Byenvini an Ayiti

-Bienvenue dans ma réalité-

Médecins Sans Frontières

Adattamento. È una parola che ti segue in tutte le missioni umanitarie.
È come riniziare ogni volta da capo – Salam alaikum, kaif al hal? Ana Federica. I’m a surgeon. Je viens de l’Italie.
Ogni risposta è un nuovo percorso, ogni risposta è una nuova persona.
E così inizia il viaggio. Ti adatti agli orari – dopo voli, cambi e corse. Inizi non solo a parlare un’altra lingua ma addirittura pensi in un’altra lingua, scompare il concetto di traduzione. Nulla, risparmi energie pensando la frase direttamente in francese, inglese, arabo. Ti adatti a dormire ovunque, che sia un letto o una panchina in aeroporto. Ti adatti alla cucina colorata caraibica, a quella africana, al ramadan dei Paesi arabi. E alla doccia fredda. Appoggi i tuoi vestiti nei nuovi armadi e ti accorgi di quanti passi hanno fatto con te. Riconosci i rumori della guerra, delle strade, dei generatori di corrente.
E ti adatti alla vita nel nuovo ospedale. Nuove regole, nuove linee guida, nuovi interventi chirurgici, nuovi tempi.
‘Dov’è la sala operatoria?’ E dopo mesi di missione, non ti sembra reale aver fatto questa domanda quando hai messo piede per la prima volta in ospedale, perché è come se quella strada l’avessi calpestata da sempre. È come se fosse scritta sulla tua linea della vita.
Ma il vero elemento straordinario sono le persone. Tutte. Quelle che ti riempiono le giornate con diecimila domande, quelle che ti osservano e hanno la grande capacità di imparare così, quelle che non vogliono che vai via, quelle per le quali rimani una guida anche dopo anni di distanza.
-Hic et nunc-


Port-au-Prince, Haiti

Gennaio 2022 – Dalla metà del 2018 Haiti è alle prese con una grave crisi politica ed economica.

In seguito ad un’escalation di proteste contro corruzione e peggioramento delle condizioni di vita, il presidente Jovenel Moïse è stato assassinato lo scorso luglio nella sua residenza a Port-au-Prince, dopo un precedente sventato tentativo di colpo di stato, peggiorando l’instabilità nel Paese.

Il potere legislativo è decaduto ormai da gennaio 2020 e il 2022 si preannuncia un anno estremamente complicato, a causa delle scadenze politiche successive all’assassinio del Presidente.

Il terremoto dello scorso agosto ha provocato oltre 2.200 morti e più di 10 mila feriti. E la memoria è andata subito al catastrofico terremoto del 2010, che fece contare più di 200.000 vittime.

La successiva tempesta tropicale Grace si è abbattuta sulle zone meridionali dell’isola, complicando notevolmente le operazioni di soccorso, rendendo molte aree inaccessibili, danneggiando strutture provvisorie utilizzate come riparo e pronto soccorso per cure mediche urgenti.

Il sistema sanitario e l’accesso negli ospedali sono condizionati dall’insicurezza generale. Le urgenze si sono sommate a enormi problemi strutturali: la fragilità cronica del sistema sanitario e l’insicurezza per i continui scontri tra le gang. Secondo le Nazioni Unite, più di 90 bande armate operano in tutto il Paese, controllando oltre la metà della capitale Port-au-Prince.

La Repubblica Dominicana ha riavviato le deportazioni di haitiani privi di documenti.
Nel maggio 2021, gli Stati Uniti hanno esteso di 18 mesi lo status di protezione temporanea per gli haitiani. Lo scorso settembre l’amministrazione Biden ha decretato l’espulsione di migliaia di migranti haitiani entrati a Del Rio, cittadina di confine tra il Texas ed il Messico. Nonostante la crisi umanitaria ad Haiti, decine di richiedenti asilo, sono stati brutalmente allontanati dagli Stati Uniti.

Lo scorso ottobre esplode la crisi del carburante, con bande criminali che hanno bloccato il Varreaux terminal a Port-au-Prince. A rischio l’operatività di strutture sanitarie. Difficile anche il trasporto di aiuti umanitari.

A dicembre, l’esplosione di un’autocisterna che trasportava carburante a Cap-Haitien, nel nord di Haiti, ha provocato decide di morti e feriti gravi.
Le bande armate controllano la distribuzione di carburante nel Paese. Haiti non ha un vero esercito, dopo il suo smantellamento nel 1995 a seguito dell’ennesimo colpo di stato militare. Inoltre deve far fronte alla debolezza delle forze di polizia composte da uomini mal armati, scarsamente addestrati, spesso corrotti e totalmente inadeguati a rispondere al crescente potere delle gang.


Febbraio 2022 – Haiti è entrata in una nuova fase di transizione politica. In scadenza il mandato ad interim del primo ministro Ariel Henry, la cui legittimità è stata contestata fin dall’inizio.
Ariel non lascerà il suo incarico prima di poter cedere il potere a un nuovo presidente democraticamente eletto. Ma per poter prendere in considerazione lo svolgimento di elezioni nel Paese, è necessario risolvere il problema dell’insicurezza.
Di fronte a un tale vuoto istituzionale, le fazioni politiche e i gruppi della società civile si contendono la legittimità per proporre una via d’uscita dalla crisi.
Intanto le gang hanno trasformato Haiti in una prigione a cielo aperto per i suoi cittadini. Il Paese è controllato da bande armate che impediscono la libera circolazione di persone e merci.
La situazione politica e umanitaria di Haiti continua a essere discussa al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Il mandato di BINUH (United Nations Integrated Office in Haiti) è stato prorogato fino al luglio 2022, per rafforzare la stabilità politica, tutelare e promuovere i diritti umani.

Precipitazioni intermittenti di varia intensità hanno provocato allagamenti in decine di comuni nei dipartimenti del nord, nord-est e Nippes. L’accesso alle aree colpite rimane molto difficile a causa dello stato delle strade e delle infrastrutture danneggiate dalle forti piogge.

Secondo l’ultimo report di Human Rights Watch, oltre un terzo della popolazione non ha accesso all’acqua potabile e due terzi hanno servizi igienici limitati o inesistenti. 4,4 milioni di haitiani vive con insicurezza alimentare e 217.000 bambini soffrono di malnutrizione da moderata a grave.


Marzo 2022 – Poco meno della metà degli haitiani di età pari o superiore a 15 anni è analfabeta. Il sistema educativo del Paese è altamente diseguale. La qualità dell’istruzione pubblica è generalmente molto scarsa e l’85% delle scuole sono private e applicano tasse che escludono la maggior parte dei bambini provenienti da famiglie a basso reddito.
Oltre 3 milioni di bambini non sono stati in grado di frequentare la scuola per mesi negli ultimi due anni, per motivi di sicurezza e restrizioni.
Il terremoto del 2021 ha distrutto o gravemente danneggiato 308 scuole, colpendo 100.000 bambini. Già prima del terremoto, l’UNICEF stimava che 500.000 bambini fossero a rischio di abbandono scolastico.

