni in sette foto: la disabilità

Nena News Agency – 05/06/2017

Per una settimana vi proporremo ogni giorno una foto scattata dalla nostra collaboratrice Federica Iezzi a Sana’a. Sette foto per raccontare la vita quotidiana in un paese martoriato dalla guerra

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di Federica Iezzi

Sana’a (Yemen), 5 giugno 2017, Nena News – All’al-Sabeen Maternity and Child Hospital di Sana’a, Fatima incuriosita ci chiede “Perchè la mia bambola ha due gambe e io no?” Lei non si ricorda nulla di quell’esplosione folle che ha portato via sua madre e l’ha lasciata alle cure della nonna.

Almeno 6.000 persone, tra cui più di 2.000 bambini, in Yemen convivono forzatamente con una disabilità legata agli effetti di esplosioni e bombardamenti. Almeno 350.000 bambini non frequentano la scuola come conseguenza diretta del conflitto e un totale di due milioni di bambini sono attualmente fuori anno scolastico.

E sono proprio le persone con disabilità che si trovano ad affrontare i rischi di abbandono, negligenza e mancanza di pari accesso a prodotti alimentari e sanitari durante i conflitti e gli spostamenti.

Il report diffuso dall’OCHA sui bambini torturati dalle mine antiuomo ricorda che negli anni ‘60 il confine tra nord e sud del Paese era disegnato da esplosioni. A partire dal decennio scorso, forze militari e governative sono state accusate di utilizzare le mine terrestri nel villaggio di Sa’ada nel nord, nel sud del governatorato di Abyan, a Sana’a e dintorni, e nel governatorato di Hajjah, sulla costa nord-occidentale del Paese. Nena News

Nena News Agency “YEMEN. Sette giorni in sette foto: la disabilità” di Federica Iezzi

 

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Carestia in Somalia. Federica Iezzi, medico sul campo nell’emergenza

@Mentinfuga – 24/03/2017

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Intervista di Cristiano Roccheggiani a Federica Iezzi

Impantanati nella melma delle sabbie mobili della grande crisi economica e sociale che attanaglia le nostre vite, chiuse sempre più ermeticamente nelle nostre città, ci siamo dimenticati ancora una volta dell’Africa. E pensare che a questo Continente, che abbiamo spogliato mentre lo condannavamo a un eterno non-futuro, la nostra civiltà deve tanto. Per il grande debito morale e umano che vi abbiamo contratto; e perché lo sfruttamento sistematico delle risorse ha consentito a tutti noi di poterci permettere vite, nonostante tutto, ancora comode.
Proprio nei giorni in cui ricorre il ventitreesimo anniversario dell’assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, giungono in queste ore drammatiche notizie dalla Somalia, dove la terza carestia in 25 anni, sta portando alla diffusione di epidemie come colera e morbillo tra le popolazioni, soprattutto, come è solito in queste situazioni, bambini. Testimoni di questa nuova emergenza umanitaria sono ancora una volta i medici volontari che, insieme alle diverse organizzazioni non governative presenti nella zona, cercano disperatamente di portare il loro aiuto nella speranza di ridurre il più possibile le perdite umane.
Tra queste persone meravigliose, dalla generosità e umanità sconfinate, c’è Federica Iezzi. Cardiochirurgo pediatrico, ma anche curatrice di un sito web (http://www.federicaiezzi.wordpress.com) di informazione continua, chiediamo a Federica di farci un resoconto di queste drammatiche ore.

Federica, innanzitutto com’è ora la situazione?
Il numero di persone che necessita di assistenza alimentare in Somalia attualmente è di 6.2 milioni, oltre la metà dell’intera popolazione del Paese, a causa del peggiorare della siccità, della conseguente carestia e della presenza incombente del gruppo estremista islamico al-Shabaab.
Oltre due milioni di persone, che hanno bisogno di assistenza alimentare, sono al momento irraggiungibili a causa delle condizioni di insicurezza.
Più di 363mila bambini sono affetti da malnutrizione acuta, tra cui 71.000 affetti da forme di malnutrizione grave. Secondo il Cluster Nutrizione per la Somalia, se non verranno forniti aiuti con urgenza i numeri potrebbero quasi triplicare: in 944mila rischiano di entrare nel tunnel della malnutrizione nell’arco di quest’anno, inclusi 185.000 bambini che saranno gravemente malnutriti e che avranno bisogno di sostegno urgente salvavita, secondo i dati diffusi dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. In questo momento, secondo le Nazioni Unite, più di 50.000 bambini rischiano di perdere la vita.
Solo un rafforzamento massiccio e immediato dell’assistenza umanitaria, potrà evitare al Paese di precipitare nell’ennesima catastrofe.

