SUD SUDAN. Human Rights Watch ‘L’ONU non ha protetto i civili dagli attacchi’

Nena News Agency – 18/11/2016

Un rapporto dell’organizzazione denuncia la missione di pace delle Nazioni Unite perché non sarebbero intervenute a Juba durante tre giorni di aggressioni e abusi da parte delle truppe governative

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di Federica Iezzi

Juba (Sud Sudan), 18 novembre 2016, Nena News – Secondo un rapporto di Human Rights Watch, la missione di pace delle Nazioni Unite in Sud Sudan (UNMISS) non è riuscita a proteggere centinaia di civili da violenze, stupri e morte, durante i tre giorni di intensi combattimenti a Juba, avvenuti nello scorso mese di luglio.

Il crollo della fragile tregua tra il presidente sud-sudanese, Salva Kiir, e il leader dell’opposizione Riek Machar, ha comportato episodi di estrema violenza nel più giovane tra i Paesi africani. In quei giorni, durante un attacco da parte delle truppe governative in un campo profughi, vicino la sede UNMISS a Juba, hanno perso la vita 73 persone, di cui 20 sotto la protezione delle Nazioni Unite. Sono stati uccisi anche due componenti delle forze di peacekeeping dell’ONU, decine i feriti.

I civili sono stati sottoposti dai soldati armati del Movimento di Liberazione del Popolo del Sudan a gravi violazioni dei diritti umani, tra cui attacchi indiscriminati, intimidazioni, minacce, torture, violenza sessuale. Per contro, il portavoce dell’esercito governativo Lul Ruai Koang ha definito prematura la conclusione sulla responsabilità diretta del suo esercito, pur non negando l’attacco.

Secondo una dichiarazione di Human Rights Watch le forze di pace non sarebbero intervenute al di fuori delle basi militari per proteggere i civili sotto imminente minaccia. Stesso discorso per l’ambasciata degli Stati Uniti che ha ricevuto richieste di aiuto simili a quelle pervenute alle forze UNMISS durante l’attacco. Non ha risposto alle ripetute richieste di assistenza.

Secondo il report, le forze di pace UNMISS non operavano sotto un comando unificato, con conseguenti conflitti di ordini sui quattro contingenti di truppe impegnati, provenienti da Cina, Etiopia, Nepal e India.

A più di tre mesi dall’ultima crisi, i caschi blu dell’UNMISS continuano a non effettuare operazioni di pattugliamento regolari al di fuori dei campi rifugiati. Anche nello scorso mese di febbraio nella base ONU di Malakal, a nord del Paese, che ospitava 47mila sfollati, soldati governativi sono entrati nel campo uccidendo 30 civili e ferendone più di 120. Sono state inoltre bruciate sistematicamente le aree che ospitavano civili provenienti da gruppi etnici pro-opposizione.

Gli stessi disagi etnici tra i gruppi Shilluk, Dinka e Nuer hanno esacerbato gli attacchi. In quell’occasione, è stata criticata la riluttanza a usare la forza per proteggere i civili, da parte dei caschi blu dell’UNMISS. Questi sono solo gli ultimi episodi. Già nell’aprile 2014, il sito ONU a Bor era stato attaccato, causando la morte di circa 50 civili. Il rapporto della commissione di inchiesta di quell’incidente ad oggi non è ancora definito. E il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite aveva deciso per il rimpatrio immediato dei peacekeeper che non erano riusciti a rispondere in modo efficace alla violenza.

Dopo il conflitto scoppiato nel dicembre del 2013, più di due milioni di persone sono state costrette a fuggire dalle loro case, tra cui i circa 200mila civili rifugiati in sei basi delle Nazioni Unite. Nei tre anni di conflitto, il governo del Sud Sudan ha regolarmente consentito l’impunità per violenze e omicidi.

Sono in corso indagini indipendenti da parte delle Nazioni Unite per il fallimento dei compiti delle sue forze di pace in Sud Sudan. Il Consiglio di Sicurezza ha inoltre autorizzato in una delle ultime risoluzioni, sostenuta dagli Stati Uniti, l’invio a Juba di ulteriori 4mila caschi blu per proteggere i civili. Nena News

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SUD SUDAN. Il campo profughi di Yida: l’anormale via alla normalità

Nena News Agency – 11/08/2016

Nato come insediamento spontaneo nel 2011, ha scuole, asili, un mercato e una clinica. Ma cibo e acqua scarseggiano, mentre le bombe di al-Bashir gli piovono addosso

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di Federica Iezzi

Juba (Sud Sudan), 11 agosto 2016, Nena News – Sono 60.288 nel campo rifugiati di Yida. Siamo nello stato di Unity, nel Sud Sudan settentrionale a 12 chilometri dal confine con il Sudan. Insieme ai campi di Yusuf Batil, Doro e Jamam, Yida è stato per oltre quattro anni la casa dei profughi provenienti dalle regioni di Nuba Mountains e Blue Nile, fuggiti dalle violenze e dagli orrori che si sono verificati nel vicino sud Kordofan sudanese.

L’ingresso a Yida è polveroso. Le dita delle centinaia di bambini stringono i fili di ferro delle reti metalliche che separano il campo dal territorio desertico attorno. Illuminati da una sola lampadina, grandi blocchi di terreno con servizi igienici, sono diventati la casa di centinaia di rifugiati.

L’audacia di indossare infradito in terreni infestati dagli scorpioni. Il dono di dormire con dignità durante i lunghi viaggi sconnessi. La noncuranza per il ronzio delle mosche sulle latrine. Ecco il popolo di Yida. Dove doccia significa acqua fredda da un secchio sopra la testa.

Ci sono asili, una scuola secondaria e quattro scuole elementari a Yida. L’istruzione è gratuita. C’è un mercato e strade interne. La distribuzione di cibo da parte delle agenzie umanitarie avviene ogni mese, ma le razioni bastano appena per 5-6 giorni alle numerose famiglie. E l’acqua arriva solo da cinque pozzi costruiti negli anni. L’assistenza sanitaria è affidata a una clinica di base che fa riferimento per i casi più gravi al Pariang County Hospital, nell’omonima circoscrizione.

I residenti di Yida sono comprensibilmente diffidenti nei confronti della delocalizzazione. A parlare è il passato. Nel 2012, l’UNHCR ha disposto il trasferimento di 30.000 abitanti di Yida nel campo profughi di Nyeli, palude invivibile dopo inondazioni preannunciate. Solo un anno più tardi i civili erano di nuovo senza una casa.

Nato come un insediamento spontaneo, bombardamenti deliberati dal governo di al-Bashir hanno costellato la vita del campo di Yida dal 2011: almeno 2.000 bombe sganciate nel 2015. Comunità internazionale e Nazioni Unite appoggiano la politica del dittatore intoccabile sudanese, accusato dalla Corte Penale Internazionale di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra in Darfur. Le motivazioni? Il campo non ha un ufficiale riconoscimento e al suo interno ci sarebbe la presenza di elementi armati.