La violenza politica e i rapimenti legati alle bande continuano nonostante i gruppi haitiani si siano incontrati in Louisiana, negli Stati Uniti, per discutere delle prossime elezioni. Nel quartiere di Martissant, ovest di Port-au-Prince, dove un violento conflitto tra bande infuria da oltre sei mesi, i civili continuano ad essere mirati deliberatamente e indiscriminatamente.


Aprile 2022 – Sospensione temporanea delle attività nel centro di Drouillard di Medici Senza Frontiere, nell’agglomerato di Cité Soleil a Port-au-Prince, a causa della violenza tra gang. Aperto nel 2011, il centro di Drouillard ha fornito cure di emergenza e di stabilizzazione alla popolazione. Il centro rimarrà chiuso, finché non saranno garantite le condizioni di sicurezza, per consentire un accesso imparziale alle cure e non sarà violato il rispetto della neutralità delle strutture sanitarie.

Rimangono alti i livelli di insicurezza alimentare e malnutrizione. Secondo le ultime stime dell’Integrated Food Security Phase Classification (IPC), circa 4,5 milioni di haitiani (45% della popolazione totale) fronteggeranno la fame nel 2022. Di questi, più di 1,3 milioni saranno in emergenza (fase 4 IPC).

Pesanti colpi di arma da fuoco a Butte Boyer, nella zona di Croix-des-Bouquets, comune nell’area metropolitana di Port-au-Prince. Il gruppo armato 400-Mawozo combatte ancora contro bande rivali, guidate dal gruppo Chen Mechan, per controllare la zona di Croix-des-Missions e Bon-Repos. Decine di feriti sono stati accolti nel Centre de traumatologie d’urgence et de grands brûlés de Tabarre nella capitale Port-au-Prince, mentre l’insicurezza sta tornando ad essere un serio ostacolo all’accesso alle cure.

Si teme che la vasta area di Croix-des-Bouquets, che collega la capitale all’altopiano centrale e al confine con la vicina Repubblica Dominicana, possa diventare la prossima terra di nessuno di Haiti dopo Martissant, il quartiere sud totalmente sotto il controllo di gang. Se Croix-des-Bouquets cadesse completamente nelle mani delle bande armate, lascerebbe Port-au-Prince con un solo accesso, quello settentrionale.

Le conseguenze dello stoccaggio improprio di carburante, alimentato dallo spettro della penuria del mercato, continuano ad essere causa di preoccupanti esplosioni. Ultimi gravi incidenti a Milot, zona Barrière Battant (département du Nord) e a Montrouis, St Marc (département de l’Artibonite). Decine di feriti sono stati trasportati in condizioni critiche presso il Centre de traumatologie d’urgence et de grands brûlés de Tabarre, a Port-au-Prince.

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REPORTAGE. Il campo tossico dove l’Europa scorda i migranti

Il Manifesto – 24 settembre 2019

REPORTAGE. Muri e migrazioni. A Vucjak, in Bosnia, si sopravvive senza assistenza, tra rifiuti e mine anti-uomo: il campo si trova sopra una vecchia discarica, l’acqua non è potabile e la terra, mai bonificata, è intrisa di veleni. E chi tenta la fuga in Croazia trova la polizia e il suo ‘gioco’: cibo confiscato e zaini dati alle fiamme

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Bosnia-Herzegovina – Vučjak refugees camp (photo credit Renato Ferrantini per One Life ONLUS)

di Federica Iezzi

Sarajevo – Nascosto tra le cime boscose del monte Plješevica e circondato da zone ancora minate delle guerre jugoslave, il campo rifugiati di Vucjak, nella Bosnia nord-occidentale, è una prova scioccante della crisi che si è abbattuta contro la porta di servizio dell’Unione europea. Le Nazioni unite hanno recentemente descritto questo campo, a pochi chilometri dal confine spinato croato, come del tutto inadeguato ad accogliere civili.

UNICO CAMPO in cui non sono presenti le grandi organizzazioni non-governative internazionali, è ufficialmente gestito dalla municipalità della cittadina di Bihac. E sotto-affidata, non ufficialmente, ai volontari della Croce Rossa locale di Bihac.

È sorto dopo che le autorità della Bosnia e i governi municipali del Cantone di Una-Sana, hanno deciso che i migranti non potevano più rimanere negli spazi pubblici o negli edifici abbandonati, entro i limiti della città.
Plastica, vetro, vecchi vestiti ormai diventati stracci, copertoni di gomme usate giacciono sul terreno contaminato.

Si tratta di resti tossici del passato. Il campo si trova sul sito di una vecchia discarica, in attività solo fino a qualche anno fa. Le condizioni sono terribilmente preoccupanti. La sopravvivenza è legata all’acqua non potabile, alla terra intrisa di anni di veleni, al solo lavoro dei volontari.

ALMENO UN MIGLIAIO di migranti sono ammassati in questo inferno. Provengono da Afghanistan, Iraq, Iran, Siria, Pakistan. L’accesso all’acqua è ridotto a dieci ore al giorno, non esiste un approvvigionamento idrico permanente.

Vucjak fa eco all’inumanità del campo profughi di Calais in Francia del nord e all’abietta inazione dei governi europei. La mancanza di infrastrutture di base e servizi igienico-sanitari a Vucjak viola profondamente le norme minime stabilite dai canoni delle Nazioni unite.

Nel bel mezzo del campo, un’enorme mappa mostra la posizione dei campi minati locali. Ogni giorno, più volte al giorno, camionette della polizia bosniaca riversano su Vucjak migranti che sono fuori dai circuiti dei centri di accoglienza temporanei, quelli dell’Organizzazione internazionale per le Migrazioni.

Come cani randagi, vengono scaricati in mezzo al campo, dopo aver aperto il portellone posteriore del furgone, sigillato da uno sfolgorante lucchetto. È strettamente proibito riprendere queste scene, non ci sono fotografie, video o materiali propagandistici, ma è una pratica che va avanti indisturbatamente.

Nonostante l’ingiustizia umanitaria, non sono le mine antiuomo, le condizioni precarie di salute o la mancanza di servizi igienico-sanitari che i migranti raccontano. Raccontano le violenze «passive» della polizia di confine. Nelle ultime settimane c’è un nuovo gioco che usa la polizia croata: rastrellare e bruciare cibo, vestiti, scarpe, zaini, telefoni dei ragazzi che tentano il game.

Nella programmazione dell’attraversamento del confine croato-bosniaco, si spendono circa 100 marchi (poco più di 50 euro) in generi alimentari, per lo più pane e derivati. Spesso quei 100 marchi rappresentano i risparmi di mesi, così bruciare il cibo diventa un segnale di terribile spietatezza.