Quali sono le zone maggiormente colpite? Di che estensione si può parlare? La carestia ha raggiunto anche gli altri Paesi della zona?
Negli ultimi mesi la siccità che ha colpito la Somalia centro-meridionale, e le regioni settentrionali del Puntland e del Somaliland, la peggiore dal 1950, si è intensificata notevolmente a causa del mancato verificarsi delle piogge stagionali. Le condizioni dei bambini che soffrono la fame e delle loro famiglie sono in netto peggioramento. Nelle aree maggiormente colpite dalla siccità molte persone restano senza cibo per diversi giorni.
La siccità attuale ha lasciato interi villaggi senza raccolti, la Comunità ha visto morire il bestiame. I prezzi dell’acqua e del cibo, prodotto localmente, sono aumentati drasticamente. In alcune parti della Somalia il prezzo dell’acqua è cresciuto di 15 volte rispetto al periodo precedente alla siccità e anche il prezzo dei beni alimentari ha subito lo stesso incremento. La conseguenza diretta è lo spostamento in massa dei civili, verso le grandi città somale. Questo ha determinato una promiscuità nei campi profughi non ufficiali nati nelle periferie delle città, con un aumento delle malattie causate dall’acqua contaminata. A complicare il quadro, si contano ad oggi oltre 8.400 casi di diarrea acuta e colera. Più di 200 i decessi.
Secondo l’UNICEF, quest’anno, circa un milione e mezzo di bambini è a rischio di morte imminente per malnutrizione acuta grave, viste le incombenti carestie in Nigeria, Somalia, Sud Sudan e Yemen. E più di 20 milioni di persone si troveranno ad affrontare la fame nei prossimi sei mesi tra Gibuti, Eritrea, Etiopia, Kenya, Sudan e Uganda. La siccità, che continua ad essere una piaga in Somalia, è secondo le stime peggiore dell’ultima del 2011 che uccise 250.000 persone.

Come si può riuscire a fronteggiare un’emergenza di queste dimensioni? Quali sono i provvedimenti di prima necessità? Di cosa c’è bisogno?
La comunità internazionale deve intensificare i propri sforzi per fare in modo che quel tragico momento storico, risalente al 2011, non si ripeta e sappiamo che agire efficacemente in questa fase può fare realmente la differenza.
C’è bisogno di acqua. I pozzi poco profondi che fornivano acqua alla gente, ora sono asciutti. Nei letti dei fiumi aridi bisogna scavare fino a 15 metri per trovare l’acqua. Nella maggior parte dei casi si tratta di acqua non potabile che viene utilizzata ugualmente per bere, aumentando il rischio di infezioni del tratto gastrointestinale. Bisogna pianificare la trivellazione di nuovi pozzi, scegliendo oculatamente siti.
C’è bisogno di cibo. Le acque somale continuano ad essere controllate dalla moderna pirateria che implica dirottamento, presa in ostaggio e estorsione delle navi commerciali, non permettendo il trasporto in sicurezza dei pacchi alimentari del World Food Programme (WFP).
Manca un rafforzamento del servizio sanitario nei centri di salute primaria locali, con la fornitura di farmaci di base e beni alimentari.
Se si supportasse la gente con acqua, servizi sanitari e mezzi di sostentamento e venisse pianificata una distribuzione di semi e attrezzature per l’agricoltura, l’insicurezza alimentare sarebbe quanto meno un’entità più lontana, così da migliorare l’accesso al cibo e l’accesso alle attività produttrici di reddito.

