Il nuovo Iraq che non ha posto per i cristiani

Nena News Agency – 06 agosto 2015

Da più di un milione, oggi la popolazione cristiana in Iraq arriva appena a 300 mila anime. ISIS e sostegno straniero le cause di un eccidio silenzioso 

An Iraqi Christian child rests on a phew inside the Church of the Virgin Mary in the town of Bartala, on June 15, 2012, east of the northern city of Mosul, as some Iraqi security remain in the town to protect the local churches and community.  The exiled governor of Mosul, Iraq's second city which was seized by Islamist fighters last week, has called for US and Turkish air strikes against the militants.  AFP PHOTO/KARIM SAHIB

di Federica Iezzi

Baghdad, 6 agosto 2015, Nena News – Le perplessità dei cristiani da Mosul a Qaraqosh sono le stesse. Quale sarà il nostro futuro qui? Come possiamo convincere i nostri giovani a rimanere nel loro Paese? Come possiamo ricostruire le nostre case? Come possiamo avere indietro il nostro lavoro? Da più di un milione, oggi la popolazione cristiana in Iraq arriva appena a 300 mila anime.

“I jihadisti dello Stato Islamico, i sunniti più estremisti, agli ordini di al-Baghdadi possono essere fermati oggi solo da una reazione dei sunniti moderati, in Medio Oriente” ci dice un sacerdote secolare siro-cattolico dell’arcieparchia di Hassaké-Nisibi.

Lo Stato Islamico autonominato non è nato nel vuoto. Si è nutrito di città sunnite una dopo l’altra, del sostegno delle popolazioni sunnite che subirono brutali rappresaglie settarie dal governo di al-Maliki, appoggiato dagli Stati Uniti. La storia dell’Iraq non è legata all’ISIS, ma è quella di una guerra faziosa eternamente in corso tra musulmani sunniti e sciiti.

Quando i combattenti dell’ISIS presero il controllo di aree sunnite nell’Iraq occidentale un anno fa, incoraggiarono violenza e rabbia contro il governo sciita di Baghdad, al potere dal 2003. Per i sunniti e l’ISIS, il governo di Baghdad è stato un nemico comune. Si creò un matrimonio di necessità. Oggi attriti e crepe si rincorrono nel rapporto ISIS-sunniti per le pesanti richieste di fedeltà del Califfato nero e l’assillante esigenza di attuare la shari’a.

La dottrina fondamentalista sunnita è complice dunque nell’eccidio dei cristiani in Iraq. Terreno fertile coltivato poi dalla legge dell’ISIS. Non sono consentiti simboli cristiani. Introdotta la “tassa religiosa”, obbligatoria ai non musulmani. Le case dei cristiani a Mosul sono marchiate dalla lettera araba N (nun) che sta per ‘Nasara’ (nazareni). I luoghi di culto oggi sono cenere. Conversione, fuga o morte. E’ questo che potevano scegliere i cristiani nel nord dell’Iraq. “I cristiani in Iraq, per ironia della sorte, si sentivano più sicuri sotto Saddam Hussein” racconta avvilito padre Issah, il sacerdote siro-cattolico.

Quando qualche mese fa Rahel tornò nella casa dove viveva a Tel Tamar, nel nord-est della Siria, trovò davanti la sua terra un cartello che diceva ‘Proprietà dello Stato Islamico’. L’ISIS ha preso il controllo delle città cristiane, a maggioranza curda, nella valle del fiume Khabur, lo scorso giugno. A febbraio centinaia di cristiani sono stati costretti a lasciare i propri villaggi per le violente incursioni del gruppo estremista nelle aree di al-Hasakah e Qamishli. Si sono susseguiti sanguinosi assedi. La gente era affamata, le case bruciate, le chiese profanate e saccheggiate, i figli mutilati e i feriti trascinati lontani dalle granate. I miliziani hanno nascosto mine nelle case, nelle fattorie, nei campi e nelle antiche rovine cattoliche. I risultati sono stati: l’uccisione di più di due dozzine di civili, il sequestro di circa 300 e la fuga di almeno 2.500 persone.

Costretti a lasciare le proprie case e passare anni in campi profughi, i cristiani di Siria e Iraq restano nel mirino dei gruppi jihadisti. Circa 200 mila cristiani iracheni hanno trovato rifugio in Kurdistan. Almeno 138 mila cristiani siriani hanno oggi lo status da rifugiato in Libano e paesi limitrofi.

In città come Aleppo i cristiani imbracciano le armi contro i ribelli dell’Esercito Siriano Libero. In altre, combattono contro i jihadisti dell’ISIS a fianco dei peshmerga curdi ad Arbil in Iraq, o dell’Esercito Nazionale Siriano ad al-Hasakah, in Siria. Comunità decimate e in frantumi in mezzo al lungo conflitto in Siria, e nella terra dello Stato Islamico di Mosul e della piana di Ninive in Iraq.

La maggior parte dei siriani siriaci sostiene il governo di al-Assad. “I ribelli locali, perfidamente spalleggiati dal governo turco, hanno interamente distrutto case e chiese cristiane in villaggi come Kassab, nella provincia di Latakia, Maaloula, a nord-est di Damasco, Homs e non certo come danni collaterali da colpi lanciati contro le forze governative. L’esercito di Damasco ha ripreso il controllo di città cristiane, come prova della determinazione di al-Assad di proteggere le minoranze religiose”, ci dice esaltato Ouseph. E continua “Dall’altra parte non c’è opposizione democratica, solo gruppi estremisti. Nè Daesh nè ribelli sono i nostri vicini islamici con cui abbiamo convissuto serenamente per anni”.