Emad è fuggito dalla Siria, con la moglie e il figlioletto di appena due anni. Ha tentato il game ma l’hanno rispedito nel Borici temporary reception center della città di Bihac, derubandolo di tutto. Mentre lo staff medico dell’associazione italiana One Life Onlus visita il figlio, Emad ci porge una busta di plastica con un telefono all’interno. Ci chiede se lo vogliamo comprare, così con quei soldi può provare di nuovo ad attraversare il confine con la Croazia. È straziante. Non ci sono parole.

DAL GENNAIO 2018, quasi 36mila migranti sono entrati in Bosnia, rimanendo intrappolati tra le politiche europee, progettate per ridurre gli attraversamenti irregolari, e la situazione di stallo politico in Bosnia, che di fatto impedisce alle autorità locali di fornire protezione.

Dalla Turchia e dalla Grecia, sono due le principali vie di passaggio per la Bosnia: una attraversa la Macedonia del nord e la Serbia, l’altra attraversa l’Albania e il Montenegro.

In piedi nel campo di Vucjak, tra una folla di corpi maltrattati e ossa rotte, ci si trova di fronte alle feroci conseguenze della geopolitica europea. Nel cinico sforzo del governo croato di dimostrare di avere le carte in regola per aderire all’area Schengen di libera circolazione, il Paese respinge i migranti senza seguire le adeguate procedure di asilo.

IL VIAGGIO DI GULRAIZ inizia a Kunduz, in Afghanistan. Facciamo fatica a guadagnare la sua fiducia. La solitudine che accompagna i migranti è invalicabile. Sorridono, ma gli occhi sono vuoti. Mese dopo mese camminano senza alcun riposo e senza alcun appoggio. Si viaggia insieme ad amici di circostanza, a meri compagni di percorso.

Per un marco ha ricaricato il suo prezioso e vecchio telefono a Vucjak. Dopo qualche racconto, ci mostra sul telefono la mappa che userà per tentare il game partendo dal monte Plješevica, addentrandosi nel fitto bosco bosniaco, passando per la cittadina bosniaca di Šturlic, fino ad arrivare agli anelati cartelli del granicni prelaz, il valico di frontiera. Un firmamento di punti rossi, di luoghi, di coordinate, di passi compaiono sulla funzione ‘satellite’ di Google Maps.

Ci ferma un biondo poliziotto bosniaco. Camicia chiusa fino all’ultimo bottone, aria spavalda e bieche gambe di piombo. Ci prende i documenti. Cerca di intimorirci segnando i nostri nomi su un taccuino spiegazzato, senza darci alcuna spiegazione.

Il favoreggiamento all’immigrazione clandestina ha un confine sottile. Siamo costretti ad allontanarci. Lo facciamo con l’immagine negli occhi della mappa satellitare di Gulraiz, con le mani segnate da un viaggio inumano di Abdurahman che con ago e filo riparava il suo zaino, con gli occhi sgranati dall’incertezza dei ragazzi che non hanno un badge per il ’5 stelle’ dei centri di accoglienza temporanei.

Lasciamo la Bosnia con l’immagine di Ibrahim, poco più di tre anni, che segue camminando il suo papà, imitandolo con le braccia piegate all’indietro.

Il Manifesto ‘Il campo tossico dove l’Europa scorda i migranti’ di Federica Iezzi

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REPORTAGE. Nei Balcani la guerra dopo la guerra

Il Manifesto – 09 aprile 2019

La “nuova rotta”. Reportage dal confine croato-bosniaco, dove migranti, rifugiati e richiedenti asilo sono vittime dei respingimenti illegali e spesso violenti messi in atto con la complicità dell’Unione europea. Che all’assistenza umanitaria preferisce le frontiere blindate

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Bihać (Bosnia & Erzegovina) – Bira refugees centre One Life ONLUS/Renato Ferrantini

di Federica Iezzi

Velika Kladuša – Il viaggio di Nazim parte dal campo di Zeralda, a circa 30 chilometri da Algeri. È questo il punto di ritrovo per i trafficanti, ormai padroni indiscussi dei grandi deserti africani. Caricato come un numero su vecchi camion, con l’inconfondibile vessillo della Mercedes, viene trasferito a Tamanrasset, città dell’estremo sud algerino. «Lì arriva il biglietto per Agadez» ci dice Nazim con gli occhi di chi ricorda un momento di speranza. Il potente hub nigerino è la porta d’ingresso per la Libia. Abbiamo incontrato Nazim al Bira Refugees Centre di Bihac, nel nord-ovest della Bosnia. È qui che adesso vive.

I NUMERI UFFICIALI parlano di 2250 posti letto e 3914 persone registrate. Per l’81% si tratta di ragazzi soli provenienti per lo più da Siria, Afghanistan, Pakistan, Iraq, Iran. Dal gennaio 2018, oltre 23.000 migranti e richiedenti asilo sono arrivati in Bosnia. L’anno prima erano meno di 1.000.

Da Algeri sembra partire un filo diretto anche per la Turchia. Racconta Nazim: «In 24 ore e 80 euro si ottiene un visto online per la Turchia valido 180 giorni». Una volta a Istanbul la tappa successiva è la città portuale di Izmir. Da qui il passaggio nelle isole greche di Agathonisi prima e Samos poi, aprono la strada verso Atene.

DALLA GRECIA inizia la “nuova rotta balcanica” attraverso Albania, Montenegro e Serbia. «Dopo aver attraversato il confine serbo-bosniaco e passate le città di Bijeljina, Zvornik, Sapna, Kalesija, ci hanno trascinato nella città di Tuzla». Nella città nord-orientale bosniaca di Tuzla non si rimane per più di 24 ore. «Si parte presto per Sarajevo prima, e per Bihac poi».
Ufficialmente mediante una facile registrazione si ottiene il diritto legale di soggiornare in Bosnia per 14 giorni. Spesso questi documenti temporanei vengono distrutti per evitare la riammissione nel Paese e si chiede una protezione internazionale, in modo da avere almeno libertà di movimento dentro il territorio bosniaco.

«Stasera provo a prendere un autobus che da Bihac arriva direttamente a Zagabria – dice ancora Nazim -. Ho pagato il biglietto 13 euro. Spero solo che nell’autobus non ci siano controlli alla frontiera croata».

ANCHE AMNESTY International accusa l’Unione europea di essere complice dei respingimenti sistematici, illegali e spesso violenti e delle espulsioni collettive verso migranti, rifugiati e richiedenti asilo, sul confine croato-bosniaco.

Per capire le priorità dei governi europei, basta seguire il flusso di denaro. Il contributo finanziario all’assistenza umanitaria è marginale rispetto ai fondi forniti per la sicurezza delle frontiere, che includono equipaggiamenti “da guerra” per la polizia croata, aggiuntivi di generose retribuzioni.

E.B. è di nazionalità afghana. È di etnia pasthun. È un perseguitato politico. Il suo racconto è ricco di dettagli e particolari e parte da Helmand nel profondo sud dell’Afghanistan. Inizia con un’affermazione estremamente consapevole: «La distanza più breve tra l’Afghanistan e la Turchia, in linea d’aria, è di 2.947 chilometri e passa attraverso l’Iran».