Gli scontri in Kordofan hanno assunto dimensioni critiche nello stesso periodo dell’indipendenza del Sud Sudan, dopo l’offensiva condotta dal governo di Khartoum contro i ribelli Nuba, raccolti sotto la sigla del Movimento Popolare di Liberazione Sudanese-Nord (SPLA-N), supportati da fazioni militari del Sudan del Sud. Il governo sudanese ha sempre accusato l’esercito di Salva Kiir di supportare i gruppi ribelli nel territorio sud-sudanese. Da questo le pressioni nella chiusura, che continuano ad arrivare dal presidente sudanese Omar Hasan Ahmad al-Bashir.

Ora l’UNHCR sta lentamente pianificando lo spostamento dei rifugiati di Yida presso altri campi, tra cui Ajuong Thok e Pamir, a poco più di 10 chilometri dal confine tra Sudan e Sud Sudan. E attualmente 42.374 civili sono stati distribuiti a Ajuong Thok e Pamir. Sta anche potenziando i programmi educativi a Ajuong Thok. Ma già molte persone si lamentano delle strutture scolastiche: le aule sono così piene che gli studenti non sono in grado nemmeno di vedere l’insegnante.

Sono stati assegnati terreni agricoli agli abitanti di Ajuong Thok ma l’insicurezza e le tensioni con le comunità locali, non permettono nè una buona semina né un adeguato raccolto. La vicinanza di Ajuong Thok e Pamir a Liri, zona a nord di entrambi i siti, che ospita militari del Sudanese Armed Forces (SAF), tribù arabe nomadi e ribelli dell’SPLA, non rende la zona accessibile ai civili in fuga. Nena News

Nena News Agency “SUD SUDAN. Il campo profughi di Yida: l’anormale via alla normalità” di Federica Iezzi

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Emergenza Sud Sudan

Il Manifesto – 04 agosto 2016

REPORTAGE – Guerra civile. A cinque anni esatti dall’indipendenza, il Paese è travolto dalla violenza. Lo scontro tra dinka e nuer continua a mietere vittime e crea milioni di sfollati. Solo nell’ultimo mese in 60mila sono scappati oltre confine

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di Federica Iezzi

Juba (Sud Sudan) – Ancora violenza in Sud Sudan. Violenza inaudita esplosa negli stessi giorni in cui il Paese si apprestava a festeggiare il quinto anniversario dell’indipendenza.

Alier solo due anni continua a gridare senza sosta durante la medicazione al braccio ferito da un proiettile. Siamo nella clinica all’aperto, allestita ai piedi della cattedrale di Santa Teresa, al centro della capitale Juba.

Con carenza di personale, mancanza di risorse, tra cui elettricità e acqua corrente, gli ospedali sud sudanesi sono al limite della sopravvivenza.

La guerra civile che imperversa nel Paese è legata ai disordini etnici tra la maggioranza Dinka e il popolo Nuer, iniziati nel dicembre del 2013. Da allora ha ucciso decine di migliaia di persone, ha creato tre milioni di sfollati e quattro milioni di denutriti.

Una fragile tregua si è affacciata nella vita del Sud Sudan con un falso accordo di pace firmato lo scorso agosto. Mai guarita la rivalità tra il clan del presidente Salva Kiir e quello del suo vice Rieck Machar, appoggiato da Khartoum.

Una raffica di proiettili ha lasciato nel Paese in queste ultime settimane più di 270 cadaveri ma, secondo le prime stime delle Nazioni Unite, le perdite potrebbero essere maggiori. Quasi 52mila nuovi rifugiati hanno raggiunto nell’ultimo mese la confinante Uganda, che ha già ridotto le pratiche di autorizzazione di asilo.

Il dramma degli sfollati

Fori di proiettili, vetri fracassati, calcestruzzo macchiato di sangue. Più di 36.000 profughi riversati nelle strade di Juba e almeno 7.000 accolti nella base Tomping delle Nazioni Unite. I camion d’acqua non sono in grado di fornire i carichi giornalieri necessari. Saccheggiati i magazzini del Programma Alimentare Mondiale. È così che si sveglia ogni giorno Juba.

A Malakal, nel sud, la situazione non è differente dal resto del Paese. Nyandeng, solo 17 anni e già mamma di due figli, ci racconta che tutte le strade sono perpetuamente pattugliate dai soldati governativi del Sudan People’s Liberation Army (SPLA), partito politico separatista, fondato in Sudan negli anni ’80, come gruppo armato per l’indipendenza del Sudan del Sud.

Almeno 17.000 rifugiati vivono in circa 45 acri di terra cotta dal sole. Un muro di cinta di filo spinato avvolge gli alloggi ricavati da lenzuola e coperte. Si dividono gli spazi con i serbatoi d’acqua e le latrine. Il tutto pattugliato dalle forze di pace UNMISS (Missione delle Nazioni Unite nella Repubblica del Sud Sudan).

Ad abitare il campo sono principalmente civili della tribù Nuer, stessa etnia di Riek Machar. Al di fuori della recinzione i Dinka di Salva Kiir.

I soldati di Kiir

«Il governo ha sempre negato che i Nuer sono stati presi di mira per attacchi di vendetta», ci dice Mabior, un uomo di forse 40 anni che ne dimostra almeno 60 «Ma nelle strade i poliziotti ti chiedono in lingua dinka, se sei un dinka».

E chi non è dinka? Picchiati con il calcio dei fucili, bendati e costretti a salire su grossi camion in direzione della più vicina stazione di polizia.

«I soldati di Kiir entrano di notte nelle case dei Nuer», continua Mabior. «Ci hanno rubato tutto. Le case, i vestiti, le storie, le vite. Io vivevo nel quartiere di Gudele, a Juba. Poco più di due settimane fa un commando di soldati ha buttato giù la porta della nostra casa mentre dormivamo. L’aria era riempita da colpi di pistola e urla e le torce luminose trafiggevano il buio pesto della notte. Alcune capanne erano state già date alle fiamme e il fumo nero riempiva i polmoni. Da allora le nostre vite sono diventate un inferno». Mabior, con moglie e cinque figli, è stato buttato nel campo rifugiati di Ajuong Thok, non molto lontano dalla città di Bentiu, nella parte settentrionale del Sud Sudan. «Le forniture di cibo e acqua delle Nazioni Unite non sempre raggiungono tutti», ci spiega mentre il sole tramonta e l’ultima luce del giorno svanisce.

Oggi la famiglia di Mabior vive in una capanna di forma quadrata. I figli aiutano nelle faccende quotidiane e si prendono cura degli anziani del campo, come fanno centinaia di altri bambini. La moglie cucina le razioni di cibo distribuite dal Programma Alimentare Mondiale: frittelle di farina, riso, fagioli. Ci dice: «Dipendiamo da altre persone per tutto e non si sa mai cosa sta per accadere».