Yacoubieh è un villaggio a maggioranza cristiana nella provincia nord-occidentale di Idlib, sotto il controllo dei miliziani di Jabhat al-Nusra, braccio siriano di al-Qaeda, da quando all’inizio di quest’anno sono state allontanate le forze di regime. “I nostri figli sono senza cibo, acqua e medicine. Non c’è elettricità per 15 ore al giorno”, ci raccontano le voci dei frati francescani, dal convento colpito da un missile solo una settimana fa. Limitati da posti di blocco militari gli ingressi e le uscite ai quartieri. “Annientare chiese e monasteri, rapire ecclesiastici, affamare la popolazione sono solo alcuni dei crimini che i ribelli commettono contro la comunità cristiana di Siria e Iraq”, continuano.

I cristiani hanno camminato per le strade irachene e siriane per più di mille anni. Oggi c’è silenzio. Ogni strada è deserta. Case e beni abbandonati alle depredazioni anti-governative che Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Israele, Arabia Saudita, Qatar, Turchia e i loro alleati sostengono. Nena News

Nena News Agency “Il nuovo Iraq che non ha posto per i cristiani” di Federica Iezzi

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Il confine tra Siria e Turchia: la terra di nessuno

Nena News Agency – 11 dicembre 2014 

Nonostante Ankara dica di non armare i ribelli siriani, i combattenti jihadisti sostengono di ricevere finanziamenti da ricchi siriani o arabi del Golfo con la complicità turca. La guerra siriana ha sconvolto, ma non estinto, il commercio spesso illegale con la Turchia

Syrians within a group of refugees wait near the Turkish-Syrian border after fleeing Syria, near Sanliurfa

Syrians within a group of refugees wait near the Turkish-Syrian border after fleeing Syria, near Sanliurfa

di Federica Iezzi

Al-Hasakah (Siria), 11 dicembre 2014, Nena News – Ai checkpoint da Mursitpinar a Reyhanli, all’inizio della terra di nessuno, lungo tutto il confine turco-siriano, funzionari turchi in alta divisa e dall’aria seriosa spiegano alle centinaia di persone in coda che solo a siriani, rifugiati registrati o titolari di passaporti stranieri anche se nati in Siria, è permesso entrare. La maggior parte dei checkpoint non è contrassegnato nelle cartine. E’ solo disegnato attorno a torri circondate di filo spinato. Durante i tre interminabili anni di conflitto che hanno divorato la terra siriana, i posti di blocco sono stati tunnel naturali per l’entrata di armi e dei combattenti stranieri che si sono uniti ai gruppi di ribelli siriani. In particolare all’Esercito Siriano Libero guidato strategicamente da Riyad al-Assad, la cui roccaforte è in Turchia, da sempre sostenitrice delle milizie anti-governative siriane.

Di recente i cancelli turchi erano diventati un passaggio facilitato per i jihadisti dell’ISIS, quelli stranieri provenienti dai Paesi Europei. Dopo anni di tolleranza a traffici di combattenti e all’apertura illimitata dei confini, la Turchia di Davotoglu oggi sembra aver intensificato sulle linee di confine pattuglie, posti di blocco e recinzioni. Molti tra i rifugiati siriani nei campi di Suruc, Habit e Sanliurfa, mi raccontano che hanno attraversato il confine turco grazie a contrabbandieri che traghettavano la gente avanti e indietro per la modica somma di 70 dollari a persona. Stessa sorte per i combattenti feriti portati nelle strutture sanitarie siriane, in particolare nella zona di Aleppo. Negli ospedali siriani, ormai distrutti e senza materiali, se sei un combattente dell’ISIS o delle altre decine di gruppi e fronti jihadisti non fa molta differenza. Paghi e entri in Turchia. Questo il racconto di Nassan. Ribelle ferito ritrovato in uno degli improvvisati ospedali da campo di confine. Nassan sostiene che a Oncupinar, nel centro-sud della Turchia a un’ora di macchina da Aleppo, è stato facile corrompere con 25 lire turche (poco meno di 14 dollari) un agente turco per arrivare a Kilis. Un infermiere mi dice che combatteva per l’ISIS. Per quelli che hanno passaporto straniero bastano invece 25 dollari per il passaggio immediato. Il funzionario turco di turno suggerisce luogo e ora e dà garanzia di una macchina sul lato siriano. Nella provincia di Idlib non c’è nessun controllo di frontiera. Uomini con passaporto siriano sono ancora in grado di attraversare legalmente e facilmente il territorio dello Stato Islamico così il movimento illecito di esseri umani continua fra gli uliveti e i terreni agricoli di Aleppo, al-Raqqa e Deir Ezzor. Ne è un esempio il checkpoint di Akçakale (sud-est della Turchia) da dove sono transitati centinaia di combattenti dell’ISIS.

Tranne che per i valichi di frontiera ufficiali tra Siria e Turchia, è quasi impossibile il controllo su tutti i 911 chilometri di confine. I contrabbandieri hanno negli anni elaborato percorsi sicuri nei campi dove sono disseminate 650.000 mine. Storiche vie di contrabbando lungo i confini iracheni, iraniani e siriani, topografia e condizioni meteorologiche, hanno facilitato la poca sicurezza e l’esiguo controllo delle frontiere. In Turchia la supervisione delle dogane non è affidata ad un unico corpo. Si passano la palla esercito, polizia di stato e polizia doganale. I commerci abusivi non risparmiano materiali e carburanti. Camion carichi di ferro e cemento aspettano ogni giorno di entrare in Siria davanti ai cancelli di Reyhanli e Kilis. Aiuti umanitari che cadono nelle mani dei membri dell’Esercito Siriano Libero e vengono rivenduti ripetutamente al doppio del prezzo ai commercianti turchi.

