GAZA. Tra embargo e monopolio

Nena News Agency – 15 gennaio 2015

Sotto la supervisione delle Nazioni Unite, da Kerem Abu Salem (Kerem Shalom), unico valico commerciale di accesso a sud della Striscia di Gaza, entrano esclusivamente materiali israeliani. Il blocco di Gaza è anche un grande affare per le imprese israeliane

Rafah (Striscia di Gaza) - Il valico di Kerem Abu Salem

Rafah (Striscia di Gaza) – Il valico di Kerem Abu Salem

Testo e foto di Federica Iezzi

Gaza City, 15 gennaio 2015, Nena News  Controllati dall’assedio israeliano e dall’omertoso appoggio egiziano, i quasi 2 milioni di abitanti della Striscia di Gaza non conoscono importazioni ed esportazioni che non passino per le rigide restrizioni imposte dal governo Netanyahu. Dal valico di Kerem Abu Salem (Kerem Shalom), si vedono sventolare la bandiera dell’Egitto, quella palestinese e, dai camion carichi di materiali, quella israeliana. Crocevia di merci, prodotti, combustibile, alimenti e acqua, tutti a rigorosissimo marchio israeliano, il valico di ingresso sulla Striscia, è calpestato dalle ruote di decine di autocarri ogni giorno.

Dunque gli abitanti di Gaza hanno poca scelta: comprare acqua israeliana o non comprarla. La bottiglia piccola costa uno shekel (21 centesimi di Euro), la bottiglia grande due shekel. Venti litri di acqua provenienti dalle stazioni di filtrazione, distrutte dall’esercito di Tel Aviv durante l’offensiva militare della scorsa estate (“Margine Protettivo”), costavano ai palestinesi esattamente come una bottiglia da mezzo litro.  Costi elevati in un quadro generale, in cui le famiglie  bisognose di Gaza ricevono, dal Ministero degli Affari Sociali, poco meno di 1000 shekel (210 Euro) ogni tre mesi. Molte persone raggiungono il luogo di lavoro a piedi, camminando per più di 15 chilometri, perché pagare 4 shekel per prendere un taxi collettivo, è una spesa troppo alta per l’economia di una famiglia. Trovare alternative ai prodotti israeliani è estremamente difficile. Dopo “Margine Protettivo”, di fatto impossibile. Si compra l’acqua con l’etichetta israeliana, trasportata dai camion israeliani.

Lo scorso ottobre, a poco più di un mese  dalla fine dell’ultima offensiva militare, è iniziata la sfilata di autoarticolati israeliani carichi di materiali da costruzione, diligentemente in fila per entrare nella Striscia di Gaza. La storia si è puntualmente ripetuta. Dopo  l’offensiva “Piombo Fuso” tra il 2008 e il 2009 fu lo stesso. Dopo quella nota come “Pilastro di Difesa” del 2012, fu lo stesso.

Sono entrate in quei giorni 600 tonnellate di cemento e ghiaia, camion carichi di ferro e di acciaio. Tutto materiale proveniente da Israele sottoposto ad un meccanismo di controllo attuato da rappresentanti delle Nazioni Unite. Garanzia perché i materiali non vengano consegnati a rappresentanti di Hamas, per la costruzione di nuovi tunnel. Garanzia, dice il governo Netanyahu, per la sicurezza dello Stato di Israele.

Oggi come in quei giorni i materiali da costruzione entrano all’ombra, si fa per dire, delle circa 18.000 case distrutte o severamente lesionate e le 32.150 parzialmente danneggiate. Cemento portland, calcestruzzo, cavi di acciaio, prodotti per isolamento termico e asfalto sono alcuni dei materiali che compaiono nella lista, redatta lo scorso anno dal Ministero della Difesa israeliano, il cui ingresso è proibito a Gaza. Un sacco di cemento da 50 kg che entra da Israele viene pagato dagli abitanti di Gaza 120 shekel. Quando il prezzo di mercato è di circa 7 dollari e mezzo.

Sotto il benestare delle Nazioni Unite, tra monopolio e embargo, i residenti di Gaza sono costretti ad acquistare i materiali di ricostruzione da fornitori israeliani designati: Nesher, Readymix e Hanson. Compagnie con sede a Tel Aviv e Ramat Gan, coinvolte peraltro nella costruzione di insediamenti illegali in Cisgiordania. Alternativa è aspettare il trasferimento dei materiali da costruzione che provengono, a prezzi esorbitanti, dal porto di Ashdod, per mezzo dell’unica società israeliana autorizzata la Taavura Holdings, tra l’altro di proprietà della Nesher.