La polvere è ovunque. I canti riempiono l’aria e commuove la condivisione della musica, a dispetto delle cose orribili che tutti sono stati costretti ad attraversare. Sulle strade sterrate rosse del mercato in Ajuong Thok, non mancano racconti attorno ad un infuso con zenzero, cardamomo e cannella.

Tra i banchi di scuola

L’unica scuola si trova nel vicino campo profughi di Yida. La mattina presto, più di 2.000 studenti si riversano nella scuola elementare Yousif Kuwa. Tra questi c’è Anna, la figlia di Mabior «Voglio diventare un dottore da grande ma se non studio come faccio?», ci fa vedere i suoi disegni del corpo umano ricopiati da vecchi libri. «Ci sono tante malattie e non si può perdere tempo, bisogna studiarle tutte e capire se ne arriveranno altre». Ha appena 10 anni.

La scuola ha preso il nome da un famoso comandante del movimento ribelle Spla, che ora controlla ampie fasce dei monti Nuba e combatte le forze del governo di Khartoum. Per questo, secondo il presidente sudanese al-Bashir, rappresenterebbe una sicura base dei ribelli e per questo lo stesso presidente spinge la Comunità Internazionale allo smantellamento, alla chiusura e all’abbandono dei suoi 70.000 residenti.

Gli insegnanti a Yousif Kuwa sono volontari. Gli studenti ogni mattina portano lattine vuote di olio di mais che utilizzano come sedie, tra teli e bastoni. Anna ci racconta che è difficile seguire le lezioni, i maestri sono troppo pochi. E spesso sono semplicemente ragazzi che hanno iniziato e poi abbandonato l’università.

Migliaia di persone continuano a spostarsi e a fuggire dalle battaglie tribali di una Nazione che non trova pace. Nonostante un cessate il fuoco temporaneo che sembra tenere, molti sono ancora troppo spaventati per tornare a casa.

Achan, madre di tre ragazzini, ha lasciato la sua casa dopo vetri distrutti da colpi di arma da fuoco e spari nel cortile. Teme di rientrare nella casa dove è nata e vissuta «Adesso sanno che lì vivono Nuer. Sanno i nostri nomi». Achan mentre fa mangiare il più piccolo dei suoi figli, Gatbel, ci racconta di spari e urla, dell’obbligo di abbandonare le proprie case, di soldati con divise e scarponi che ti spingevano fuori dai quartieri residenziali. Achan e la sua famiglia sono tra i più di 2,4 milioni di sud sudanesi senza casa a causa di guerra, fame o povertà.

«Ormai crescere in campi come questo è diventato un modo di vita in Sud Sudan», dice Achan. Gatbel segue un programma gestito dalla Croce Rossa Internazionale per la malnutrizione, nell’unico ospedale da campo dell’area. Il pavimento è sporco, pochi farmaci, pochi strumenti, poco personale. Anemie e polmoniti sono le conseguenze più disastrose della malnutrizione.

Manca il cibo

Dall’inizio dell’anno, più di 100.000 bambini sono stati trattati per malnutrizione grave, soprattutto nelle regioni di Equatoria Orientale e Bahr el-Ghazal occidentale, dato in aumento del 150% rispetto al 2014. Secondo Fao, Unicef e Programma Alimentare Mondiale, almeno 4,8 milioni di persone in Sud Sudan, oltre un terzo della popolazione, si troverà ad affrontare gravi carenze alimentari nei prossimi mesi: «Mancano le infrastrutture. Istruzione, sanità e servizi sociali sono scadenti». Gli effetti della guerra sulle zone di scontri sono chiari: villaggi svuotati, campi abbandonati, scuole e cliniche bombardate.

Achan torna a raccontare e si sofferma su come vivevano prima degli ultimi scontri: «Avevamo un pezzetto di terra, così abbiamo provato a seminare mais, sorgo e arachidi. È arrivata la pioggia e i raccolti sono stati buoni. Abbiamo mangiato nonostante non ci fosse lavoro». Ci confessa che non sarebbe mai scappata dalla sua casa per la fame, avrebbe trovato un modo per andare avanti. Ma per la guerra sì, è scappata. Più di 125.000 civili come lei, hanno lasciato il Sud Sudan nei primi quattro mesi del 2016 per Sudan, Kenya, Repubblica Democratica del Congo e Uganda.

Il padre di Achan, ci racconta lei «era in cura nel Juba Teaching Hospital per un problema renale cronico». Era diventato troppo pericoloso per lui fare ogni mese un viaggio di cinque giorni dal suo villaggio, così è stato obbligato a interrompere le terapie. «Il Sud Sudan sta diventando una crisi dimenticata».

Il Manifesto 04/08/2016 “Emergenza Sud Sudan” di Federica Iezzi

Nena News Agency “AFRICA. Emergenza Sud Sudan” di Federica Iezzi

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BURUNDI. Forza militare ONU per fermare le violenze

Nena News Agency – 04/04/2016

Gli scontri, iniziati lo scorso aprile, vedono contrapposti da un lato i sostenitori del presidente Nkurunziza e, dall’altro, coloro che ritengono il suo terzo mandato presidenziale una violazione della carta costituzionale e degli accordi di Arusha. La guerra civile ed etnica terminata nel 2005 ha causato circa 300.000 morti

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di Federica Iezzi

Roma, 4 aprile 2016, Nena News – Accolto dalle autorità del Burundi il consenso al dispiegamento di una forza militare delle Nazioni Unite nel Paese per fermare le violenze che rischiano di sfociare nell’ennesimo conflitto etnico. Via libera anche all’aumento del numero di osservatori dei diritti umani ed esperti militari dell’Unione Africana, in territorio burundese. Il Burundi è stato coinvolto in una spirale di violenze politiche da quando, lo scorso aprile, il presidente Pierre Nkurunziza, sfruttando una controversa interpretazione della Costituzione, ha vinto il suo terzo mandato con il 69% dei voti.

La crisi sanguinosa che ha ucciso fino a 900 persone contrappone i sostenitori del presidente Nkurunziza contro chi ritiene, la sua rielezione per il terzo mandato, una violazione al limite dei due soli mandati previsti dalla Costituzione e dagli accordi di Arusha, che nel 2005 avevano posto fine alla guerra civile ed etnica che aveva lasciato come eredità al Paese 300.000 morti. Dopo un fallito colpo di stato e due visite ufficiali da parte dell’ONU, il governo ha intensificato la repressione. Il risultato sono i più di 250.000 civili fuggiti nei Paesi limitrofi, Rwanda, Tanzania, Uganda e Congo, e le altre 15.000 persone sfollate all’interno del Paese.