E. B. RACCONTA come la rotta terrestre dall’Afghanistan attraverso l’Iran e la Turchia sia tradizionalmente usata anche per il contrabbando di oppiacei verso l’Europa». Gli chiediamo come mai in Afghanistan scelgono di passare attraverso l’Iran. La risposta è rapida e precisa: «L’Iran è la strada che tutti gli altri prendono». Le opzioni sono solo due. La prima, la meno quotata, è quella di avere un passaporto afgano e un visto iraniano valido. La seconda è quella invece di raggiungere l’Iran attraverso il Pakistan. E.B. mostra una mappa con una serie ordinata di punti rossi: Peshawar, Quetta, valico di frontiera Taftan-Mirjaveh (sul confine tra Pakistan e Iran), Taft, Tehran, Maku (nella stretta gola tra le montagne al confine con la Turchia), Dogubayazid e Istanbul. «Nell’area tra il confine pakistano e quello iraniano – racconta -, abbiamo dovuto camminare per 10 ore al giorno, senza acqua per 15 giorni. Al mattino, i contrabbandieri ci consegnavano pane e una bottiglia d’acqua che dovevano bastare per tutto il giorno. Seppur in 40 dentro lo stesso pick-up ci siamo mossi rapidamente attraverso l’Iran, ma in Turchia ci è sembrato di vivere in una moviola. Siamo arrivati a Istanbul dopo più di un mese. Da lì, i contrabbandieri ci hanno portato a Izmir».

LA TAPPA SUCCESSIVA, ci racconta, è stata la città della Turchia occidentale di Edirne, per arrivare sulla costa greca, evitando la Bulgaria.

La porta di ingresso nei Balcani è diventata la Macedonia. Qui i migranti ricevono documenti di transito ufficiali e aspettano un treno che li porti a nord verso il confine serbo. In alternativa attraversano frastagliate montagne e fitti boschi per raggiungere l’Albania prima, il Montenegro poi, solo per ritrovarsi bloccati nel collo di bottiglia bosniaco.

E.B. conferma che per molti, è stato necessario prendere in prestito denaro da parenti e amici e addirittura ipotecare le proprie case. Le modalità di pagamento, così come il costo del viaggio in Europa, variano molto: da 1.500 a oltre 8 mila dollari a persona. Il costo iniziale è di circa 500 dollari. I successivi 1.500 dollari vengono pagati all’uscita dall’Iran. Il contrabbandiere, spesso definito come un vero e proprio agente, riceve il pagamento concordato solo se il cliente arriva a destinazione.

LA TRATTA IN AFGHANISTAN funziona per lo più in comunità o in gruppi etnici. Se provieni da una determinata provincia, il tuo contrabbandiere sarà probabilmente della stessa area, percepita come più affidabile.

E.B. racconta che ha provato ad attraversare il confine tra Bosnia e Croazia per due volte. Lo chiamano the game, «il gioco». E sembra di essere all’interno di un malsano videogioco che parte intorno al monte Plješevica, ai piedi dell’abbandonata base aerea militare di Željava, utilizzata intensamente durante la guerra d’indipendenza croata nel 1991, prima dall’armata popolare jugoslava e in seguito dai serbi fino al 1995.

I cartelli rossi con le echeggianti scritte Pazi mine («Attenzione mine») e Zabranjen prolaz («Passaggio vietato»), eredità del conflitto degli anni ’90, disegnano il cammino di una guerra dopo la guerra.

E.B. la prima volta è stato trattenuto nella stazione di polizia di Slunj in Croazia, sul confine croato-bosniaco, senza avere accesso alle procedure di asilo. Rimandato indietro, se l’è cavata con qualche livido sulla schiena. E il ministro degli Interni croato Davor Božinovic continua a dichiarare con fermezza che la Croazia sta soltanto mettendo in atto azioni per impedire l’immigrazione illegale, in conformità con le sue responsabilità verso l’Unione europea.

E.B. MOSTRA UNA CARTINA in cui sono cerchiati i nomi di città e villaggi. «Quando andrà via la neve, voglio provare a camminare a piedi lungo la strada tra Plitvice e Korenica, per arrivare a Vrhovine, una città a metà strada tra i laghi di Plitvice e la città croata di Otocac. Poi attraverso Fiume raggiungere l’Italia settentrionale. Voglio arrivare in Francia o in Belgio».

Il Manifesto “REPORTAGE. Nei Balcani la guerra dopo la guerra” di Federica Iezzi

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Migranti sulla rotta balcanica

Mentinfuga – 08/11/2018

INTERVISTA a Federica Iezzi a cura di Pasquale Esposito

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Campi rifugiati a Bihać, nel nord della Bosnia-Erzegovina

Gli esseri umani, per sfuggire alle loro sofferenze causate da guerre, regimi dittatoriali, dalla povertà e dai cataclismi climatici, continuano a migrare. Quasi tutti i paesi oramai non provano nemmeno a trovare soluzioni, si adoperano solo per respingerli. Con Federica Iezzi, cardiochirurgo pediatrico e curatrice di un sito web di informazione (federicaiezzi.wordpress.com), parliamo della rotta balcanica e della situazione in alcuni campi al confine bosniaco-croato.

 

Prima di entrare nel vivo della nostra intervista vorrei chiederle di riepilogare, a beneficio di tutti, e per comprendere meglio il livello di chiusura che stiamo adottando, la collocazione dei muri anti-migranti in Europa

Mentre i governi europei sono riusciti ad arginare il flusso migratorio attraverso il Mediterraneo verso l’Europa, esiste purtroppo una vergognosa mappa di muri eretti sui confini di ciascun Paese della comunità europea.
Si inizia nell’agosto 2015 con la Bulgaria di Plevneliev e del muro lungo 269 chilometri che corre lungo il confine con la Turchia. Solo un mese dopo si continua con le immagini strazianti del muro di cemento e filo spinato e delle violenze nell’Ungheria di Orbán.
Nel 2016 è stata la volta della Slovenia che ha iniziato ad innalzare i suoi pannelli anti-migranti a Gruškovje e Obrezje. In tutto sono stati complessivamente dispiegati più di 180 chilometri di filo spinato dal valico di Gibina fino alla valle del fiume Dragogna in Istria, a difesa del confine esterno di Schengen.
Nell’aprile del 2016 l’Austria ha presentato ufficialmente il suo muro contro i migranti. E nel novembre dello stesso anno anche la Macedonia ha completato il suo muro, accuratamente sormontato da filo spinato, con il confine greco.
A questi si sono uniti Francia e Gran Bretagna con il grande muro di Calais, voluto dal governo di Londra per impedire ai migranti il passaggio dalla Francia.
Il quadro si completa con la Norvegia che ha aumentato i controlli alle frontiere e agli arrivi dei traghetti da Germania, Svezia e Danimarca. Rinforzo delle ispezioni e imposizione di misure severe anche in Belgio e Slovacchia.