Il mercato di carburanti è fiorente in direzione Siria-Turchia attraverso una rete ben costruita, ed evidentemente ben conosciuta, di tubi sotterranei. Ai militanti siriani frutta almeno un milione e mezzo al giorno di dollari. Il governo turco quest’estate ha distrutto 320 tubi adattati ad oleodotti artigianali nell’area di Hacipasa. I trafficanti lavorano indiscriminatamente con i guerriglieri dell’ISIS. Un barile di petrolio, il cui prezzo al mercato vale anche 100 dollari, può essere scontato fino al 75 per cento. Il greggio viene trasportato in Turchia via Mosul. La confusione burocratica e la sicurezza dei confini turco-siriani si sono riaccese a Kobane. Con il consumarsi della guerra civile in Siria e l’instabilità politica in Iraq, non sembrano più esistere linee demarcate di confine. Solo mondi paralleli che si incrociano quando spinti da interessi comuni. Nena News

Nena News Agency “Il confine tra Siria e Turchia: la terra di nessuno” – di Federica Iezzi

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VIDEO. Nelle strade di Kobane

Nena News Agency – 27 novembre 2014

Nena News vi offre un altro documento filmato eccezionale. Le immagini girate dalla nostra collaboratrice Federica Iezzi all’interno della città curda sotto assedio dei jihadisti dello Stato Islamico 

di Federica Iezzi

Kobane , 27 novembre 2014,  Nena News – Siamo a Kobane. Dal settembre scorso, simbolo e arena di scontri tra i jihadisti dello Stato Islamico dell’Iraq e della Siria, che seguono pedissequamente il programma di avanzata, e i combattenti curdi dell’Unità di Protezione Popolare.

Secondo i dati dell’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani le vittime sono ormai salite a quasi 1200.

Le porte di Kobane sono custodite dai mortai. Fuoristrada grigi scuri, con le bandiere nere dello Stato Islamico tatuate sulle porte e con MG30 al seguito, sfrecciano ferocemente sulla Halnaj-Kobani, strada a sud-est della città. C’è chi ancora non vuole lasciare la casa dove è cresciuto e le strade dove correva da bambino.

La quotidiana pace di Kobane, si è trasformata nel fragore dei proiettili che crivellano gli edifici crollati, delle auto bruciate, degli spari e delle esplosioni. E la battaglia non accenna a finire: giochi di controllo di strade ed edifici continuano nella zona a sud-est.

Angoli senza luce, sono il teatro distrutto e asserragliato di una città diventata un forte militare. Non ci sono più ospedali pubblici funzionanti e le scorte di medicine stanno finendo. Svuotati i negozi di alimenti e bevande per i combattenti e per i civili. Lungo le strade dritte ed infinite spesso non si incontra nessuno.

Le vie sono piene di buche, di mucchi di spazzatura e di macerie. Sono pattugliate da soldati a volte nemmeno riconoscibili dalle uniformi. Volti incorniciati da una folta barba, muscolosi ma zoppicanti. Le serrande sono abbassate, le porte e le finestre scure sono chiuse sul mondo. Nena News

Nena News Agency “VIDEO. Nelle strade di Kobane” – di Federica Iezzi

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FOTO. Nena News dentro Kobane

Nena News Agency 20 novembre 2014

La nostra agenzia vi offre un documento eccezionale. Le foto scattate dentro la città kurda assediata dai jihadisti dell’ISIS dalla nostra collaboratrice, Federica Iezzi

Kobane

Kobane

di Federica Iezzi

Kobane (Siria), 20 novembre 2014, Nena News Kobane è una città percossa furiosamente da proiettili, spari, colpi di mortaio e bombardamenti. L’aria odora di polvere da sparo. Il cielo è coperto da nuvole nere di fumo. Le strade coperte di detriti, schegge e crolli. Ma molti civili non hanno ancora abbandonato Kobane.

Almeno 500-700 persone hanno deciso di non lasciare la città. E sono per lo più anziani. Anziani che siedono sui gradini delle strade deserte e portano, sulle spalle curve, vecchi fucili.

Alcune famiglie hanno figli e figlie che combattono nell’Unità di Protezione Popolare, la milizia di autodifesa curda, e dunque rimangono nelle loro case, ad aspettare la fine dell’assedio dei jihadisti dell’ISIS. Mentre migliaia di persone sono in attesa sul confine turco-siriano di Mursitpinar. Sperano nella via di fuga dei campi rifugiati.

I jihadisti oggi controllano circa il  25% della città, ma la vita dei civili curdi nel resto di Kobane resta estremamente difficile,  tra rabbia, incertezza  ma anche tanta fierezza. Nena News

Nena News Agency “FOTO. Nena News dentro Kobane” – di Federica Iezzi

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Abdel Basset Sayda: assicurare aiuti continui a combattenti kurdi

Nena News Agency – 30 ottobre 2014

 

INTERVISTA. Nato ad Amuda, nel governatorato di al-Hasakah, nel 1956, Abdulbaset Sieda (in curdo Abdel Basset Sayda), leader curdo siriano è stato in esilio in Svezia. Poi è tornato a combattere per l’autodeterminazione curda. Oggi a devastare la sua terra è lo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS) 

 

Abdulbaset Sieda (cente) - Last leader of the Syrian National Council

Abdulbaset Sieda (cente) – Last leader of the Syrian National Council

di Federica Iezzi

 

Quali sono gli ultimi aggiornamenti da Kobane?

L’attuale situazione a Kobane è molto grave. L’ISIS ormai da più di un mese assale barbaramente interi quartieri della città, per ottenerne il completo controllo. Allo stesso tempo, sopravvive l’insistenza da parte dei combattenti dell’Unità di Protezione Popolare, di opporsi fino all’ultimo respiro. I raid aerei della coalizione internazionale, condotti nei giorni scorsi, sono risultati in incursioni di successo su strategici siti Daash (in arabo lo Stato Islamico, ndt). Questo ha contribuito notevolmente ad impedire l’avanzata su Kobane dei combattenti jihadisti. E in molti luoghi addirittura si è assistito ad una loro ritirata. Kobane è attualmente il simbolo dei curdi siriani. La caduta della città potrebbe avere come conseguenza diretta, il convincimento popolare della mancanza di serietà della campagna internazionale contro il terrorismo. I combattenti curdi dell’YPG, che stanno difendendo la città ormai da settimane, hanno mostrato una resistenza eroica e stabile. Continua intanto il desiderio di molti giovani curdi di unirsi alle fila dell’Unità di Protezione Popolare.