L’ultima visita degli esponenti dell’ONU risale allo scorso gennaio. In quell’occasione, era stato verificato che 439 persone erano state uccise solo negli ultimi mesi, che le persone venivano selettivamente uccise – tutsi in questo caso – e che coloro che hanno ucciso cercavano essenzialmente di distruggere la leadership dell’altro gruppo. Il quadro è quello di una riprese delle feroci divisioni tra hutu, tutsi e twas. La risoluzione, figlia di un’analisi francese e disposta dai 15 Stati membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, si prefigge di lavorare con il governo del Burundi al disarmo, all’assistenza civile nello sviluppo, al monitoraggio e alla sicurezza sul confine con il Rwanda, all’avanzamento di uno Stato di diritto. Il Consiglio ha sottolineato la fondamentale importanza del dialogo tra maggioranza e opposizione, al fine di trovare una soluzione pacifica consensuale all’interno del Paese.

Nel testo della risoluzione si evince una diminuzione del numero di omicidi affiancata da un preoccupante aumento di violazioni dei diritti umani, arresti arbitrari, detenzioni, condanne senza processo, esecuzioni extragiudiziali, sparizioni e sevizie. Dunque nonostante alcuni progressi, compreso il rilascio di alcuni detenuti, la riapertura di una stazione radio indipendente e la cooperazione del governo con esperti di diritti indipendenti, le gravi violazioni non accennano a fermarsi.

L’opposizione chiede il dispiegamento delle forze militari per disarmare i violenti gruppi armati conservatori, tra cui le milizie alleate al partito di governo CNDD-FDD (Consiglio Nazionale per la Difesa della Democrazia-Forze per la Difesa della Democrazia), note come ‘Imbonerakure’. Ad oggi gli Imbonerakure hanno circa 50.000 membri in tutto il Paese e ricevono addestramento militare nella Repubblica Democratica del Congo. In molte zone rurali, le milizie agiscono in collusione con le autorità locali e con totale impunità. I timori di una guerra etnica hanno portato anche ad una crisi economica. L’economia del Burundi, che si basa molto sugli aiuti internazionali e sulle esportazioni di tè e caffè, si è ridotta di un ulteriore 7,2% rispetto allo scorso anno. Sospeso anche il sostegno finanziario diretto al governo del Burundi da parte dell’Unione Europea.

Il Burundi ha avuto una storia in cui la giustizia è stata negata e la vita ha continuato a scorrere in un modello di impunità. Negli ultimi 50 anni nessuno è stato punito per i crimini contro l’umanità e per i genocidi commessi dal 1993 al 2005. Nena News

Nena News Agency “BURUNDI. Forza militare ONU per fermare le violenze” di Federica Iezzi

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La fuga dei siriani da Aleppo

Nena News Agency – 08 febbraio 2016

In fuga dai combattimenti sanguinosi in corso in città, negli ultimi tre giorni oltre 50.000 civili hanno raggiunto a piedi la città di Kilis al confine con la Turchia. Sempre più vicino, intanto, un accordo per l’apertura di un corridoio umanitario da Azaz (nord-ovest di Aleppo) alla città curda di Afrin

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di Federica Iezzi

Kilis (Turchia), 8 febbraio 2016, Nena News – Migliaia di siriani provenienti dai distretti di Azaz, Tel Rifaat e Hariyatan (nord di Aleppo) lasciano ancora una volta alle spalle le loro terre. Negli ultimi tre giorni oltre 50.000 civili siriani hanno raggiunto a piedi la città di Kilis al confine con la Turchia. E altri 70.000 civili sono attesi nella zona di confine di Oncupinar. Fuggono dalla distruzione, dai massacri, dai combattimenti sanguinosi delle aree di Aleppo controllate dai combattenti dell’opposizione siriana. Dopo più di 300.000 morti, oltre quattro milioni di rifugiati e più di un terzo di siriani sfollati interni, un nuovo tragico capitolo della guerra in Siria sta iniziando sotto gli occhi occidentali attenti, ma impotenti.

Il governo Davutoğlu ha deciso di chiudere tutti i valichi di frontiera ufficiali con la Siria. Quando il numero di profughi siriani residenti in Turchia ha raggiunto il milione e mezzo, Ankara ha deciso di ridurre al minimo l’ingresso dei rifugiati ammessi nel Paese. Fino all’inizio dello scorso marzo, infatti, solo i rifugiati siriani con documenti validi hanno potuto attraversare legalmente il confine turco a Reyhanli e a Oncupinar. L’obiettivo finale della Turchia sembra essere quello di creare una zona di sicurezza nel nord della Siria dove far stazionare i rifugiati.

Joram, un ragazzo di Azaz in fila al valico di Kilis, ci racconta che prima era più facile attraversare illegalmente la frontiera turca. Adesso, però, i chilometri che segnano il confine tra Siria e Turchia sono strettamente pattugliati dalla Jandarma turca. Corrompere la polizia militare di confine per passare la frontiera per vie illegali ora può arrivare a costare oltre 400 dollari. Più di 1.000 persone aspettano le ore notturne nei pressi del villaggio di Shemarin e nell’area di Hawar Kilis con la speranza di poter scavalcare il recinto di filo spinato che separa i due Paesi.

Vanno avanti e prendono concretezza, intanto, gli accordi per l’apertura di un corridoio umanitario per le famiglie di rifugiati siriani dal villaggio di Azaz (a nord-ovest di Aleppo) alla città curda di Afrin. Una parte di rifugiati, invece, troverà riparo nella martoriata città di Idlib sotto la protezione dell’Unità di Protezione Popolare curda.

Continuano senza sosta gli scontri tra esercito governativo e fazioni dell’opposizione nelle zone di Khan Tuman (a sud di Aleppo), a Sheikh Ahmed (a est della città) e a Ratyan, Huraytan, Bashkoy, Azaz e Menagh a nord. Scontri anche nella campagna curda di Afrin tra combattenti dell’Unità di Protezione Popolare e l’esercito di al-Assad. Le incursioni aeree russe non si fermano nelle città di Bayanoun, Hayan e Menneg a nord di Aleppo.

“La distruzione di Aleppo è straziante” ci dice Qamar, una donna sulla quarantina con i nipoti infreddoliti al seguito. “Pietre, legno e vetro – dove una volta si posavano fortezze, musei, scuole strade eleganti e case, chiese e moschee – ora odorano di polvere da sparo e assomigliano sempre di più a gocce di memorie lontane”. Continua lo spopolamento a chiazza d’olio di una città che è stata abitata per millenni. Altre 40.000 persone si uniscono così all’esodo da Aleppo. E 350.000 civili rimangono intrappolati al buio delle case demolite dai razzi russi o dai mortai di al-Nusra [ramo siriano di al-Qa’eda, ndr].

Campi di fortuna vengono allestiti velocemente in terra siriana al confine turco-siriano nei pressi di Kilis. Solo qualche palo di acciaio sostiene i teli di plastica necessari per ripararsi dall’umidità e dalla pioggia. Mancano acqua, corrente elettrica, cibo, vestiti e coperte per le rigide temperature notturne.

