SIRIA. Sotto assedio anche i villaggi sciiti di Fu’ah e Kefraya. 12.500 civili intrappolati

Nena News Agency – 21 gennaio 2016

A nord della città di Idlib, da anni sono circondanti dai qaedisti di al-Nusra e da vari gruppi anti Assad. Di queste migliaia di civili in condizioni terribili si parla pochissimo

trtworld-nid-12530-fid-38925

di Federica Iezzi

Al-Fu’ah (Siria), 21 gennaio 2016, Nena News Mentre meno di una settimana fa ai primi convogli umanitari è stato consentito di entrare nella città siriana di Madaya, al confine nordovest con il Libano, i soccorsi nei villaggi di al-Fu’ah e Kefraya, nel governatorato di Idlib, sono stati rinviati per i mancati accordi di sicurezza con i ribelli sunniti. Questo secondo i dati riportati da Nazioni Unite, Mezza Luna Rossa siriana e Comitato Internazionale della Croce Rossa.

Al-Fu’ah e Kefraya sono villaggi a maggioranza sciita, della predominante area sunnita, a nord della città di Idlib, sotto assedio dai combattenti di al-Nusra e affiliati.

Inizialmente solo circondati dalle forze di al-Nusra, Jaysh al-Fattah, Ahrar al-Sham e Jabhat al-Islamiyah, i residenti avevano ancora una strada di accesso per le forniture alimentari e mediche.

Con la successiva loro occupazione, alla fine dello scorso marzo, l’Esercito arabo siriano ha ritirato le proprie truppe e i villaggi si sono trasformati in prigioni totalmente isolate. Bombe, posti di blocco e cecchini delimitano ormai da mesi i confini dei due villaggi. 12.500 i civili intrappolati.

Colpi di mortaio arrivano ogni giorno dal vicino villaggio di Binnish, a pochi chilometri a sud di al-Fu’ah, da Maarrat Misrin, a circa due chilometri a nord. Razzi arrivano dal centro di Idlib, a circa otto chilometri di distanza. In difesa dei due villaggi senza acqua, elettricità, comunicazioni, forniture mediche e cibo: milizie popolari locali.

I rigorosi checkpoint del gruppo armato di ribelli di Jaysh al-Fattah, sostenuti da Arabia Saudita e Turchia, non permettono l’ingresso né di cibo né di aiuti medici. Il pane è arrivato a costare fino a 13 dollari. 27 dollari per un litro di olio, 17 dollari per un chilo di fagioli. La mancanza di combustibile e lievito ha potenziato il mercato nero. E i prezzi del pane sono aumentati di otto volte rispetto a quelli nella capitale Damasco. Centinai i casi di malnutrizione. Decine i morti. Si mangiano erba e insetti per la sopravvivenza.

“Gli uomini di Ahrar al-Sham ci hanno impedito di accedere alle aree sotto il controllo del regime, tranne casi particolari dietro pagamenti di enormi somme di denaro. Più di 100.000 lire siriane per soldati e ufficiali (nda l’equivalente di 450 dollari)”, ci racconta Majd, giovane odontoiatra di al-Fu’ah, ora improvvisato fotografo per alcune testate arabe.

Dallo scorso marzo, l’elettricità non entra nelle case se non grazie a generatori che forniscono i villaggi solo per poche ore al giorno.

Anche l’acqua potabile è un lusso. “I filtri per pulire l’acqua funzionano solo per otto ore, ogni quattro giorni” ci spiega Majd. “La fornitura di acqua è solo per tre ore a settimana”.

Dopo due cessate il fuoco e ogni accordo fallito a al-Fu’ah e Kefraya, nessuno dei centri sanitari è funzionante, decine le segnalazioni di casi di leishmaniosi e tifo.