 

Molti combattenti si sono uniti alla YPG, dopo l’inizio dell’offensiva su Kobane. Cosa si aspetta il popolo curdo dalla coalizione internazionale?

Confidiamo anche negli attacchi aerei della coalizione internazional, per ottenere il ripiegamento dell’ISIS da Kobane. C’è ancora forte necessità di armamenti, munizioni, materiale logistico e forniture mediche. Tutto ciò dovrebbe essere assicurato ai combattenti curdi continuativamente.

 

Cosa potrebbe realmente creare l’ISIS in Medio Oriente?

Lo Stato Islamico rappresenta un terrorista legittimo e brutale. Contraddice assolutamente il progetto di democrazia nazionale, per il quale più di tre anni fa scoppiò la guerra civile in Siria. L’ISIS non minaccia solo la Siria, ma l’intera regione mediorientale. In breve tempo, a subire il potere dell’ISIS, potrebbero essere Iraq, Libano e Turchia, a causa dei turbinosi rapporti con la politica interna, delle numerose e diverse etnie di cui è composta la popolazione. L’ISIS misura il suo vigore con la destabilizzazione di sicurezza e stabilità in un Paese. In questo caso di tutto il Medio Oriente. Uno degli effetti visibili al mondo è l’ondata di rifugiati verso l’Occidente. Legato a questo fenomeno, oggi iniziano a prendere forma e vita una serie di piccole operazioni di estremismo religioso, destinate a crescere, portate avanti proprio dai membri di quelle comunità strappate violentemente alla loro terra.

 

Parliamo della situazione di tutta la popolazione siriana, i più giovani, i più piccoli sono le prime vittime della guerra civile. Cosa pensa della condizione dei bambini costretti a lavorare?

Il fenomeno del lavoro minorile è fuori da ogni standard civile. I bambini che entrano nel mercato del lavoro, al fine di garantire il raggiungimento delle esigenze di una famiglia, sono forzatamente costretti ad abbandonare l’istruzione. Nello stesso tempo sono esposti a violenze psicologiche e fisiche, come risultato di azioni che non sono commisurate all’età. Il futuro più prossimo è quello della comparsa di una serie di mali sociali. Il fenomeno del lavoro minorile inoltre acuisce il già alto tasso di disoccupazione. E molti dei giovani disoccupati iniziano a spendere il loro tempo nelle reti di gruppi estremisti.

 

Molte scuole siriane sono state danneggiate dagli scontri interni, altre vengono oggi usate come sistemazioni per i rifugiati interni siriani. Pensa che la mancanza di un organizzato sistema di istruzione, incoraggi il lavoro minorile?

L’istruzione in Siria non può attualmente raggiungere tutti gli studenti, a causa della distruzione di un gran numero di edifici scolastici. Gran parte degli edifici rimasti in piedi si sono trasformati in rifugi per gli sfollati, fenomeno che porta ad aggravare, già l’enorme problema. Fornire istruzione a questi bambini è importante, ma non sufficiente. L’allarme potrebbe essere arginato agevolando l’attività lavorativa dei genitori e consentendo loro di ottenere i requisiti di base per vivere e per mandare i figli a scuola.

 

Ci sono milioni di siriani che vivono come rifugiati nei Paesi limitrofi? Sono davvero sfruttati e sottopagati?

I rifugiati siriani che vivono nei paesi confinanti con la Siria, sopportano una vera tragedia a causa delle dure condizioni di asilo. A questo si aggiungono le inclinazioni negative che iniziano ad emergere da parte dei cittadini dei Paesi limitrofi, verso i rifugiati siriani. I rifugiati siriani sono costretti allo sfruttamento come conseguenza di un lavoro abusivo, non regolarizzato. E i salari sono sproporzionatamente inferiori, rispetto ai duri sforzi che stanno vivendo.

 

Pensa che un giorno i rifugiati siriani possano tornare nella loro terra e vivere una vita senza guerra?

Questa guerra deve finire, non importa come e quando. Si deve lavorare ad una soluzione politica. E qualsiasi soluzione non sarebbe corretta se non prendesse in considerazione la questione del ritorno dei profughi, consentendo loro di ripartire da zero nella loro vita quotidiana. Se le cose dovessero continuare in questo modo, il numero delle vittime crescerà esponenzialmente. E tutto questo sarebbe una rigida perdita per la Siria e per i siriani. Nena News

Nena News Agency 30 ottobre 2014 “Abdel Basset Sayda: assicurare aiuti continui a combattenti kurdi” – di Federica Iezzi

 

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SIRIA. Nei campi profughi

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Nena News Agency – 11 ottobre 2014

Dalla Turchia in Siria. Migliaia di rifugiati siriani vivono sulle terre di confine, in centri collettivi senza riscaldamento, medicine, coperte, vestiti e scarpe. Schiacciati tra i bombardamenti aerei del governo di Bashar al-Assad, i colpi di mortaio dei ribelli islamici e i kalashnikov delle brigate dello Stato Islamico dell’Iraq e della Siria. 

 

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di Federica Iezzi

Aleppo (Siria), 11 ottobre 2014, Nena News – A nord della Siria, a pochi chilometri da quell’Aleppo strappata ai jihadisti, dopo il lungo assedio durato oltre un anno, villaggi distrutti e strade semi deserte. Qui le bombe continuano a cadere, soprattutto nelle zone liberate, ora sotto il controllo dell’Esercito Siriano Libero, vigorosa coalizione contro il regime di Bashar al-Assad. Colpi di artiglieria e incursioni aeree dipingono i cieli caldi. Le strade corrono sui perimetri dei nuovi posti di blocco militari, che in media sono a 500 metri l’uno dall’altro. Stravolgono le città in labirinti di paure. Il traffico è scarso sulle vie di collegamento.