Secondo il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, 5.000 siriani sarebbero entrati in Turchia attraverso Kilis. Altri 50.000 sono invece bloccati al confine. Anche sul lato siriano dei valichi di Bab al-Hawa e Bab al-Salam tende di plastica strappate e sporche colorano l’aria grigia. La Croce Rossa Internazionale e le Nazioni Unite hanno iniziato a distribuire cibo e coperte, ma gli aiuti umanitari non sono ancora sufficienti per coprire i dieci campi profughi ammassati sul lato siriano del confine in cui vivono attualmente più di 70.000 persone.

Nena News Agency “La fuga dei siriani di Aleppo” – di Federica Iezzi

 

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SIRIA. Sotto assedio anche i villaggi sciiti di Fu’ah e Kefraya. 12.500 civili intrappolati

Nena News Agency – 21 gennaio 2016

A nord della città di Idlib, da anni sono circondanti dai qaedisti di al-Nusra e da vari gruppi anti Assad. Di queste migliaia di civili in condizioni terribili si parla pochissimo

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di Federica Iezzi

Al-Fu’ah (Siria), 21 gennaio 2016, Nena News Mentre meno di una settimana fa ai primi convogli umanitari è stato consentito di entrare nella città siriana di Madaya, al confine nordovest con il Libano, i soccorsi nei villaggi di al-Fu’ah e Kefraya, nel governatorato di Idlib, sono stati rinviati per i mancati accordi di sicurezza con i ribelli sunniti. Questo secondo i dati riportati da Nazioni Unite, Mezza Luna Rossa siriana e Comitato Internazionale della Croce Rossa.

Al-Fu’ah e Kefraya sono villaggi a maggioranza sciita, della predominante area sunnita, a nord della città di Idlib, sotto assedio dai combattenti di al-Nusra e affiliati.

Inizialmente solo circondati dalle forze di al-Nusra, Jaysh al-Fattah, Ahrar al-Sham e Jabhat al-Islamiyah, i residenti avevano ancora una strada di accesso per le forniture alimentari e mediche.

Con la successiva loro occupazione, alla fine dello scorso marzo, l’Esercito arabo siriano ha ritirato le proprie truppe e i villaggi si sono trasformati in prigioni totalmente isolate. Bombe, posti di blocco e cecchini delimitano ormai da mesi i confini dei due villaggi. 12.500 i civili intrappolati.

Colpi di mortaio arrivano ogni giorno dal vicino villaggio di Binnish, a pochi chilometri a sud di al-Fu’ah, da Maarrat Misrin, a circa due chilometri a nord. Razzi arrivano dal centro di Idlib, a circa otto chilometri di distanza. In difesa dei due villaggi senza acqua, elettricità, comunicazioni, forniture mediche e cibo: milizie popolari locali.

I rigorosi checkpoint del gruppo armato di ribelli di Jaysh al-Fattah, sostenuti da Arabia Saudita e Turchia, non permettono l’ingresso né di cibo né di aiuti medici. Il pane è arrivato a costare fino a 13 dollari. 27 dollari per un litro di olio, 17 dollari per un chilo di fagioli. La mancanza di combustibile e lievito ha potenziato il mercato nero. E i prezzi del pane sono aumentati di otto volte rispetto a quelli nella capitale Damasco. Centinai i casi di malnutrizione. Decine i morti. Si mangiano erba e insetti per la sopravvivenza.

“Gli uomini di Ahrar al-Sham ci hanno impedito di accedere alle aree sotto il controllo del regime, tranne casi particolari dietro pagamenti di enormi somme di denaro. Più di 100.000 lire siriane per soldati e ufficiali (nda l’equivalente di 450 dollari)”, ci racconta Majd, giovane odontoiatra di al-Fu’ah, ora improvvisato fotografo per alcune testate arabe.

Dallo scorso marzo, l’elettricità non entra nelle case se non grazie a generatori che forniscono i villaggi solo per poche ore al giorno.

Anche l’acqua potabile è un lusso. “I filtri per pulire l’acqua funzionano solo per otto ore, ogni quattro giorni” ci spiega Majd. “La fornitura di acqua è solo per tre ore a settimana”.

Dopo due cessate il fuoco e ogni accordo fallito a al-Fu’ah e Kefraya, nessuno dei centri sanitari è funzionante, decine le segnalazioni di casi di leishmaniosi e tifo.

Risale allo scorso settembre l’ultimo accordo violato, che prevedeva il trasferimento di 300 famiglie da al-Fu’ah e Kefraya in aree sotto il controllo del regime, in cambio del ritiro di circa 400 combattenti di Jabhat al-Nusra, di circa 350 militanti feriti nella città di al-Zabadani e la liberazione dalle prigioni siriane di 500 detenuti del fronte anti-governo.

Secondo i dati dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari, circa 450.000 persone in Siria vivono in almeno 52 zone sotto assedio. La metà nelle zone controllate dallo Stato Islamico. 180.000 civili risiedono in città controllate dal governo e circa 20.000 nelle aree controllare dai gruppi armati di opposizione. Almeno 560 persone sono morte nelle zone assediate.

“Senza divisa e senza gradi, con addosso armi e munizioni, si professano combattenti di poveri ideali. Ma non si accorgono che decidono della vita di donne e bambini, di intere famiglie. Di un Paese la cui base era la millenaria convivenza tra culture e religioni”. E’ così che Majd vede chiunque combatta nella sua Siria. Nena News

Nena News Agency 21/01/2016 “SIRIA. Sotto assedio anche i villaggi sciiti di Fu’ah e Kefraya. 12.500 civili intrappolati” di Federica Iezzi

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BURUNDI. I primi passi verso la guerra civile

Nena News Agency – 16 dicembre 2015

La capitale è stata teatro venerdì di scontri violentissimi tra milizie del Fronte Nazionale di Liberazione e le forze del governo Nkurunziza: 90 morti. Si moltiplicano le violenze e la fuga dei civili all’estero

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di Federica Iezzi

Bujumbura (Burundi), 16 dicembre 2015, Nena News – Dalle sanguinose repressioni, dalla resistenza armata e dal fallito colpo di Stato dello scorso maggio contro il presidente in carica Pierre Nkurunziza, venerdì si è consumata, nelle strade della capitale burundiana Bujumbura, la peggiore esplosione di violenza.

Circa 90 persone sono state uccise durante gli scontri con l’esercito. Rastrellamenti forzati, esplosioni, spari e corpi crivellati di pallottole i risultati degli scontri. Secondo il colonello Gaspard Baratuza, portavoce della Forza di Difesa Nazionale del Burundi, uomini armati hanno attaccato siti militari a Bujumbura, la scuola militare Iscam e la prigione di Mpimba, la notte dello scorso venerdì. 79 aggressori sono stati uccisi e altri 45 catturati. 97 gli armamenti sequestrati. Quattro agenti di polizia e quattro soldati sono morti. 21 i feriti. Assalto fallito invece nel campo militare Ngagara.