L’unica magra consolazione per i lavoratori della Striscia di Gaza sarebbe l’esportazione dei prodotti agricoli e quelli della pesca, esclusivamente nella aree palestinesi della Cisgiordania, solo tramite società israeliane. Naturalmente i contadini palestinesi devono pagare per i cartoni e i contenitori prefabbricati israeliani e per il carburante utile al trasporto, prima che il processo di esportazione addirittura inizi. I prodotti alimentari non escono dalla Striscia da almeno cinque anni. Chili di merci vengono sistematicamente sequestrati e distrutti, sotto il pretesto che non soddisfano i criteri di Israele, causando enormi perdite ai commercianti palestinesi.

Ogni anno Gaza acquista da Israele il 90% di tutti i beni esteri presenti nella Striscia. Senza nessuna reciprocità. Prima di “Margine Protettivo”, si muoveva dalla Striscia appena il 2% di articoli palestinesi.

Gli agricoltori hanno difficoltà nella cura di frutta e verdura, perché mancano i fertilizzanti e quelli che arrivano attraverso Abu Salem, sono costosi. In più non entrano nella Striscia quelli con concentrazione di potassio superiore al 5%. Quindi la gente è obbligata a comprare la frutta e la verdura che arriva direttamente da coltivazioni israeliane. 10 shekel per due chili di frutta (l’equivalente di due euro). Il costo di un chilo di arance nel vicino Egitto, oscilla tra 1 e 2 egyptian pounds, l’equivalente di 20 centesimi di euro al massimo.

La maggior parte delle imprese manifatturiere è stata costretta alla chiusura a causa sia del divieto di esportare e sia della scarsità di importazioni di beni di consumo. Senza contare le tante fabbriche distrutte dai bombardamenti israeliani della scorsa estate. Non entrano a Gaza peraltro tessuti contenenti fibre di carbonio o tessuti di polietilene. Nena News

Nena News Agency “Gaza. tra embargo e monopolio” – di Federica Iezzi

“I camion di Kerem Abu Salem” – Reportage di Federica Iezzi

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GAZA. Ospedali sotto le bombe

Gaza City (Striscia di Gaza) 28 luglio 2014 – Al-Shifa hospital dopo il bombardamento israeliano che ha ucciso 10 bambini

 

Nena News Agency – 28 luglio 2014

 

Nella Striscia di Gaza devastati ospedali, ambulanze, servizi e forniture mediche. Colpito duramente il personale sanitario che continua, senza sosta, a curare feriti e a strappare alla morte centinaia di civili 

 

 

Striscia di Gaza - Ospedale di Beit Hanoun -

Striscia di Gaza – Ospedale di Beit Hanoun –

 

di Federica Iezzi

Khan Younis, 28 luglio 2014, Nena News – E’ il ventesimo giorno dall’inizio dell’attacco israeliano a Gaza. Il numero di palestinesi uccisi supera i 1000, per lo più civili. Almeno 194 sono bambini. I morti nelle fila dell’esercito israeliano sono 43. I feriti palestinesi sono più di 6.000 e continuano drammaticamente ad aumentare. Almeno 1300 sono bambini. Più di 165.000 i profughi.

Sabato, durante la tregua umanitaria di 12 ore – che  pareva prolungata a 24 – sono stati recuperati almeno 151 corpi carbonizzati dai bombardamenti, schiacciati sotto grigi edifici distrutti, mutilati e insanguinati. Molti di questi sono stati rinvenuti nel quartiere di Shujaya, zona est di Gaza City e nel villaggio di Khuza’a, a sud della Striscia. Continua l’incessante lavoro del personale sanitario, privo di alcuna protezione.

Secondo il Ministero della Salute palestinese dei 13 ospedali presenti nella Striscia di Gaza, 6 sono stati obiettivi dei bombardamenti indiscriminati e sono oggi danneggiati. Ventisei tra servizi medici, ambulanze, cliniche e ospedali maggiori sono stati oggetto della furia israeliana.

Dall’inizio dell’offensiva israeliana via terra, l’ultimo a essere colpito in ordine di tempo è stato l’ospedale di Beit Hanoun, a nord della Striscia. Dopo i bombardamenti di giovedì sulla scuola dell’UNRWA che accoglieva profughi palestinesi, venerdì anche il nosocomio è stato investito dai colpi dei carri armati israeliani. Al suo interno sono rimasti bloccati pazienti, civili e 61 persone dello staff medico. L’ospedale è stato parzialmente evacuato, mentre l’esercito israeliano circondava le aree limitrofe. Ieri è stata colpita un’altra ambulanza: è morto un paramedico e un altro è gravemente ferito.