Come sta reagendo la Comunità Internazionale di fronte a questa ennesima emergenza umanitaria? Ci sono stati interventi ufficiali, ad esempio dei governi?
Secondo Save the Children la risposta della Comunità Internazionale alla minaccia della carestia in Somalia, sta ripercorrendo i gravi errori dell’ultima crisi.
L’UNICEF, con il supporto dell’European Civil protection and Humanitarian aid Operation (ECHO), ha istituito centri di nutrizione nei campi rifugiati, che finora hanno permesso un tasso di recupero del 92,4% per i 42.526 bambini gravemente malnutriti in tutta la Somalia. Il programma ha mostrato grandi progressi a partire dal 2013, fornendo assistenza a migliaia di bambini malnutriti e donne in gravidanza o in allattamento.
Generosi contributi sono stati forniti da donatori internazionali dell’Europa, dell’Asia, del Nord America e dal sistema ONU per servizi salvavita nei campi della nutrizione, della sicurezza alimentare, della salute, dell’istruzione, delle risorse idriche e sanitarie.
Con l’aumento dei bisogni, l’UNICEF e il WFP insieme, necessitano di oltre 450 milioni di dollari per poter fornire assistenza urgente nei prossimi mesi.
L’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA) ha chiesto alla comunità internazionale lo stanziamento di circa 860 milioni di dollari per fornire immediati aiuti salvavita alle popolazioni.

Organizzazioni mondiali come l’UNICEF, la FAO, l’OMS, sono presenti? Come vi supportano?
Il WFP sta sfamando un milione e mezzo di persone nelle zone settentrionali e centrali della Somalia e a Mogadiscio, dove continuano ad arrivare quanti riescono a fuggire dalle zone della carestia. A partire dallo scorso novembre, più di 135.000 persone sono state costrette a spostarsi all’interno della Somalia a causa della siccità.
Quest’anno, l’UNICEF sta lavorando con i suoi partner per garantire cure terapeutiche a oltre 200.000 bambini gravemente malnutriti in Somalia.
Come dato preoccupate rimane quello dell’accesso umanitario limitato, soprattutto alle regioni a sud. Il WFP e l’UNICEF stanno rafforzando gli impegni congiunti per potenziare la risposta nelle aree meno accessibili dove sono a rischio milioni di vite.

Oltre all’emergenza legata alla carestia, ce ne è senz’altro un’altra di carattere sociale, e la complicata situazione politica di tutta la zona del Corno d’Africa non fa altro che peggiorare le cose. Come stanno reagendo la popolazione e i governi, anche nel resto dei paesi colpiti?
Attualmente un’altra emergenza è quella legata al gran numero di rifugiati che sta rientrando in Somalia. Il programma di rimpatrio a Dadaab, campo profughi a nord-est del Kenya, per esempio, continua con una media di quasi 2.000 rifugiati che, a settimana, tornano volontariamente in Somalia. 49.376 rifugiati somali sono tornati a casa dal dicembre 2014, quando l’UNHCR ha iniziato a sostenere il rientro volontario dei rifugiati somali dal Kenya. Di questi 10.062 sono stati sostenuti nel solo 2017. I rifugiati stanno rientrando in particolare nella zona di Baidoa, a nordovest di Mogadiscio, e nella zona di Kismayu, a sudovest della capitale. Molti rifugiati si ritrovano senza un riparo e versano in condizioni igieniche molto gravi. La qualità dell’acqua rimasta, produce diarrea e malaria che si stanno diffondendo rapidamente. Non ci sono latrine per i nuovi rifugiati, le diffuse pratiche non igieniche espongono le Comunità al rischio di gravi epidemie.
Il cambio al governo somalo e la nuova presidenza, affidata a Mohamed Abdullahi Mohamed, dovranno affrontare molteplici sfide: la minaccia rappresentata da gruppi estremisti somali, la carestia incombente, le istituzioni deboli, le fazioni in lotta, il rientro di civili somali da Paesi limitrofi e la disoccupazione dilagante in un Paese in cui oltre il 70% della popolazione è sotto i 30 anni.
Intanto il neo-presidente somalo Mohamed Abdullahi Mohamed ha dichiarato lo stato di disastro nazionale. Sa’ad Ali Shire, ministro degli esteri dell’autoproclamata repubblica del Somaliland, ha invocato aiuti urgenti, soprattutto cibo, acqua e medicine per scongiurare la catastrofe.