Le milizie del Fronte Nazionale di Liberazione si sarebbero rifugiate nei quartieri Nyakabiga e Jabe di Bujumbura. Le forze di sicurezza hanno ininterrottamente perquisito le case nei quartieri di Bujumbura e hanno arrestato centinaia di giovani. Obiettivo dell’assalto del Fronte Nazionale di Liberazione era quello di neutralizzare le principali caserme e posti strategici tenuti dalle forze lealiste di Pierre Nkurunziza, le milizie Imbonerakure e i terroristi rwandesi delle Forze Democratiche di Liberazione del Rwanda.

I disordini in Burundi, sono iniziati nel mese di aprile quando Pierre Nkurunziza, modificando la Costituzione, annunciò i suoi piani per un terzo mandato, iniziato lo scorso luglio. L’attacco di venerdì è stato preceduto, qualche giorno prima, da una battaglia sulle colline di Gizaga a Burambi, nella provincia di Rumonge, a circa 80 chilometri dalla capitale.

Le potenze occidentali e gli stati membri dell’Unione Africana temono la violenza prolungata come occasione per riaprire vecchie spaccature etniche tra i 10 milioni di abitanti della piccola Nazione. Solo nel 2005 sono state snocciolate le ragioni di una guerra civile durata 12 anni, tra gruppi ribelli della maggioranza hutu, guidati dallo stesso da Nkurunziza, e esercito guidato dalla minoranza tutsi.

La scorsa settimana, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite è intervenuto chiedendo al Governo di ripristinare con urgenza pace e sicurezza e respingere la violenza. L’Alto Commissario dell’ONU per i Diritti Umani ha registrato nel solo mese di novembre 56 episodi di uccisioni extragiudiziali e 452 casi di arresti arbitrari e detenzioni.

Centinaia di persone sono state uccise, politici dell’opposizione hanno lasciato il Paese e più di 220.000 civili sono fuggiti nel vicino Rwanda, Tanzania, Uganda e Congo, a causa della violenza dei recenti scontri in Burundi. Il governo di Nkurunziza avrebbe formalmente accusato il Rwanda di agevolare il reclutamento forzato di rifugiati burundesi nei campi profughi in Rwanda e Repubblica Democratica del Congo. Nena News

Nena News Agency “BURUNDI. I primi passi verso la guerra civile” – di Federica Iezzi

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Vita a Raqqa ai tempi dello Stato Islamico

Nena News Agency – 26 novembre 2015

Reportage dalla ‘capitale’ siriana del Califfato di al-Baghdadi, assediata dai jihadisti e bombardata dagli occidentali 

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di Federica Iezzi

Raqqa (Siria), 26 novembre 2015, Nena News – Mentre rimangono accese le luci rosse di allarme in Europa, Francia e Russia continuano a bombardare l’area di Raqqa, la capitale siriana del Califfato nero. Colpiti i villaggi di al-Zibari, Mo Hasan, al-Bo Omar, al-Mrei’iyyah e al-Bokmal. Forze armate dello Stato Islamico circondano completamente il perimetro della città di Raqqa. I civili che vivono ai margini della città lo fanno in campi spontanei. Al freddo. Senza acqua potabile. Senza latrine. Non ci sono tende delle Nazioni Unite. Non c’è la Croce Rossa Internazionale. Ci sono bambini scalzi mentre fuori la temperatura scende a quattro gradi. Ci sono donne incinte malnutrite. Ci sono uomini con gli occhi incavati senza lavoro.

I militanti hanno il pieno controllo di tutte le strade di accesso ai quartieri. Limitati ingresso e uscita nelle aree assediate. Anche l’assistenza umanitaria risulta limitata o, peggio, del tutto bloccata. Fermato ogni veicolo che trasporta verdure, grano e forniture di cibo. Una sciarpa rossa incornicia il viso smagrito di Ghaith. “Spesso siamo costretti a mangiare le foglie degli alberi e le piante selvatiche” ci racconta.

Oltre all’accesso limitato, l’assedio è combinato a raid aerei e scontri a terra continui e violenti. I prezzi dei prodotti alimentari continuano a salire drammaticamente. Per un chilo di zucchero si paga quasi cinque euro. 51 euro per un chilo di tè. 380 euro per una bombola del gas. Il pane viene preparato in un solo panificio in città.

Abdel vive sotto un telone di plastica riparato da stracci e sopra un tappeto rosso e grigio, l’unico pezzo rimasto della sua vecchia casa nel quartiere di al-Shohadaa, a Raqqa. Ci dice: “non ci hanno permesso nemmeno di andare nelle zone controllate dal governo per ritirare i nostri stipendi. Le decine tra ministeri e governatorati, controllati da Daesh (noto anche come IS, Stato Islamico), non riconoscono il nostro lavoro”. Secondo una stima dell’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari, almeno 640.000 siriani vivono in zone sotto assedio mentre infuria la guerra nel Paese.

Dallo scorso febbraio sono state riconosciute ufficialmente 11 aree assediate in Siria. Alle centinaia di migliaia di siriani che vivono in queste zone sono negate le necessità primarie: cibo, acqua e medicine. Centinaia sono le morti da cause prevenibili, come la fame, la disidratazione e la mancanza di cure mediche. Miran e Saben hanno un negozio di alimentari alla periferia di Raqqa. “Paghiamo un’imposta a Daesh di 44.000 libbre siriane al mese per il nostro negozio. A queste si sommano i costi dell’elettricità e dell’acqua. Ogni giorno per almeno 22 ore non c’è elettricità. E per queste due ore scarse paghiamo 3.000 libbre siriane al mese”. I guadagni sono nulli. I negozi restano chiusi durante il periodo di preghiera per cinque volte al giorno.

Distrutti dai raid aerei della Coalizione Internazionale e da bombe francesi e russe dirette sullo Stato Islamico, anche centrali elettriche e impianti di filtrazione per l’acqua. Adesso l’acqua viene estratta manualmente da falde acquifere contaminate da scarichi fognari e conservata malamente in contenitori di plastica. Non ci sono quasi più medici a Raqqa. Lo Stato Islamico ha perseguitato, torturato e ucciso chiunque curasse combattenti di altri gruppi ribelli. 670.000 bambini sono senza scuola o, peggio, solo con la scuola coranica. Niente più scienza, storia e arte, solo studi islamici distorti dal primitivo significato.