Nomi in arabo segnano i sovraffollati campi profughi siriani, al confine con la Turchia, che ospitano migliaia di anime, costrette a lasciare le proprie case per gli estenuanti scontri. Molti campi sono nati nei territori liberati dagli uomini dell’Esercito Siriano Libero. L’assedio è rotto dall’alba. Non ci sono regole, non c’è protezione, non c’è rispetto. Fumo nero marchia l’orizzonte. Macchie di carburante, crateri di esplosioni e aloni scuri di rottami bruciati feriscono la terra.

Oltre alla Siria, con i suoi 6,5 milioni di profughi interni, sono cinque i paesi coinvolti dalle conseguenze del conflitto: Libano, Giordania, Turchia, Iraq e Egitto. E il Libano è quello che oggi ospita almeno il 30% dei rifugiati in arrivo. La meta’ di loro e’ ammassata nei campi rifugiati governativi tra leishmaniosi e morbillo. Gli altri sono distribuiti e anonimamente disseminati in migliaia di piccoli, sconosciuti campi spontanei, non tracciati sulle cartine. Ci sono bambini scalzi che corrono tra macerie e fango. Non sono soldati di Assad, non sono ribelli, non sono nelle milizie qaediste, ma combattono ogni giorno per sopravvivere tra filo spinato e melma, razioni di cibo fredde e insipide, coperte logorate da dividersi in dieci.

Vivono nelle tende che si riempiono di acqua durante le improvvise e furiose piogge. Sentono i colpi di mortaio risuonare a pochi metri, incessantemente, senza sosta, tutte le notti. Il filo spinato sembra concedere una fallace protezione. Dall’altra parte delle rete, in fila con i cartoni e i sacchi sulle spalle, moltitudini di siriani che pregano perchè ci sia la guardia giusta che li faccia entrare. Fuori dal campo, in mezzo a bombe e macerie, uomini anziani fumano torpidamente il narghilè e la vita di tutti i giorni va avanti. Desolazione e malattie. Elettricità per un’ora e mezzo al giorno. Dopo il calare del sole, le strade restano al buio, nessuna luce, da nessuna parte. Dai rubinetti non sgorga più acqua, al massimo poche gocce erigono un sottile filo freddo e sterile. Non ci sono più nemmeno le latrine.

Fuori, nelle abitazioni senza muri, gli occhi percorrono le superfici impolverate di mobili, divani e letti. La gente corre alle finestre per sentire da dove provengono gli spari. All’ingresso di ogni campo profughi siriano guardie o ribelli stringono gelosamente in mano kalashnikov, lanciagranate, caricatori, munizioni e grappoli di bombe a mano. Appena un paio di chilometri più avanti da Aleppo comincia la terra di nessuno. Sventola la bandiera nera del Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi. Un vessillo di morte. E’ lo Stato Islamico che comanda ora. Appare come una guarnigione misera e trascurata, sopra nuvole color rame cariche di pioggia. Nena News

Nena News Agency – 11 ottobre 2014 “SIRIA. Nei campi profughi” – di Federica Iezzi

“Nei campi profughi siriani” – Reportage e immagini di Federica Iezzi

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SIRIA. Cos’è l’ISIS per la gente comune

Nena News Agency – 29 settembre 2014

Nelle strade delle province siriane di al-Raqqa e Deir Ezzor, territori di dominio indiscusso dell’ISIS, parla la gente. Ha paura di uscire, paura di pregare. Paura di non essere parte del gruppo jihadista 

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di Federica Iezzi

Aleppo, 29 settembre 2014, Nena News – Pick-up in fila indiana come convogli, uomini con sciarpe nere aggrovigliate attorno ai magri volti. Kalashnikov in bella vista, puntati verso l’alto. Dietro di loro la bandiera nera dello Stato Islamico dell’Iraq e della Siria vola spietatamente insieme al vento. Ormai si contano tra i 20.000 e i 31.500 combattenti nel gruppo jihadista guidato da Abu Bakr al-Baghdadi, lontana costola dell’al-Qaeda di Osama Bin Laden.

Gli estremisti sunniti dell’ISIS hanno il dominio di circa un quarto del territorio iracheno. E controllano approssimativamente un terzo della Siria. La roccaforte siriana dell’ISIS è al-Raqqa. Deir Ezzor è soffocata completamente, fatta eccezione per la base aerea militare. I militanti jihadisti regnano su alcuni quartieri nelle città di al-Joura, al-Ummal e al-Hamidiya, su vaste aree nel governatorato di al-Hasakah, tra cui Ash-Shdadi e al-Houl Markda, su molti villaggi nel nord-est di Aleppo, vicino al confine turco, come al-Bab, Akhtarien, al-Mashoudiya, al-Aziziya, Doybaq, al-Ghouz, Turkman Bareh e al-Rahie.

A Mosul, nell’Iraq del nord, la gente nelle strade sa che la maggior parte dei membri dell’ISIS è irachena. L’organizzazione terroristica ha trovato inizialmente terreno fertile nella comunità sunnita locale, scontenta per l’operato del governo a trazione sciita di Nouri al Maliki, ma è stata subito frenata dal nuovo esecutivo di Haider Al-Abadi.  L’ISIS, invece, ha trovato rifugio sicuro in Siria, strozzata da più di tre anni di guerra civile e dalla politica fortemente instabile di Bashar al-Assad.

L’ISIS non è islam. E’ questo che in terra siriana la gente urla. L’ISIS come conseguenza della guerra in Iraq del 2003 e del governo siriano di al-Assad; l’ISIS come gruppo di crudeli terroristi, ma meglio rispetto all’ateismo; l’ISIS come nemico dei musulmani; l’ISIS come kalashnikov, fucili d’assalto, mitragliatrici, obici e mortai, cannoni antiaerei e razzi anticarro, veicoli blindati, carri armati e centinaia di Humvee. Ma il pensiero comune, in terra siriana, è che la forza dei militanti islamici risiede nell’intensa lealtà all’interno dell’organizzazione.