Una testimonianza, se puoi, del tuo incredibile impegno e coraggio.
In Somalia ho lavorato nel ‘Mohamed Aden Sheikh Children Teaching Hospital’ (MAS-CTH), un ospedale pediatrico costruito grazie al lavoro e all’impegno italiano, ora amministrato totalmente dal governo del Somaliland.
Intelligente modello di cooperazione internazionale, entrato imponentemente nell’assetto sanitario del Paese, il MAS-CTH, incidendo sulle politiche sanitarie del Somaliland, riveste oggi l’importante compito di punto di riferimento per l’intera popolazione pediatrica.
Sono stati oltre 50.000 i bimbi visitati in cinque anni. Sono stati formati medici e infermieri locali. Negli anni il percorso di apprendimento è stato accompagnato da personale sanitario internazionale.
E tutto questo in un Paese dove dispute tra clan, corruzione, violenze, sono state pratiche quotidiane per anni, dal dittatore Mohamed Siad Barre, al fallimento delle missioni di peacekeeping delle Nazioni Unite, dai governi di transizione e dalle corti islamiche all’intervento militare di Etiopia e Stati Uniti.

Mentinfuga “Carestia in Somalia. Federica Iezzi, medico sul campo nell’emergenza”

Radio Città Aperta “Somalia, la guerra dimenticata e le nostre responsabilità”

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SUD SUDAN. La guerra civile piega il paese

Nena News Agency – 15/12/2016

Il costante processo di pulizia etnica in corso in diverse aree del Sud Sudan tra le 64 diverse tribù che abitano il Paese, annovera fame, stupri di gruppo e incendi di villaggi

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di Federica Iezzi

Roma, 16 dicembre 2016, Nena News – Più volte paragonata al genocidio del Rwanda, la violenza etnica in Sud Sudan orchestrata dal governo di Salva Kiir sta raggiungendo cifre vertiginose.

Nel terzo anniversario della guerra civile nel Paese più giovane del mondo, non è più sufficiente l’enorme dispiegamento delle unità di protezione ONU per separare le parti in guerra.

La violenza è scoppiata nel dicembre 2013, quando il presidente Salva Kiir ha accusato il suo vice-presidente, Riek Machar, di essere a capo di un colpo di stato. Il Paese aveva ottenuto l’indipendenza dal Sudan nel 2011 a seguito di uno dei conflitti più lunghi e sanguinosi avvenuti in Africa.

Le tensioni etniche hanno fatto saltare in aria istituzioni deboli e inesistente identità nazionale. Le tribù più popolose del paese, i Dinka e i Nuer, avrebbero dovuto condividere il potere nel nuovo governo. Ma l’estrema povertà e la mancanza di istituzioni ha relegato il Paese nella morsa di una guerra etnica.

Decine di migliaia, i civili che hanno perso la vita nei combattimenti. Secondo i dati OCHA più di un milione di persone ha lasciato il Paese e sono più di un milione e mezzo i rifugiati interni. Il Programma Alimentare Mondiale stima che almeno 3,6 milioni di persone hanno necessità di assistenza alimentare.

Le minacce di violenza hanno avuto solo una debole riduzione quando i leader locali sono intervenuti per fermare le continue espressioni di odio.

L’Ufficio del Consigliere Speciale delle Nazioni Unite sulla Prevenzione del Genocidio, ha sottolineato l’importanza in questo delicato momento di imporre un embargo sulle armi. “Il genocidio” afferma, “E’ un processo che si instaura in un lasso di tempo medio-lungo, e proprio per questo può essere evitato. Ci sono passi che possono essere adottati, prima di arrivare vicini alla catastrofe”.

Solo nello scorso mese di luglio, a seguito di un aumento della violenza nella capitale Juba, altre 4.000 unità sudanesi facenti parte della missione dell’ONU in Sud Sudan (MINUSS) erano state reclutate per la protezione dei civili. Obiettivo mancato, visto che il governo sudanese ha accettato solo il dispiegamento di truppe straniere sul suo territorio.

Il costante processo di pulizia etnica in corso in diverse aree del Sud Sudan tra le 64 diverse tribù che abitano il Paese, annovera fame, stupri di gruppo e incendi di villaggi.

L’economia schiacciata del Paese ha il più alto tasso di inflazione del mondo, arrivato a sfiorare più dell’800% nello scorso mese di ottobre.