Pantaloni larghi che cadono sopra le caviglie senza lasciare nessun tratto di pelle scoperta. Burhan ci dice: “siamo costretti ad andare in moschea per la preghiera ‘in congregazione’. Sermoni con l’obiettivo del reclutamento. Non abbiamo neanche più la libertà di pregare da soli”. Nena News

Nena News Agency “Vita a Raqqa ai tempi dello Stato Islamico” di Federica Iezzi

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REPORTAGE – Tra i ragazzi in fuga dal regime di Afewerki che noi sosteniamo

Il Manifesto – 11 novembre 2015

ERITREA. Periferie dei villaggi di Shieb e Ghinda. Qui si nasconde chi fugge. Dopo aver ottenuto da funzionari corrotti documenti falsi, pagando 5mila dollari

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di Federica Iezzi

Asmara (Eritrea) – Chi sono i rifugiati eritrei che attraversano il Mediterraneo? I ragazzi che arrivano al diciottesimo compleanno con in mano l’amara comunicazione del servizio militare obbligatorio. Sulla carta 18 mesi, che spesso però si protraggono per anni, in cui i giovani di Eritrea subiscono percosse, maltrattamenti, indottrinamenti nel campo di addestramento di Sawa, al confine con il Sudan. Il tutto per 59 miseri dollari al mese.
Aklilu, 18 anni e in partenza per Sawa, ci confessa «Mi hanno preso in uno dei costanti rastrellamenti a Maakel Katema, un quartiere nel cuore di Asmara. Non avevo nè la tessera del Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia, né quella per il servizio militare. Adesso mi mandano a Sawa, dicono per 18 mesi, ma c’è gente che da lì non torna da anni». La polizia eritrea pattuglia ogni strada del Paese alla ricerca di coloro che cercano di eludere il servizio militare obbligatorio. Trovarli significa cattura, reclusione e identificazione come dissidente.
Di fronte alla disumanità sistematica del regime di Isaias Afewerki, la comunità internazionale continua a elargire pacchetti di aiuti all’Eritrea, credendo che il mero sostegno finanziario possa contribuire ad arginare il flusso di rifugiati e richiedenti asilo. Dunque si avalla in silenzio la contorta visione di Afewerki secondo la quale gli eritrei stanno migrando per ragioni prevalentemente economiche e non politiche. Secondo le stime delle Nazioni Unite fino a 5.000 eritrei al mese fuggono dal loro Paese. Un sofisticato e accurato mercato nero si è evoluto per agevolare la migrazione di massa.
Ci dice Hagos, padre e marito insospettabile e contrabbandiere di professione «Il trucco è sapere che non ci si può fidare: le spie sono ovunque. Sedute in un bar che ti osservano mentre prendi un caffè, alla fermata dell’autobus, al mercato mentre compri il pane». Il governo eritreo sorveglia i confini, controlla i movimenti dei suoi abitanti in ogni quartiere e mantiene sotto controllo la popolazione con una rete integrata di spie.
Il viaggio di un eritreo inizia nelle periferie dei villaggi di Shieb e Ghinda. Le porte sul retro dei negozi e le baracche di metallo si aprono. Qui si nasconde chi fugge. Dopo aver ottenuto da funzionari governativi corrotti, documenti di identificazione falsi, pagando fino a 75.000 nafka (più o meno 5.000 dollari), alcuni iniziano la marcia verso i confini con l’Etiopia o con il Sudan. Rispettivamente verso le città di Omhajer e Teseney. 200.000 rifugiati eritrei sono fermi nei principali quattro campi profughi della regione del Tigray, e nei due della regione di Afar, nel nord-est dell’Etiopia. Altri 100.000 hanno trovato una casa nei campi profughi di Gadaref e Kassala, regioni orientali aride sudanesi. Controcorrente il campo delle Nazioni Unite di Shagarab, nel Sudan dell’est, in cui vivono almeno 30.000 persone. Diventato negli anni una calamita per i trafficanti: più di 500 rapimenti, centinaia le persone scomparse. Costante paura per i rimpatri forzati in Eritrea.
Quelli che proseguono devono sopportare il disumano passaggio attraverso il Sahara. C’è un solo viaggio alla settimana. Direzione Libia. Hagos ci dice «So come controllare i banditi che infuriano nel deserto, so come corrompere la polizia e i militari. E so il deserto».
I contrabbandieri stipano 30 persone nella parte posteriore dei loro pick-up. O usano sovraffollati camion senza targa, dai vetri oscurati. Poco spazio per acqua, provviste e carburante. Viaggiano per 12 giorni. 2.000 dollari per arrivare nella città di Ajdabiya, a nord-est della Libia. Ad aspettarli squadre di trafficanti armati fino ai denti, che lavorano in armoniosa sincronia con i funzionari di frontiera corrotti.
Altre 10 ore di viaggio lungo la costa libica e altri posti di blocco che potenzialmente significano la fine del viaggio e la spedizione immediata in una delle decine di centri di detenzione per migranti in Libia.
L’obiettivo è il porto di Zuwara, a nordovest della Libia. Fino a 800 eritrei, 18 ore di navigazione, una fragile barca diretta verso le coste europee, senza cibo, senza scialuppe e giubbotti di salvataggio. I rifugiati pagano anche 2.000 dollari per la traversata.
Zuwara è il cuore oscuro della Libia. I contrabbandieri lì comprano pescherecci di 18 metri di seconda mano per circa 20.000 dollari. All’ombra di un ex– impianto chimico, gli scafisti operano liberamente in una ragnatela di antiche rotte commerciali. I rifugiati vengono smistati su pescherecci da traino in legno e gommoni, all’avvistamento delle coste europee.
Oltre che da Zuwara, si parte da Gasr el-Garabulli, Zlitan, Tripoli, Misurata. I pescherecci puntano verso una piattaforma petrolifera non lontano da Lampedusa. E il programma va avanti. I dipendenti della piattaforma allertano la guardia costiera e parte la catena dei soccorsi. L’alternativa è l’isola greca di Lesbo.
Le agenzie umanitarie stimano che più di 264.500 rifugiati hanno raggiunto le coste europee quest’anno e almeno 1.800 di questi sono morti.
Niyat, volto coperto con un’hijab bianca e verde e un bambino di sei mesi in braccio, ci ha messo due anni per risparmiare i soldi per il viaggio in Europa, guadagnandosi da vivere come sarta. E’ partita con la sua famiglia dalla periferia di Asmara. Pochi soldi con sé. Ci dice “Con la continua oppressione di polizia e posti di blocco militari, preferiamo viaggiare con pochi soldi. Molti di loro guadagnano esponenzialmente in tangenti da contrabbandieri e migranti. La polizia prende tra 150 e 250 dollari per l’attraversamento illegale in Libia dei camion. La maggior parte dei trafficanti viene pagata in anticipo tramite Western Union. Sono ormai uomini d’affari che offrono servizi”.
Diretta a Sabha, capitale della vasta regione del Fezzan meridionale, Niyat viaggia con un contenitore, da due dollari, con 4 litri di acqua, e con una piccola pagnotta di pane. E’ tutto quello che può permettersi. “Attraversare il confine eritreo può significare morire. I soldati del Presidente hanno l’ordine di sparare per uccidere. La Libia, con due governi paralleli bloccati in guerra, è paradossalmente meno pericolosa. Anche se le milizie libiche presero di mira l’Eritrea da quando inviò mercenari per sostenere l’ex dittatore libico Gheddafi”.
La Libia è diventata un punto di partenza per molti rifugiati, i trafficanti di esseri umani sfruttano il vuoto di potere del Paese, la crescente illegalità, la crisi politica, il conflitto armato e l’assenza di una normativa nazionale in materia di asilo.
Secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati circa 37.000 eritrei hanno presentato domanda di asilo in 38 Paesi europei nel corso dei primi 10 mesi dello scorso anno. 13.000 nello stesso periodo del 2013. I motivi? Esecuzioni extragiudiziali, sparizioni forzate, detenzioni in isolamento, repressione, violenze e paranoie del regime di Afewerki. Nessuna libertà di informazione, di stampa, di espressione. 300 prigioni in tutto il Paese. Più di 10.000 prigionieri politici. La gente non ha cibo da mangiare. Anche l’accattonaggio è reato in Eritrea. Si lavora nelle miniere fino a 12 ore al giorno, sei giorni alla settimana, per 1.500 nakfa al mese (poco meno di 100 dollari).
Inizialmente sostenuto da Stati Uniti e Unione Sovietica, Afewerki ha espulso agenzie umanitarie internazionali e forze di pace delle Nazioni Unite. Bloccati i media indipendenti e obbligati in carcere giornalisti, scrittori e critici. Torturate le minoranze religiose, per la credenza di un complotto straniero, atto a disgregare una Nazione ufficialmente e equamente suddivisa tra cristiani e musulmani.