In Siria il gruppo jihadista si scontra con più di 100.000 miliziani del fronte Jabhat al-Nusra, del Fronte Islamico e degli altri movimenti islamici. A opporsi, i ribelli dell’Esercito Siriano Libero e i 50.000 combattenti dell’YPG, Unità di Protezione Popolare curda. In Iraq sono i peshmerga ad affrontare sul campo i jihadisti.

Il muezzin annuncia la preghiera del venerdì, ma le moschee non sono piene. La gente ha paura di camminare per strada, così si accontenta di pregare tra le mura di casa, dove solo Allah può arrivare. Alla domanda “chi sono i combattenti dell’ISIS” risponde con sure del Corano o con brani tratti dai discorsi del profeta Muhammad “leggono il Corano ma non lo capiscono”.

Le donne hanno paura di non coprirsi abbastanza per la shari’a professata dall’ISIS. “Essere bambine è pericoloso” è questo l’assillo della gente, è questa l’inquietudine di ogni madre. I comandanti portano via le giovani vergini per darle come premio ai combattenti più valorosi. E tra le giovani, ci sono bambine che fino al giorno prima giocavano con le bambole nel cortile di casa. In sottofondo il pianto inconsolabile dei bambini, che si accompagna al pianto degli adulti. Fa male. Ogni donna ha perso qualsiasi briciolo di libertà. Le donne possono uscire se accompagnate da un muhram, dal padre, dal fratello, dal marito o da un parente uomo. C’è un coprifuoco. Si rientra a casa alle 7 di sera. Il buio, l’assenza di elettricità, la mancanza di protezione da parte dell’esercito governativo rende potenzialmente fatale ogni spostamento.

“Essere curdi, cristiani o sciiti è pericoloso. Non essere ISIS è pericoloso”. Mentre i siriani nelle province di Idlib e Homs manifestano contro gli Stati Uniti, i curdi siriani appoggiano la decisione di bombardare i territori controllati dai miliziani jihadisti. Quelle zone sono deserte, dicono. Le case sono depredate. Gli abitanti scappano quando sentono colpi di mortaio a poca distanza o quando l’YPG li avverte dell’arrivo delle truppe dell’ISIS. Gli abitanti che rimangono o sono fedeli al gruppo terrorista o sono civili sotto assedio.

E mentre continuano i bombardamenti delle forze americane sulle aree intorno ad al-Raqqa, Deir Ezzor, al-Hasakah, sul nord-est di Aleppo e sulle zone del confine iracheno, la morte di civili dipinge le giornate. Nena News

Nena News Agency – 29 settembre 2014 – “SIRIA. Cos’è l’ISIS per la gente comune” di Federica Iezzi

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SIRIA. La battaglia per la conquista di Kobani

Nena News Agency – 20/09/2014

 

Da più di 48 ore nella zona di Kobani, a nord della Siria, si susseguono violenti scontri tra i combattenti curdi dell’YPG e i jihadisti dell’Isis. Si cerca di scongiurare un nuovo massacro, dopo quello degli yazidi, dei turcomanni e dei cristiani

Syrian refugee at turkish border

Syrian refugees at turkish border

di Federica Iezzi

Aleppo, 20 settembre 2014, Nena News – Iniziato l’assedio da parte dei combattenti dell’Isis di 24 villaggi curdi nell’area di Kobane (Ayn al-Arab), nel nord della Siria, vicino al confine con la Turchia. Gli attacchi nelle ultime 48 ore hanno coinvolto carri armati e artiglieria pesante, fucili d’assalto, kalashnikov e granate. Continuano i bombardamenti dell’Isis nei villaggi di Barkel e Qihida a sud di Kobane. Questa notte presi altri 3 villaggi nei pressi del fiume al-Forat, ad ovest di Kobane. Per ora nessuna informazione sul numero di vittime.

Il violento assalto ha spinto i civili ad abbandonare le proprie case nel timore di ritorsioni da parte dei jihadisti. Circa 3.000 rifugiati tra uomini, donne e bambini sono arrivati al confine turco nella notte. Hanno lasciato le loro case, nei villaggi circondati dalle forze dell’Isis, e hanno camminato per almeno 10 chilometri senza acqua né cibo. I più piccoli, avvolti in coperte di fortuna, sono arrivati in stato di disidratazione marcata.

Già dallo scorso mercoledì, aree ad ovest di Kobani, battevano la bandiera nera dello Stato Islamico dell’Iraq e della Siria. L’Isis ha cercato di stabilire il controllo su una fascia di territorio vicino al confine con la Turchia, ha tentato l’espansione verso est, fuori dalle proprie roccaforti, nelle province di al-Raqqa e Der Ezzor, al confine con l’Iraq. L’intera area curda di Kobani, nella zona di Aleppo, è sempre stata  una spina nel fianco per i ribelli jihadisti, fonte di pesanti passati insuccessi. Oggi Kobani è una piccola tasca di terreno siriano, isolata dalle vaste aree di territorio controllato dall’Isis e dalle aree controllate dalle forze fedeli al presidente Bashar al-Assad. E’ difficile da difendere.

I 50.000 combattenti siriani dell’YPG, Unità di Protezione Popolare, hanno richiesto al governo turco urgenti aiuti nella lotta contro l’Isis, nel nord della Siria. Il governo di Davotoglu ha assicurato aiuti ai rifugiati siriani curdi. In un conflitto che contrappone militanti curdi contro gli estremisti sunniti, armare il PKK e l’YPG rimane ancora un dilemma. 46 cittadini turchi sono ancora oggi in ostaggio in Iraq, nelle mani dell’ISIS.

I rapporti tra l’YPG e il governo siriano di al-Assad rimangono ambigui. Finora l’YPG non sarebbe stato supportato dalle forze di Damasco. Invece sembrano rafforzarsi i rapporti con i gruppi di insorti non islamici, nella provincia di Aleppo. Per più di un anno, combattenti dell’ISIS e milizie curde si sono affrontati in lotte feroci, in diverse zone del nord della Siria, dove le grandi popolazioni curde risiedono. Gli scontri sono solo un aspetto della più ampia guerra civile in Siria.