La rotta balcanica che avrebbe aperto le porte all’Europa ancora nel 2015 vedeva transitare centinaia di migliaia di donne, bambini e uomini in fuga da guerre e miseria. Nel 2016 quando l’Unione europea ha chiuso un accordo miliardario con la Turchia si è teoricamente chiusa, ma di fatto il flusso migratorio non si è arrestato del tutto. Ora che gli ultimi governi italiani e l’Ue bloccano i migranti del Mediterraneo, i flussi migratori hanno ripreso pesantemente la strada della Spagna ed è nuovamente tornata alle cronache la rotta balcanica. È dì questi giorni la tensione al confine tra Bosnia e Croazia. Lei attualmente in quale area sta portando il suo aiuto?

Il flusso migratorio non si è mai arrestato. Alla chiusura di vecchi itinerari, è seguita l’apertura di nuove rotte.
L’Unione Europea versò nel 2016 tre miliardi di euro di aiuti nelle casse turche, per la sola gestione dei campi profughi. Per completezza di informazione la maggior parte di questi campi è non ufficiale, quindi tuttora i profughi al loro interno non hanno diritto a ricevere nessun sostegno da parte del governo Erdoğan. Inoltre l’Unione Europea ha mobilitato fino a un massimo di altri tre miliardi di euro entro fine 2018.
Continuano ad esserci forti difficoltà nel valutare l’impatto dei fondi investiti. Basti pensare che fra i canali di finanziamento sono finite anche forniture militari.
Attualmente, con l’organizzazione non governativa, One Life ONLUS, stiamo affiancando negli interventi sanitari, l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), nel cantone di Una-Sana, nell’area nord-occidentale della Bosnia-Erzegovina, al confine con la Croazia.
Le stime formali parlano di circa 3.000-3.500 migranti nell’area compresa tra le due città di confine bosniaco-croato di Bihać e Velika Kladuša.
Gli arrivi e le partenze cambiano repentinamente ogni giorno, per cui la più grande sfida rimane la sistemazione ufficiale. Abbiamo attraversamenti irregolari di confine e altrettanti violenti respingimenti in Croazia ogni giorno.

Vuole raccontarci quale atmosfera c’è tra i migranti, come dialogano tra di loro viste le culture e le lingue diverse, come sopravvivono? E le forze dell’ordine e i militari come si comportano?

I migranti in Bosnia sono per lo più provenienti da Afghanistan, Pakistan, Siria e Iraq, qualcuno dal Sahel dopo aver attraversato la rotta di Agadez. Di questi, la metà sono bambini tra i due mesi e i 16 anni. Alcuni con le mamme, altri sono soli, altri ancora sono accompagnati da amici di famiglia.
La sopravvivenza è legata al rispetto delle loro tradizioni. Ciascuna vita si interseca con l’altra. Non si avvertono distinzioni di etnia e religione.
I racconti sono amaramente comuni. Il viaggio spesso è fatto in silenzio, così nessuno può capire dall’accento la provenienza. Non si hanno notizie riguardo la propria famiglia per giorni, mesi. Né i propri parenti conoscono i luoghi dove sei. E questo è già sufficientemente inumano. Nonostante ciò ognuno di loro cerca di rendere normale la quotidianità. E io stessa mi chiedo come si fa a non essere esasperati.
I campi a Bihać e Velika Kladuša sono presidiati dalla polizia bosniaca. Piccole unità all’ingresso di ogni campo, come controllori dei movimenti.
A causa della mancanza di alloggi ufficiali, la protezione e la sicurezza diventano una preoccupazione. La vulnerabilità delle persone spesso sfocia in vere e proprie frodi da parte di contrabbandieri e trafficanti senza scrupoli
Altra storia sono le cruente testimonianze sui respingimenti violenti al confine con la Croazia. In nessun caso le forze dell’ordine avrebbero il diritto di usare la violenza, anche quando i migranti cercano di attraversare i confini in modo irregolare. È vero che ciascuno Stato ha il diritto di decidere se accettare o meno il migrante nel proprio territorio, ma i maltrattamenti non dovrebbero essere permessi. La nostra posizione ufficiale è molto chiara, nel rispetto delle leggi internazionali sui diritti umani, nel rispetto del diritto internazionale umanitario e nel rispetto del diritto di accesso all’asilo.

Quale situazione registra tra i migranti e la popolazione locale? È reale la solidarietà legata al richiamo del trauma della vicina guerra bosniaca?

Un aumento del 600-700% degli arrivi in Bosnia ha messo in crisi una struttura amministrativa già particolarmente complessa, risultato di un ‘patto di carta’, quello di Dayton del 1995.
Tutti gli abitanti della Bosnia, per interposti e contrapposti crimini, sono stati trasformati in profughi e la rotta balcanica occidentale, che solo due anni fa, sorprendentemente, non sfiorava il Paese, oggi riapre lacerazioni non ancora cicatrizzate.
Il primo obiettivo dei migranti, dall’ingresso in Bosnia, è Sarajevo, dove possono presentare una richiesta di asilo all’ufficio immigrazione locale. Mancando totalmente di strutture di accoglienza, solo fino a qualche mese fa nascevano accampamenti di fortuna nel centro storico della capitale, in condizioni disastrose. E a Sarajevo tutti gli abitanti hanno tragici ricordi della guerra, sanno con esattezza il significato dell’essere rifugiati, dunque il supporto è stato immediato e senza alcun compenso.
Malgrado ciò, tra gli abitanti del Paese si è creata una bipartizione ben chiara: c’è chi ha visioni nazionalistiche e addita i migranti come pericolo, e chi invece ci si rispecchia e li aiuta.
L’esempio più eclatante di questa bipartizione è stato il trasferimento dei migranti dal parco di Sarajevo al centro di Salakovac, vicino Mostar, nel Cantone dell’Erzegovina-Neretva, dove la popolazione principale, dall’enorme atteggiamento di ospitalità, è quella croata e bosniaca.
D’altra parte, la Repubblica Srpska, a maggioranza serba, ha categoricamente rifiutato di accettare qualsiasi migrante sul suo territorio.

La scorsa primavera il primo ministro bosniaco Denis Zvizdić annuncio che avrebbe rinforzato la polizia di frontiera per bloccare migranti illegali. Le politiche anti-migranti, in Bosnia, subiranno degli inasprimenti in considerazione della conferma dei due grandi partiti nazionalisti vincitori delle elezioni del 7 ottobre scorso, i nazionalisti bosgnacchi (SDA) e quelli serbi (SNSD)?