I servizi sanitari continuano il lento processo di deterioramento, la crisi idrica nazionale è in crescita, il settore agricolo è in declino e i tassi di malnutrizione sono tra i più alti al mondo. La repressione è l’unico strumento di sopravvivenza per il regime nazionale. Nena News

Nena News Agency “SUD SUDAN. La guerra civile piega il paese” di Federica Iezzi

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CONGO. La grande paura del morbillo

Nena News Agency – 05 agosto 2015

Secondo i dati riportati dall’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari, OCHA, sono almeno 320 i decessi dall’inizio dell’anno. Sottostimati i contagi che parlano di 30.000 malati. E il governo tace 

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di Federica Iezzi

Lubumbashi (Repubblica Democratica del Congo), 5 settembre 2015, Nena News – Esplosa lo scorso marzo, nella provincia del Katanga, l’epidemia di morbillo continua a serpeggiare pericolosamente nel sud-est della Repubblica Democratica del Congo. Un significativo aumento di casi è stato osservato all’inizio del mese di marzo, principalmente nella zona di Malemba-Nkulu. Poi verso il distretto di Haut-Lomami con 400-800 nuovi casi a settimana.

Secondo i dati riportati dall’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari, OCHA, sono almeno 320 i decessi dall’inizio dell’anno. Sottostimati i contagi che parlano di 30.000 malati, su una popolazione di 11 milioni di abitanti. Esclusi dalle statistiche gli abitanti delle vaste regioni di foreste e delle zone rurali, luoghi non facilmente accessibili.

La costante esposizione alla malnutrizione, alla malaria e alla tubercolosi, la mancanza di una capillare campagna di vaccinazione e le indigenti condizioni di vita continuano ad aggravare l’impatto con il morbillo.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità parla, in Congo, già di gravi complicazioni quali cecità, encefalite, diarrea e disidratazione, infezioni dell’orecchio, polmonite. Nella prima settimana di marzo è stato registrato un tasso di mortalità di quasi il 19%. Mentre i tassi di mortalità sono estremamente bassi nei Paesi occidentali, dell’ordine dell’1‰, i decessi possono superare il 20% nei Paesi in via di sviluppo.

Nel Katanga, le epidemie sono ricorrenti nonostante le campagne di vaccinazione. Ultima grave epidemia nel 2011 con 1.085 decessi e 77.000 contagi.

Nello scorso mese di giugno 10 distretti sanitari su 68 nel Katanga hanno affrontato situazioni di notevole diffusione dell’infezione. Oggi i distretti colpiti sono 20. In un anno, sono stati vaccinati quasi 1,5 milioni di bambini e trattati più di 50.000 casi in 31 distretti sanitari nella provincia del Katanga. I numeri oggi continuano a crescere senza alcuna dichiarazione ufficiale circa l’epidemia da parte del governo congolese.

Intanto si continua a lavorare nelle campagne di immunizzazione nelle province del Sud Kivu, Equateur e Maniema.

Risulta ancora difficoltosa la pianificazione di programmi di vaccinazione di routine per carenza di fondi, mancanza di vaccini, gravi deficienze legate alla stabilità di elettricità per la corretta conservazione dei vaccini, limitatezza di risorse umane qualificate, rifiuto della vaccinazione per motivi religiosi o culturali, insicurezza e isolamento di alcune regioni da parte di gruppi armati.

Durante gli ultimi tre mesi, trattati più di 20.000 pazienti con infezione da morbillo in 5 ospedali e in circa 100 presidi sanitari locali. 287.000 bambini di età compresa tra i sei mesi e i 15 anni sono stati vaccinati come misura preventiva.

Spesso le famiglie viaggiano per 20 chilometri a piedi per ottenere cure mediche, per l’assenza di medicine nei presidi sanitari locali e dopo aver provato i rimedi della medicina tradizionale.

I bambini arrivano nei dispensari medici già con complicazioni respiratorie del morbillo, malnutrizione e altre infezioni concomitanti, come la malaria.

Ottenere forniture mediche è arduo. Per diversi mesi, la strada principale che collega il distretto di Kabalo, centro dell’epidemia, con le altre città della provincia del Katanga è paludosa e impraticabile. A questo si aggiunge la penuria di carburante. L’unico mezzo di collegamento e di approvvigionamento è il treno. Così i pochi farmaci disponibili hanno costi smodati, che pochi possono permettersi.

Dal Ministero della Salute congolese, arriva l’impegno di cure mediche gratuite per i pazienti, vaste campagne di vaccinazione per i bambini, rafforzamento della sorveglianza epidemiologica, formazione del personale sanitario locale e sostegno a strutture mediche.