Intanto si ripetono massacri e rapimenti di donne nelle aree sequestrate di recente. I timori della comunità internazionale sono puntati sul rivivere le atrocità degli yazidi, nella regione di Sinjar, nel vicino Iraq, mentre in Siria proseguono gli scontri tra i ribelli siriani e l’ISIS a Dabeq, nel governatorato di Aleppo.

Bombardamenti dalle forze di al-Assad sui villaggi di Nahya Aqirbat, Hamada Omar, Kafar Zita, Demo e Tal al-Meleh, nella provincia di Hama, e sui vilaggi di al-Bab, Balat e al-Jaboul, vicino Aleppo, tutti controllati dall’Isis. Nena News

Nena News Agency – “SIRIA. La battaglia per la conquista di Kobani” – di Federica Iezzi

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IRAQ: chi sono gli Yazidi?

LiberArt Online – 15 agosto 2014

Iraq - Bajed Kadal refugee camp near Dohuk, in northern Iraq

Iraq – Bajed Kadal refugee camp near Dohuk, in northern Iraq

di Federica Iezzi

Baghdad (Iraq) – Continuano i raid aerei delle forze americane su Erbil, per tentare di arrestare la superba avanzata dei militanti dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante. In queste ore l’obiettivo del gruppo jihadista sunnita è lo sterminio del popolo Yazidi.
Dallo scorso giugno, a seguito della conquista dell’antica città di Mosul, in Iraq, le forze militari dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, hanno intrapreso la missione raccapricciante di trasformare il loro dominio in un unico grande Califfato, sotto il feroce controllo della shari’a.
Le conquiste di Abu Omar al Baghdadi, tra Iraq occidentale e Siria, sono di circa 270mila chilometri quadrati, con una popolazione stimata in 18 milioni di persone.
I confini sono ben tracciati da est di Aleppo, in Siria, fino a Fallujah, a soli 60 chilometri a est di Baghdad. Presa dall’ISIL la città irachena di Jalawla, a nord-est di Baghdad, iniziando a minacciare anche i confini meridionali della regione autonoma del Kurdistan.
L’esercito ben organizzato conterebbe circa 10.000 combattenti, di cui tra i 3.000 e i 5.000 di nazionalità straniera, rafforzato grazie anche alle alleanze strette con le comunità sunnite irachene, avverse al premier sciita Nouri al Maliki.
Autorevole mossa strategica è stata l’unione ad Albu Kamal, principale località di frontiera tra Siria e Iraq. L’alleanza permette all’ISIL di controllare entrambi i versanti del confine, tra Albu Kamal in Siria e al-Qaim in Iraq.
I guerriglieri jihadisti, nel corso delle sanguinose occupazioni nella terra irachena, hanno costretto la conversione delle minoranze religiose, ucciso gli apostati e distrutto santuari.
Obiettivo dell’ISIL è in queste ore lo sterminio della comunità Yazidi. Gli Yazidi contano circa 70.000 membri, di cui la maggiorparte è concentrata nel nord dell’Iraq. Minoranze in Turchia, Georgia e Armenia.
La città di Sinjar, nel governatorato di Nineveh in Iraq, è il loro cuore. La città di Lalesh, il loro simbolo.
Da più di una settimana va avanti la pulizia etnica da parte degli estremisti islamici, entrati nella città di Sinjar. Uccisi almeno 500 Yazidi.
La popolazione in massa si è riversata e rifugiata sul monte Sinjar, affrontando estenuanti ore di cammino a piedi.
Attualmente sono circa 30.000 le famiglie sotto assedio sul monte Sinjar, senza cibo né acqua.
Fuggiti solo in queste ore 20mila degli almeno 40mila Yazidi intrappolati da giorni sui monti di Sinjar. Ancora critiche le condizioni dei civili circondati dall’esercito dell’ISIL. Senza cibo, senza acqua, senza cure.

Gli Yazidi hanno abitato le montagne del nord dell’Iraq per secoli. Luoghi sacri, santuari e villaggi ancestrali sono tutto il patrimonio posseduto da questa gente. Al di fuori di Sinjar, gli Yazidi sono concentrati nelle zone a nord di Mosul, e nella provincia curda di Dohuk.
Con l’avanzata dell’ISIL, ora a soli 40 miglia da Lalesh, gli Yazidi hanno tre scelte: la conversione, la fuga o la morte per esecuzione.
“Un’intera religione viene cancellata dalla faccia della terra” ha tuonato in modo straziante, nel parlamento iracheno, il leader Yazidi Vian Dakhil.
Per le loro credenze, gli Yazidi sono stati bersaglio di odio per secoli.
Lo yazidismo è una fede antica, con una ricca tradizione orale. Fondata da Adi ibn Musafir, nelle credenze dello yazidismo si mescolano Islam, alcuni elementi dello zoroastrismo, antica religione persiana, e mitraismo, religione misterica originaria del Mediterraneo orientale.
A partire dal XII secolo diversi leader musulmani hanno emesso fatwa contro gli Yazidi. Nella seconda metà del XIX secolo, gli Yazidi sono stati presi di mira dai leader dei principati curdi sotto controllo ottomano, e sottoposti a brutali campagne di violenza religiosa. Sono stati vittime di 72 tentativi di genocidio. Nel 1831, l’esercito turco uccise 100.000 Yazidi.
Nei primi anni del ‘900 iniziano i massacri di yazidi armeni. Alla fine degli anni ’70, il dittatore iracheno Saddam Hussein ha lanciato campagne di arabizzazione brutali contro i curdi nel nord.
Ha raso al suolo tradizionali villaggi, costringendo gli Yazidi a stabilirsi nei centri urbani, come Sinjar, interrompendo il loro modo di vita rurale.
Nel 2007, in centinaia sono stati uccisi in una serie di attentati da al-Qaeda. Oggi, dopo la comunità curda, sciita e cristiana, gli Yazidi sono nel mirino dell’ISIL.
Intanto nel nord dell’Iraq continuano i raid americani e dell’aviazione governativa a sostegno dei Peshmerga curdi contro i miliziani jihadisti.
Proseguono anche gli arrivi degli aiuti del governo regionale del Kurdistan iracheno, destinati alla minoranza Yazidi in fuga sulle montagne di Sinjar. 130 soldati americani vengono dispiegati in Iraq contro l’ISIL, mentre i combattenti dalle bandiere nere di morte, distruggono a colpi di mortaio il sacro tempio Yazidi a Lalesh.