Nella notte tra giovedì e venerdì è stato bombardato anche l’ospedale pediatrico al-Durrah  a Gaza City. E’ morto un bambino di due anni, già severamente ferito, in trattamento nel reparto di terapia intensiva. E i feriti sono stati almeno 30.

Giovedì della scorsa settimana, dopo l’attacco aereo israeliano, è stato completamente evacuato il centro ospedaliero geriatrico e di riabilitazione al-Wafa, nel quartiere di Shujaya. Mercoledì è stato interamente distrutto dalla pioggia di missili israeliani. Il bilancio è stato di almeno 7 cliniche mediche lesionate, 5 membri dello staff sanitario uccisi e altri 13 feriti.

Nei giorni passati è stata colpita da ininterrotti bombardamenti – insieme a 12 ambulanze – la clinica medica al-Atatra, nell’omonimo quartiere di Beit Lahiya, a nord di Jabaliya. E’ stato attaccato per la seconda volta l’ospedale Balsam, a nord della Striscia.

Lunedì scorso i carri armati hanno devastato l’ospedale al-Aqsa, a Deir al-Balah, nel centro della Striscia di Gaza, provocando la morte di almeno 5 persone e il ferimento di più di 50 civili. E’ stato danneggiato e reso inutilizzabile il sistema di erogazione di ossigeno dell’ospedale.

I bombardamenti non sono stati preceduti da nessun avvertimento.

L’evacuazione di molti ospedali causa l’inevitabile sovraffollamento di altri: è il caso dell’ospedale Nasser a Khan Younis, che lotta ogni giorno per far fronte alle centinaia di feriti che si riversano come fiumi nel pronto soccorso.

Nell’European Gaza Hospital di Khan Younis, a sud della Striscia di Gaza, le notti diventano sempre più difficili. Il rumore assordante delle esplosioni e l’odore amaro della polvere da sparo riempiono la porta del pronto soccorso. Molte famiglie dormono nelle aree circostanti l’ospedale. Tutti i letti della terapia intensiva generale sono occupati, molti da donne e bambini. Il personale sanitario si avvicenda con turni di 24 ore. L’ospedale è senza elettricità e senza acqua per la maggior parte della giornata. Le sale operatorie sono state parzialmente lesionate da colpi di artiglieria, ma riescono ancora a rimanere funzionanti. La mancanza di farmaci essenziali e di forniture mediche ha raggiunto livelli critici. Pericolosi e senza copertura gli spostamenti delle ambulanze e del personale sanitario, che avvengono solo prima delle 11 di mattino, diventati, contro ogni norma del Diritto Internazionale Umanitario, target delle bombe israeliane.

Venerdì l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha chiesto la possibilità di aprire un corridoio umanitario, per consentire l’ingresso di materiale sanitario nella Striscia di Gaza e per permettere l’evacuazione di feriti. Soltanto 61 feriti hanno avuto il permesso di attraversare il valico di Rafah, al confine con l’Egitto. E’ rimasto aperto venerdì e sabato il valico di Kerem Shalom, al confine tra Striscia di Gaza, Israele ed Egitto, per l’ingresso di aiuti umanitari. Nena News

 

Nena News Agency “GAZA. Ospedali sotto le bombe” – di Federica Iezzi

 

 

 

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Dall’altra parte del muro

LiberArt – 07/04/2014

 

Missione di cardiochirurgia 

European Gaza Hospital – Khan Younis (Striscia di Gaza)

 

Erez crossing

Erez crossing

 

Khan Younis (Striscia di Gaza) – Quando si sente parlare al telegiornale della Striscia di Gaza, si pensa ad una sorta di Stato.
In realtà è solo un banda di terra incarcerata acutamente tra il blu cobalto del cielo e la salmastra aria marina, le continue violazioni israeliane e i muri egiziani aperti per pochi giorni all’anno. E’ lunga 41 chilometri e larga tra i 6 e i 12 chilometri, dove vivono quasi 2 milioni di persone. Prima di entrare nel terreno di Gaza, pini marittimi, ulivi e palme, immersi in macchie tinteggiate di alberi di mandarino, nascono dalla nuda roccia.
Il sole è cristallino e il cielo è terso. Le case sono basse e sono costruite di bianca pietra granitica.
I cartelli stradali sono più larghi perchè devono contenere le indicazioni in ebraico, in arabo e in inglese. Le persone sono separate da muri e idee.
L’avvolgente inferriata si prolunga dritta e abbandonata nella terra di nessuno arsa e sabbiosa, senza più coltivazioni di datteri, dalla quale osservi e ti senti osservato.
Dall’altra parte del muro. Dentro, la vita è difficile. Non c’è lavoro. Non c’è comunicazione con il mondo.
C’è chi affida il suo pensiero a Internet. Sembrano tutti imprigionati nella loro terra, nelle loro case, nei loro pensieri, nelle loro lotte.