Nel Katanga, l’epidemia ha inghiottito le zone di Kikondja, Mukanga e Lwamba. E circa un terzo delle aree colpite è oggi oggetto di un esteso programma di vaccinazione. Nena News

Nena News Agency “CONGO. La grande paura del morbillo” – di Federica Iezzi

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BURUNDI. Proteste contro il terzo mandato di Nkurunziza

Nena News Agency – 29 aprile 2015

Manifestazioni dell’opposizione in tutto il paese. Le autorità hanno stretto la morsa su radio e televisioni, le scuole sono rimaste chiuse e gruppi di studenti sono scesi in piazza. La candidatura dell’attuale presidente alle elezioni del 26 giugno viola gli accordi di Arusha, che hanno messo fine a oltre un decennio di guerra civile

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di Federica Iezzi

Bujumbura (Burundi) – Terzo giorno di feroci proteste nella capitale del Burundi. Secondo i dati dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA), dopo l’annuncio della candidatura, alle prossime elezioni del 26 giugno, dell’attuale presidente Pierre Nkurunziza, i partiti di opposizione e i leader della società civile hanno organizzato manifestazioni in tutto il Paese.

Nkurunziza vinse le ultime elezioni presidenziali con l’88% di preferenze. Salito al potere nel 2005, dopo aver guidato un gruppo di ribelli durante la guerra civile di 12 anni che ha annientato socialmente ed economicamente il piccolo stato africano, è rimasto poi in carica per due mandati. Oggi il tentativo di cercare un terzo incarico appare incostituzionale e contrario allo spirito dell’accordo di pace e riconciliazione di Arusha del 2000, che ha chiuso un decennio di guerra civile nel Paese.

Gli Accordi di Arusha, hanno accompagnato all’epilogo il sanguinario conflitto, che ha ucciso più di 300.000 persone, tra l’esercito di minoranza tutsi e i gruppi ribelli hutu. Essi limitano la funzione presidenziale a due mandati e prevedono la condivisione del potere tra i gruppi etnici del Paese.

L’ultimo rapporto di Amnesty International segnala violenze pre-elettorali, aggressioni e intimidazioni da parte dei membri dell’Imbonerakure, ala giovanile del CNDD-FDD (Conseil National pour la Défense de la Démocratie-Forces de Défense et de la Démocratie), partito di Nkurunziza.

Per l’impunita condotta di abusi, 20.408 burundesi hanno cercato rifugio in Rwanda nel corso delle ultime due settimane, secondo gli ultimi dati dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR). Almeno 16.000 rifugiati, sono stati spostati dai due centri di accoglienza di Bugesera e Nyanza, nel Rwanda orientale e meridionale, al nuovo campo profughi Mahama, nel distretto orientale di Kirehe. I numeri dell’UNHCR, in rapida crescita, parlano di 4.000 civili burundesi rifugiati nella Repubblica Democratica del Congo e poco più di un centinaio in Tanzania.

L’esercito governativo del Burundi ha arrestato 157 persone durante le ultime proteste. Secondo Human Rights Watch, la polizia, guidata da André Ndayambaje, ha usato gas lacrimogeno, cannoni ad acqua e proiettili veri contro i manifestanti.

Le emittenti locali, come Radio Isanganiro, parlano di almeno sei morti. Le autorità hanno posto restrizioni ai media locali, già bloccate le trasmissioni di tre stazioni radio popolari. Linee telefoniche tagliate. Scuole, università e negozi del centro di Bujumbura sono chiusi. Le proteste si sono concentrate nei quartieri periferici. Cortei di studenti anche nella città di Gitega, sulla linea della campagna dell’opposizione “Stop the Third Term”.

Già qualche settimana fa, erano state arrestate 65 persone che manifestavano contro un terzo mandato dell’attuale Presidente, notizia tenuta celata dalle autorità locali. Nel mese di febbraio licenziato, dopo soli tre mesi di lavoro, il leader dell’intelligence del Burundi, Godefroid Niyombare, apertamente schierato contro il terzo mandato di Nkurunziza. Nena News

Nena News Agency “BURUNDI. Proteste contro il terzo mandato di Nkurunziza” – di Federica Iezzi

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