Nel corso dell’anno, pur essendo consapevoli dell’arrivo inevitabile di un numero sempre maggiore di rifugiati, le autorità bosniache non sono riuscite a rispondere adeguatamente alla crisi umanitaria. La risposta è arrivata, come spesso succede, dai semplici cittadini e da alcune organizzazione non governative internazionale.
Zvizdić, spalleggiato dalla Turchia, ha dichiarato in più incontri ufficiali che il Paese non ha alcuna capacità di accettare migliaia di rifugiati. La Bosnia conta ancora oggi circa 85.000 sfollati interni, triste risultato della guerra degli anni ’90, il che diminuisce necessariamente la capacità delle autorità di accettare e sostenere un numero, destinato ad allargarsi a macchia d’olio, di migranti. A questo purtroppo si aggiunge una chiara mancanza di volontà politica.
In un certo senso, non sorprende che il flusso migratorio sia stato trascinato nelle dispute politiche della Bosnia, come elemento di modifica dei dati demografici nel Paese e come elemento di minaccia alla sicurezza.
In un Paese disfunzionale e ancora profondamente diviso tra bosniaci musulmani, serbi ortodossi e croati cattolici, i migranti sono stati impugnati come arma politica.
Il leader separatista serbo (SNSD) Milorad Dodik ha chiuso i confini della Repubblica Srpska ai migranti, considerando una cospirazione politica l’arrivo e l’inserimento, nella trama territoriale bosniaca, di popolazione di religione musulmana.
Dunque, il successo delle due principali forze politiche della destra nazionalista, per niente disponibili a una società multietnica, potrebbe portare a debilitare le istituzioni statali stesse e per questo accodarsi alle incoerenti politiche sull’accoglienza ai migranti che imperano nell’Unione Europea.

Mentinfuga “Migranti sulla rotta balcanica”

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L’universo degli impauriti, a bordo delle navi da salvataggio

Il Manifesto – 12 luglio 2017

REPORTAGE. Arrestiamo umani. A bordo delle navi di salvataggio fuori dalle coste libiche c’è un universo fatto di sudore, urina, vomito, sangue. E sperando di non respirare l’odore della morte, in quel mondo si trovano anche persone provenienti da paesi diversi ma accomunate dalla fuga: da guerre, torture, arresti arbitrari, stupri e violenze

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di Federica Iezzi

Tripoli (Libia) – Sul ventre di un’onda, tra la notte fonda e l’alba, la luna perde il suo bagliore e il cielo e il mare si sciolgono in un’oscurità così profonda che permette soltanto di fiutare il dolore acuto della miseria umana. È una mescolanza informe di sudore, urina, vomito, sangue. E si prega sempre che non ci sia anche l’odore della morte.

IL MAR MEDITERRANEO, lucido alla nuova luce di ogni mattino, è diventato il percorso migratorio più mortale al mondo. Nel 2016 gli sbarchi attraverso il Mediterraneo hanno superato i 360.000 e più di 5.000 migranti hanno perso la vita, prima di raggiungere i tanto bramati porti europei, i quali capofila rimangono quelli italiani. Solo nel 2017 le profondità oscure di questo mare sono diventate la tomba per più di 2.000 migranti.

LE ACQUE SALATE tra Libia e Italia accolgono instancabilmente chi fugge dai fucili, dalla repressione e dalla povertà della propria patria. Sovraffollate imbarcazioni da pesca in legno, imbottite in poliuretano, poco adatte per attraversare un fiume, tanto meno un vasto mare, parlano decine di dialetti diversi. Costa d’Avorio, Nigeria, Liberia, Somalia, Eritrea, Sudan senza dimenticare Siria, Afghanistan, Pakistan e Bangladesh.

Sono rifugiati. Rischiano tutto per avere una possibilità di libertà e dignità. Le centinaia di giubbotti salvavita, verniciati di un arancione che fa male agli occhi, stipati sul ponte principale della nave di soccorso, risvegliano il mondo alla severità imposta dall’Europa. Le storie si sovrappongono tutte. Kamal ha viaggiato per otto mesi da Mvolo, in Sud Sudan.

HA VISSUTO LA GUERRA e ha lasciato che gli passasse accanto, ha partecipato a proteste contro il governo del suo paese, è stato arrestato per le sue idee, è stato percosso, violentato e messo in isolamento, senza cibo e solo con acqua, per giorni nelle carceri sudanesi.

Poi è finito in Libia, dove è stato bloccato dai miliziani. Detenuto nei pressi di Misurata, in uno dei centri da loro gestiti, che non compare in nessuna cartina politica, ha pagato 400 dollari per essere rilasciato. E dopo otto mesi ha pagato ancora, questa volta i contrabbandieri, per attraversare il Mediterraneo.

Kamal ci dice «Le madri nei pescherecci non si rendevano conto che i loro bambini non erano più vivi, non si rendevano conto che tenevano in braccio bambini morti. La morte cancella tutti i lineamenti. Preferisco morire sulla terra. La morte in mare è silenziosa e solitaria».
Lo ascoltiamo abbassando gli occhi e pensando che forse in quel momento, quando l’ultimo respiro ti accompagna in acqua, in mezzo alla vastità del mare, una vita può sembrare insignificante. La speranza è aggrappata con le unghie sanguinanti ai bambini senza voce che sono ancora custoditi nelle pance delle donne.

LE ROTTE NEL MARE NOSTRUM hanno preso quota dopo l’accordo chiuso tra i civili Paesi dell’Unione europea e la Turchia, riguardo la violenta interruzione della via migratoria attraverso i Balcani.

Per i migranti dell’Africa occidentale, la via Agadez-Dirkou-Sabha è quella abitualmente solcata. In viaggi di migliaia di chilometri attraverso Niger e Libia, si arriva, in sella ai pick-up dei contrabbandieri, sulle coste libiche tra Zawarah e Sabratha, a ovest di Tripoli.
I migranti dell’Africa orientale, in particolare del Corno d’Africa, seguono la via Khartoum-Kufra, grazie alla quale i deserti del Sudan e della Libia, sono collegati a Bengasi.

DA TRIPOLI O BENGASI si aspetta il bel tempo, si salpa e non si sa se si arriva. Le piccole imbarcazioni gestite dal business lucrativo di contrabbando di persone, di una Libia totalmente instabile politicamente, viaggiano alla velocità di cinque miglia all’ora. Il distruttivo viaggio fino alle coste europee può durare più di 40 ore. A non meno di sessanta miglia nautiche (110 chilometri) dalla costa libica inizia l’area di azione dell’agenzia europea Frontex: spesso per i migranti è l’unica speranza di arrivare vivi all’altro capo del Mediterraneo.

SULLA NAVE l’odore è pungente. Arrivano da Eritrea, Etiopia, Gambia, Senegal, Nigeria, Mali. La maggior parte è a piedi nudi, con le gambe di ebano coperte di polvere e sale marino incrostato. A soli 17 anni, Jawo è in viaggio dalla capitale gambiana, Banjul. Il suo viaggio è iniziato dopo che il padre è stato arrestato per motivi politici. Ha viaggiato attraverso Mali, Burkina Faso e Niger per raggiungere la Libia sud-occidentale. Ci racconta che i trafficanti lo hanno messo nella parte posteriore di un camioncino e hanno guidato per dieci giorni sulle dune desolate del Sahara.