Bisogna farsi bastare l’elettricità per più o meno otto ore al giorno. La rete elettrica di Gaza riceve 160-170 megawatt a fronte di un fabbisogno di 300-350.
Sentire esplosioni sui confini israeliani e egiziani è tutt’altro che raro. Erez, Nahal Oz, Karni, Sufa, Kerem Shalom e Rafah non sono solo punti di ingresso e uscita da questo lembo di terra. Si trasformano repentinamente in teatri di violenze.
Gli uomini non possono nemmeno dare la mano alle donne come saluto. E’ questa la scuola di pensiero sunnita della salafiyya.
La religione non permette contatti fisici tra uomini e donne a meno che non si parli di persone sposate tra loro.
I pescatori palestinesi sono liberi di navigare con i loro modesti pescherecci fino a 3 miglia dalla costa dei territori palestinesi. Ad aspettarli motovedette israeliane, pronte a far fuoco su chi oltrepassa la tenace linea immaginaria che separa Israele dalla Palestina.
Eppure si vede una bellezza con cicatrici profonde, soffocata dalle macerie e ostacolata da muri sotterranei che attraversano la solitudine. E’ concretizzata dalla vita, dalle storie e dai ricordi della gente.
La gente è in gran parte gentile. Come da tradizione araba danno il benvenuto agli stranieri con una tazza calda di tè. Il cibo è semplice e invitante.
I falāfil, polpette fritte e speziate a base di legumi, quali fave, ceci e fagioli tritati con sommacco, cipolla, aglio, cumino e coriandolo, vengono serviti con l’hummus, una salsa a base di pasta di ceci e tahineh (pasta di semi di sesamo) aromatizzata con olio di oliva, aglio e semi di cumino in polvere e prezzemolo finemente tritato.
La quedra, un piatto a base di riso e pollo si consuma con l’immancabile marqūq, la focaccia di pane schiacciata tipica dei paesi arabi.
A dipingere il traffico di Khan Younis sono le poche auto e i carretti straripanti di frutta e verdura trainati da muli o da cavalli smagriti.

Le strade asfaltate sono coperte di sabbia. L’arabeggiante suq domina le strade e i vicoli di Gaza.
Si compra e si scambia ogni tipo di oggetto, dalle kefiah alle ciambelle di pane e sesamo. Le case quadrangolari sono fatte di grossi mattoni. Su molte manca l’intonaco. E’ tutto in costruzione e tutto sembra lasciato a metà.
Le moschee riempiono l’aria. L’adhān del muʾadhdhin segna e scandisce dettagliatamente i frammenti di ogni giornata. Allāhu Akbar. Ašhadu an lā ilāh illā Allāh. Ašhadu anna Muḥammadan Rasūl Allāh. Ḥayya ʿalā al-salāt. Ḥayya ʿalā l-falāḥ. Allāhu Akbar. Lā ilāh illā Allāh. La stessa voce stentorea echeggia per le cinque ṣalāt giornaliere, in luoghi in cui il tempo non conta.
I bambini giocano scalzi, sul terriccio davanti le case. Fanno colazione per strada con frutta o con piatti colmi di ceci.
Le bambine più grandi portano già l’hijab per coprire la testa. All’uscita di scuola indossano tutte il velo bianco e si incamminano a piedi verso le loro case e le incombenze famigliari che le aspettano. Le donne indossano il niqab nero, altre coprono solo la testa con colorati chador. E’ una scelta del padre, del fratello, del marito, dell’uomo.
Si vive nei crateri intervallati da ferraglie accatastate, nelle tormente di sabbia. Il paesaggio cambia giorno dopo giorno.
Cambiano le forme e i colori. Si sciolgoo i nodi di una bandiera invisibile.
I genocidi riconosciuti dalla comunità internazionale sono quattro: Metz-Yeghern, Shoah, Cambogia, Rwanda.
E dove sono: Darfur (totale delle morti, durante più di tre anni di conflitto: 450.000), eccidio di Srebrenica (massacro di oltre 8 mila musulmani bosniaci)? E dove sono, per non parlare di tanti altri, i territori palestinesi?

 

LiberArt “Dall’altra parte del muro” – di Federica Iezzi

 

 

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