Il Manifesto 11.11.2015 “Tra i ragazzi in fuga dal regime di Afewerki che noi sosteniamo” di Federica Iezzi

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L’Eritrea stretta nel giogo della repressione di Stato

Nena News Agency – 29 settembre 2015

Assenza totale di libertà di espressione, di manifestazione e di dissenso: sono 10mila i prigionieri politici del regime del presidente Afewerki. Uno stato di oppressione che si aggiunge alla mancanza di diritti del lavoro

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di Federica Iezzi

Asmara (Eritrea), 29 settembre 2015, Nena News – Diplomazia pubblica e associazioni umanitarie segnalano da anni uno dei regimi più repressivi e segreti di tutto il mondo. Quello di Isaias Afewerki. Dopo l’euforia post-liberazione del 1993, la foschia del regime del presidente Afewerki, ex capo dei ribelli del Fronte di Liberazione del Popolo Eritreo, ha chiuso i confini eritrei.

Bandita la libertà di espressione. Dal 2001, nessuna agenzia di stampa nazionale indipendente ha ottenuto l’autonomia di operare, nella sua campagna di vasta repressione del dissenso. Ammessi solo media filo-governativi. Attualmente nel Paese ci sono solo tre quotidiani, due emittenti televisive e tre stazioni radio, tutte sottoposte a stretta sorveglianza da parte del governo. Trasmettono via satellite alcune stazioni eritree che cercano di raggiungere dall’estero gli ascoltatori nel Paese. Ne sono esempi Radio Erena, che trasmette da Parigi, e le stazioni schierate con l’opposizione che trasmettono dall’Etiopia.

L’organizzazione non governativa, Reporter Senza Frontiere, parla di uno ‘stato di paranoia ovunque’ in Eritrea. All’ultimo posto per Press Freedom Index e rispetto dei diritti di comunicazione ed informazione, subito dopo la Corea del Nord. Ogni dissidente politico, sociale, militante ha in comune la stessa sorte nei percorsi prestabiliti dagli uomini del Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia, partito al potere attualmente in Eritrea: arresto, tortura o non ritrovamento.

Secondo i dati di Amnesty International, in Eritrea si contano almeno 10.000 prigionieri politici, tra i quali critici, dissidenti, scrittori, uomini e donne che hanno eluso il servizio militare obbligatorio e giornalisti. Detenuti nel campo militare di Wi’a. Sottoposti a rigida sorveglianza e forzati a soprusi.

Nessuna elezione democratica è stata tenuta da quando il Paese ha ottenuto l’indipendenza. Nessuna costituzione, nessun sistema giudiziario indipendente. Non esistono partiti di opposizione, nè media indipendenti. Vietata, di fatto, la formazione di qualsiasi associazione o organizzazione privata. Non sono ammessi incontri pubblici culturali o religiosi, raduni e riunioni di piazza superiori alle sette persone, che vengono sistematicamente smantellati dalle forze dell’ordine con interrogatori, violenze e registrazione del nome dei partecipanti. Le organizzazioni non governative, politiche, sociali e quelle che lavorano per la promozione dei diritti umani non sono autorizzate ad operare nel regime autoritario del Paese.

Non c’è nessuna guerra civile in Eritrea, né un intervento militare internazionale. C’è un disumano, sanguinario, spietato e totalitario stato di polizia da oltre 20 anni. Ecco perchè si fugge dall’Eritrea. 112.283 rifugiati eritrei hanno trovato una casa nei campi profughi di Gadaref e Kassala, regioni orientali aride sudanesi. Almeno altri 200.000 sono stati accomodati nei principali quattro campi profughi della regione del Tigray, e nei due della regione di Afar, nel nord-est dell’Etiopia.

Rifugiati e membri del Tigray People’s Democratic Movement, gruppo eritreo di opposizione in esilio, intensificano la lotta armata contro il governo di Asmara, accusato di gravi violazioni dei diritti umani, tra cui esecuzioni, reclusioni arbitrarie e senza processo, persecuzioni, sparizioni, molestie e intimidazioni.

Secondo il rapporto redatto lo scorso giugno, dalla commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite, le esecuzioni extragiudiziali, le torture, il servizio militare illimitato e il lavoro forzato, rappresenterebbero crimini contro l’umanità, che potrebbero esporre i funzionari eritrei a giudizio nella Corte Penale Internazionale. Il Ministero degli Affari Esteri eritreo ha respinto ogni accusa, che definisce solo come atto volto a indebolire la sovranità del presidente Afewerki e il progresso del Paese.

Il futuro dell’Eritrea si destreggia con instabilità tra costo della vita improponibile, infrastrutture al collasso, ombre di nuovi scontri armati. I genitori vivono nella paura del diciottesimo compleanno dei figli, data che segna l’inevitabile arruolamento nell’esercito eritreo. Lavoro coatto per sfruttare le ricchezze minerarie eritree come oro, rame e potassio, nel deserto dancalo. E mentre è proibito uscire clandestinamente dal Paese, il resto della popolazione lavora duramente, con basse retribuzioni, in aziende agricole e progetti pubblici. Nena News

Nena News Agency “L’Eritrea nel giogo della repressione di Stato” – di Federica Iezzi

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