«Potevamo portare una tanica da quattro litri di acqua ciascuno. Gli ultimi giorni non ho bevuto nulla. La sabbia mi entrava negli occhi e io non avevo nemmeno la forza di chiuderli. Il mio sguardo era fisso verso un orizzonte che sembrava non finire mai».
Ci racconta che una volta arrivati sulla costa libica, prima di imbarcarsi, tutti i migranti ricevono una chiamata. Il trafficante che subentra, li fa riunire in un posto specifico. Tutti i telefoni vengono raccolti e confiscati.

Non si possono portare bagagli e fino al momento dell’imbarco vengono forniti cibo, acqua e servizi igienici. Molti raggiungono di notte il peschereccio sorteggiato per la traversata e non trovano spazio. Questo significa partenza rimandata ma soprattutto altra permanenza in Libia, dove si rischia di finire in carcere. Per Jawo, che ha attraversato il Sahara e il Mediterraneo, un nuovo viaggio è destinato ad iniziare in una nuova terra. Lo aspettano i volontari con scatoloni di cartone pieni di sandali. Gli viene consegnato un paio di scarpe in gomma. Jawo viene contrassegnato con un numero e svanisce dietro una tenda. «Non pensavo di arrivare vivo», è così che ci saluta, impaurito per la vecchia vita lasciata e per la nuova da iniziare.

ABDOULAYE ARRIVA DA GAO, in Mali. È arrivato ad Agadez in autobus. Da lì un contrabbandiere per 800 dollari l’ha portato a Tripoli. Ha dormito per giorni in un magazzino abbandonato a Sabratha: «Mi hanno detto che se mi vedevano, mi avrebbero portato in carcere. È dura in Libia uscire dal carcere. Ti tengono in ostaggio, fino a che non li paghi. Così da quel magazzino affollato, che condividevo con altre 60 persone, uscivo soltanto di notte per bere e mangiare. Il Ramadan mi ha aiutato, digiunavo dall’alba al tramonto, e non pensavo alla sete in quei giorni bollenti».

I CONTRABBANDIERI hanno promesso a Abdoulaye che per 400 dollari l’avrebbero buttato su una barca per raggiungere l’Italia. E l’hanno fatto. Era un gommone di 20 metri di lunghezza, alimentato da un motore esterno.

«Eravamo 130, stipati in uno spazio disegnato per 25 persone. Quel motore faceva un rumore strano. Io sapevo che non saremmo andati lontani, a Gao ero meccanico. Ma avevo paura delle milizie e dei soldati libici, avevo paura dei contrabbandieri. Avevo paura della mia ombra. Così sono salito e ho pregato»

A Abdoulaye hanno dato un giubbotto salvavita che ha pagato quattro dollari, non c’era spazio per altro. Uno dei contrabbandieri con un AK-47 in mano è saltato nel gommone, e li ha diretti verso il mare. Dopo solo un’ora di viaggio, ad aspettarlo in pieno mare un’imbarcazione a vela che lo ha riportato a terra. A capo dei pescherecci spesso rimane un rifugiato dotato di una formazione nautica rudimentale. A volte si riescono a reperire veri pescatori, egiziani o tunisini, che cercano semplicemente un mezzo per arrivare in Europa.

«Improvvisamente il mare e il cielo avevano lo stesso colore: il nero»
LA REALTÀ diventa così pesante che la maggior parte delle persone rimane seduta in silenzio. Troppo impauriti per parlare, per piangere, per gridare, per fare domande.
Poi il primo bip sul radar e Abdoulaye sale sulla nave bianca di soccorso. «Ho visto tute bianche protettive, caschi e giubbotti di salvataggio». Non sapeva chi avrebbe trovato, non sapeva che l’avrebbe visitato un medico, non sapeva che gli avrebbero dato da bere e da mangiare. Ci dice «grazie», l’aveva imparato in Mali dal suo telefono sequestrato dal contrabbandiere con l’AK-47 in Libia. È il grazie che ci ha fatto commuovere.

Il Manifesto “REPORTAGE. L’universo degli impauriti, a bordo delle navi da salvataggio” di Federica Iezzi

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Dal fronte al porto. I fantasmi di Mersin

Il Manifesto – 27/01/2015

Migranti. Sulla strada che conduce in Turchia (e oltre) chi fugge dall’orrore della guerra in Siria. La città dell’Anatolia meridionale è diventata uno dei principali punti di imbarco per migliaia di siriani che vogliono raggiungere l’Europa. Da qui prendono il mare vecchi mercantili senza pilota, stracarichi di disperati. L’ultimo business delle organizzazioni criminali che si arricchiscono con il traffico di uomini 

Mersin (Turchia) - Il porto di Mersin

Mersin (Turchia) – Il porto di Mersin

Reportage di Federica Iezzi*

Mersin (Turchia) 26/01/2015 – Non c’è più car­bone da bru­ciare nella tenda di Adnan B., che vive con la sua fami­glia nell’area attorno ad al-Raqqa, roc­ca­forte siriana dell’Isis. Sabeen, sua moglie, rac­co­glie senza fer­marsi le poche cose accu­mu­late in due anni. Coperte e vestiti per i cin­que figli, il più pic­colo, Firas, di soli 3 mesi. Adnan dice che pre­sto pro­ve­ranno ad attra­ver­sare la porta turco-siriana a Kilis. «Lì è più facile. 75 dol­lari a testa e i poli­ziotti tur­chi ti fanno entrare, senza fare domande». Poi in auto­bus fino alla città por­tuale turca di Mer­sin. Nei din­torni di Tar­tus li aspet­tano con i docu­menti e la pro­messa dei posti sul mercantile.

Adnan rac­conta che ha lavo­rato nelle raf­fi­ne­rie di petro­lio in mano allo Stato Isla­mico, a sud di al-Raqqa. I due figli più grandi hanno lasciato una scuola che non c’è più. Rac­col­gono pla­stica e allu­mi­nio sulle strade. Uno dei lavori più quo­tati tra i gio­va­nis­simi. «È in que­sto modo che siamo riu­sciti a met­tere da parte un po’ di soldi. Voglio che i miei figli stu­dino, così come ho fatto io nella mia Homs».

È così che ha ini­zio il lungo cam­mino di cen­ti­naia di rifu­giati siriani.