LiberArt “IRAQ: chi sono gli Yazidi?” – di Federica Iezzi

“Iraqi Yazidi MP breaks down in Parliament: ISIL is exterminating my people”

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La jihad africana. Gli al-Shabab attaccano la costa kenyana

Nena News Agency – 17 giugno 2014

 

La pacifica vita della città costiera di Mpeketoni è stata sconvolta dall’attacco dei jihadisti di al-Shabab. La scorsa sera sono stati devastati hotel, locali, ristoranti e banche. Assaltata anche la stazione di polizia. Dal 2010 al 2013 i gruppi jihadisti sono cresciuti del 58%. I combattenti attivi oggi sono stimati in più di 100 mila

 

 

di Federica Iezzi

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Mpeketoni (Kenya), 17 giugno 2014, Nena NewsL’attacco della scorsa sera dei jihadisti di al-Shabab nella città costiera di Mpeketoni (nell’ovest del Kenya) ha provocato finora 48 morti. Devastate e date alle fiamme, inoltre, alcune sedi governative e locali pubblici.

Il movimento di al-Qaeda, comunemente localizzato nell’area Afghanistan-Pakistan, si è allargato a macchia d’olio nel tormentato continente africano. I numeri sono impressionanti: sono 24 gli stati africani lacerati dai conflitti armati in cui combattono 146 gruppi armati.

Il selvaggio attacco in Kenya è solo l’ultimo massacro compiuto dall’organizzazione fondamentalista islamica che è balzata all’onore delle cronache negli anni ’90 durante la guerra civile algerina quando provò a fondare uno stato islamico in Algeria. Il gruppo integralista oggi controlla quasi tutte le province meridionali della Somalia, devasta il Corno d’Africa ed esporta violenza anche nei paesi limitrofi. La capitale keniana fu già segnata dalla violenza degli al-Shabab lo scorso settembre quando fu attaccato il centro commerciale Westgate. Le vittime allora furono 67.

Le incursioni degli islamisti somali nelle città costiere del Kenya affacciate sull’isola di Lamu sembrano essere un atto di ritorsione contro gli sconfinamenti dell’esercito kenyota in Somalia che, ufficialmente, prova in questo modo a prevenire qualunque attacco terroristico sul suo suolo.

I movimenti ribelli collegabili ad al-Qaeda in Africa prosperano. Dalla Somalia alla Siria, gli eredi di Bin Laden e dell’organizzazione terroristica nata 25 anni fa, non si limitano ad azioni di guerriglia contro le forze armate locali, ma approfittano della fragilità delle istituzioni politiche per imporre una rigorosa applicazione della shari’a [la legge islamica, ndr].

La caduta dei regimi di Mubarak in Egitto e di Gheddafi in Libia ha agevolato la loro attività. Venendo meno la forte autorità centrale che li reprimeva, i movimenti islamici radicali hanno avuto vita facile nel Sahel.

Il Mali è stato il primo paese a subire quest’onda d’urto. Dal colpo di stato della primavera del 2012, le popolazioni tuareg, alleatesi con il movimento di liberazione dell’Azawad (area del Nord del Mali che comprende le città di Timbuktu, Gao e Kidal), hanno preso il controllo del Paese dopo sanguinosi scontri contro l’esercito regolare maliano. Nelle zone da loro controllate i militanti islamici hanno poi subito imposto un governo basato su una inflessibile interpretazione della shari’a.

La Libia è da sempre sull’orlo di una guerra civile. Soprattutto in Cirenaica, regione ricca di petrolio e roccaforte di gruppi islamici armati. La fine del regime di Muammar Gheddafi ha permesso, attraverso il deserto di Erg Murzuq al confine con il Niger, l’ingresso nel Paese di enormi quantitativi di armi per le milizie salafite di Ansar al-Sharia. Abbondanti rifornimenti che comprendono lanciarazzi, mitra, kalashnikov, arrivano anche per i sunniti di Ansar al-Islam in Tunisia, Boko Haram in Nigeria e al-Shabaab in Somalia.

L’effetto domino ha coinvolto anche la Nigeria. Il gruppo islamico Boko Haram, nato nel 2002, all’inizio era considerato dal governo di Abuja solo un leggero fastidio. Oggi è un gruppo terroristico che domina nel nord islamizzato del Paese ed ha causato la morte di 4 mila persone in soli quattro anni, ha distrutto centinaia di scuole e provocato un milione di sfollati.

Al-Qaeda del Maghreb islamico nasce durante la guerra civile algerina ed è riuscita a radicarsi anche nella Repubblica Centrafricana con il gruppo dei Seleka impegnato nei sanguinosi scontri che vedono contrapposti i cristiani e musulmani. La brutalità delle violenze settarie in corso riporta alla mente quanto accaduto nel Ruanda del 1994. I Seleka hanno devastato interi villaggi ed hanno torturato, stuprato e ucciso migliaia di persone provando quasi un milione di sfollati.

Spesso ciò che spinge i miliziani a combattere è la possibilità di trovare un valido mezzo di sussistenza. Sono due gli elementi che accomunano le zone dove opera al-Qaeda in Africa: l’instabilità politica ed una profonda ingiustizia sociale. Quest’ultima, quasi sempre, è la causa scatenante dei conflitti armati o delle insurrezioni. Nena News

Nena News Agency “La jihad africana. Gli al-Shabab attaccano la costa kenyana” – di Federica Iezzi

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