Seguiamo fino a Mer­sin sulla pol­ve­rosa D400, decine di camion cari­chi di merci, che ci tra­sci­nano age­vol­mente fino all’entrata del porto com­mer­ciale. Alti can­celli ne dise­gnano il peri­me­tro. Nes­suno, al di fuori delle merci, entra se non con per­messi o dopo ore di per­sua­sivi col­lo­qui, con la poli­zia che vigila i movi­menti. Al di fuori, un lun­go­mare albe­rato e ben curato sem­bra nascon­dere vite e desi­deri. Le voci dai mer­can­tili con­fer­mano i dati dell’Alto Com­mis­sa­riato delle Nazioni Unite per i Rifu­giati: da Mer­sin sono par­tite navi fan­ta­sma che hanno tra­spor­tato una parte dei 170 mila migranti arri­vati in Ita­lia negli ultimi 14 mesi. Il nuovo gioco dei traf­fi­canti è uti­liz­zare imbar­ca­zioni senza con­du­cente, su nuove rotte che pun­tano verso l’Europa. Ogni set­ti­mana si ripete lo stesso dramma della Blue Sky e della Eza­deen: navi uti­liz­zate per il tra­sporto di bestiame, inter­cet­tate dalle marine euro­pee, con la stiva carica di almeno 700 anime, in fuga dall’orrore della guerra in Siria.
Un gruppo di uomini siriani ormai da anni resi­denti in Tur­chia rife­ri­sce che Guven H., un turco di Tar­sus, fino a qual­che mese fa pia­ni­fi­cava le infi­nite tra­ver­sate a bordo di gom­moni e bar­che da pesca, fino alle coste senza legge della Libia, per siriani, afghani, paki­stani e ira­cheni. Oggi l’obiettivo è l’Europa.

In un quar­tiere non lon­tano dal lun­go­mare di Mer­sin, un’intera strada è fian­cheg­giata da sta­bi­li­menti diretti da siriani, che sono riu­sciti ad attra­ver­sare il con­fine di Mur­sit­pi­nar. Negozi di bar­bieri, generi ali­men­tari, risto­ranti, bar e ele­ganti edi­fici che ospi­tano scuole pri­vate e cen­tri comu­ni­tari. La stanza dove riceve Guven è lì.
Oggi per­so­naggi come Guven hanno uffici non molto lon­tani dal porto com­mer­ciale di Mer­sin. La chia­mano «zona dei grandi con­tai­ner». È al di là della strada del porto. Ed è qui che i siriani aspet­tano le pros­sime par­tenze. In alloggi di for­tuna, man­giando quello che tro­vano e dor­mendo su coperte ripo­ste disor­di­na­ta­mente, nei sac­chi che tra­spor­tano come bagagli.

Vicino i can­celli, pre­si­diati dalla poli­zia di fron­tiera turca, un siriano curdo di Kobane man­gia dolci fritti presi da un ambu­lante. È lui il con­tatto tra i rifu­giati siriani e il turco che orga­nizza i viaggi in mare nei mer­can­tili. Gli chie­diamo quando parte la pros­sima nave con i pro­fu­ghi siriani che va in Ita­lia. Risponde in un arabo sten­tato che non ci sono navi che vanno esclu­si­va­mente in Ita­lia, per­ché dai mer­can­tili le pic­cole imbar­ca­zioni ven­gono lasciate in mare e la rotta la deci­dono le onde. Non c’è chi conduce.

Qual è il prezzo che un bam­bino siriano deve pagare per scap­pare dalle bombe? E i docu­menti? Daman L., il curdo siriano di Kobane ci dice che «il viag­gio costa 4000 dol­lari e i bam­bini non pagano». Per i docu­menti il ser­vi­zio è com­pleto: i pas­sa­porti li pre­pa­rano loro per poco più di 1000 dol­lari. Gli chie­diamo ogni quanto tempo le navi par­tono. Ci risponde «Sem­pre». Nor­mal­mente i rifu­giati ven­gono tra­spor­tati attra­verso vec­chie chiatte sui grossi mer­can­tili, ormeg­giati a Mer­sin. Pos­sono aspet­tare lì anche giorni prima di sal­pare. Biso­gna arri­vare al numero giu­sto di per­sone per par­tire, altri­menti per i con­trab­ban­dieri di esseri umani le spese diven­tano troppe, rispetto alle entrate. E qual è que­sto numero giu­sto? «400–500». Per giorni la stiva della nave dun­que diventa una casa per i profughi.Vicino i can­celli, pre­si­diati dalla poli­zia di fron­tiera turca, un siriano curdo di Kobane man­gia dolci fritti presi da un ambu­lante. È lui il con­tatto tra i rifu­giati siriani e il turco che orga­nizza i viaggi in mare nei mer­can­tili. Gli chie­diamo quando parte la pros­sima nave con i pro­fu­ghi siriani che va in Ita­lia. Risponde in un arabo sten­tato che non ci sono navi che vanno esclu­si­va­mente in Ita­lia, per­ché dai mer­can­tili le pic­cole imbar­ca­zioni ven­gono lasciate in mare e la rotta la deci­dono le onde. Non c’è chi conduce.

Gli accordi sono che una volta entrati nelle acque ter­ri­to­riali di un Paese, il capi­tano e l’equipaggio del mer­can­tile siano tenuti a con­tat­tare le auto­rità della Marina locale, con una chia­mata di emer­genza, e poi deb­bano abban­do­nare l’imbarcazione carica di pro­fu­ghi alla deriva, con il pilota auto­ma­tico. Da quel momento non se ne curano più e que­gli otto chi­lo­me­tri dalla costa, fanno la dif­fe­renza tra la vita e la morte per cen­ti­naia di per­sone, per decine di bambini.

Le cifre uffi­ciali dell’ultimo anno par­lano di 20 mila rifu­giati siriani entrati in Tur­chia che allog­giano in 22 campi gover­na­tivi e in cen­ti­naia di campi spon­ta­nei, but­tati senza iden­tità e senza loca­liz­za­zione, lungo i 900 chi­lo­me­tri di con­fine turco-siriano.

Fame, povertà, alte tasse di loca­zione, sfrut­ta­mento del lavoro, nes­suna assi­stenza medica ne ser­vizi sco­la­stici: è que­sto che tro­vano i siriani in Tur­chia. E allora la solu­zione diven­tano vec­chie navi da carico o grossi cargo dismessi. I mezzi per il tra­sporto di migranti verso l’Europa. Nel solo mese di novem­bre, 3.000 siriani hanno rag­giunto l’Italia via mare, secondo l’Organizzazione inter­na­zio­nale per le migrazioni.

Le navi sta­zio­nano nei porti del sud-est della Tur­chia, ancora oggi punti di con­tatto con i tra­ghetti che par­tono dal porto di Lat­ta­kia, in Siria. Le rotte per l’Europa pas­sano via Cipro e Creta. L’obiettivo degli sca­fi­sti sono ancora di più i soldi e sfrut­tare le spe­ranze dei rifu­giati siriani, dimen­ti­cando solo, ma solo per ora, i migranti dell’Africa sub-sahariana.

*Car­dio­chi­rurgo pedia­tra impe­gnata nel volontariato

Il Manifesto 27/01/2015 “Dal fronte al porto. I fantasmi di Mersin” – Reportage di Federica Iezzi

Nena News Agency “Dal fronte al porto. I fantasmi di Mersin” – di Federica Iezzi

 

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