Risale allo scorso settembre l’ultimo accordo violato, che prevedeva il trasferimento di 300 famiglie da al-Fu’ah e Kefraya in aree sotto il controllo del regime, in cambio del ritiro di circa 400 combattenti di Jabhat al-Nusra, di circa 350 militanti feriti nella città di al-Zabadani e la liberazione dalle prigioni siriane di 500 detenuti del fronte anti-governo.

Secondo i dati dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari, circa 450.000 persone in Siria vivono in almeno 52 zone sotto assedio. La metà nelle zone controllate dallo Stato Islamico. 180.000 civili risiedono in città controllate dal governo e circa 20.000 nelle aree controllare dai gruppi armati di opposizione. Almeno 560 persone sono morte nelle zone assediate.

“Senza divisa e senza gradi, con addosso armi e munizioni, si professano combattenti di poveri ideali. Ma non si accorgono che decidono della vita di donne e bambini, di intere famiglie. Di un Paese la cui base era la millenaria convivenza tra culture e religioni”. E’ così che Majd vede chiunque combatta nella sua Siria. Nena News

Nena News Agency 21/01/2016 “SIRIA. Sotto assedio anche i villaggi sciiti di Fu’ah e Kefraya. 12.500 civili intrappolati” di Federica Iezzi

Standard

FOTO. Vita nel villaggio siriano di Atmeh

Nena News Agency – 13 dicembre 2014

Solo tre anni fa bulldozer, forze di sicurezza e volontari erano uniti a scavare e tirare su le tende, in quello che chiamavano Olive tree camp. I rifugiati del nord-ovest della Siria si stiparono nel villaggio di Atmeh, sperando in un pasto caldo e in un riparo per la notte. Oggi non arrivano più aiuti umanitari

DSC_0095

testo e foto di Federica Iezzi

Idlib (Siria), 13 dicembre 2014, Nena News – In mezzo all’incertezza, gli abitanti del campo profughi di Atmeh fanno del loro meglio per ritagliare un po’ di ordine nella loro vita. Fino a un mese fa la regione di Jabal al-Zawiya, nella provincia di Idlib, nel nord-ovest della Siria, era sotto il controllo delle forze di al-Assad. Oggi i combattenti del Fronte al-Nusra hanno occupato una serie di villaggi dell’area, ancora oggetto di attacchi da parte del regime.

Le famiglie siriane vivono sotto teli di plastica bianchi e azzurri. 30.000 persone ormai e 3200 tende. La popolazione del campo diminuisce e aumenta in base a quante bombe cadono sul terreno annientato. Alle tende si sono aggiunti edifici in lamiera. E lungo le stradine fangose del campo, si affacciano piccole botteghe che vendono falafel e coca cola.

Quando l’area attorno a Idlib era controllata dall’Esercito Siriano Libero c’erano posti di blocco ogni chilometro e soldati a presidiare i campi rifugiati. Oggi tutta la zona, fino a Kafranbel, nel sud della provincia di Idlib, è occupata da al-Qaeda e non esiste alcuna protezione.

Si cucina in tutto il campo zuppa di lenticchie. Donne e bambine alle prese con grossi pentoloni rossastri, appoggiati con poca stabilità sopra il fuoco. In mezzo a corde tese tra tenda e tenda, dove sono schierati i vestiti appena lavati, e teli di plastica, le donne iniziano a cuocere il piatto pane arabo, sul retro di grandi vasi rotondi, arroventati dalle fiamme sottostanti.

Nessun segno di assistenza umanitaria internazionale. La spiegazione ufficiale è che Idlib è una zona in mano ai ribelli. I bambini vivono tra scabbia, pidocchi, leishmaniosi e morbillo. Tremano con i sandali aperti nel fango. Adesso è arrivato il freddo. Nelle tende si accendono stufe di fortuna e non sono rari incendi e ustioni. Si affoga nell’acqua delle inondazioni e nelle acque reflue. Gli uomini cercano di scavare fossati attorno alle tende per drenare il terreno intriso. Al mattino si aspetta qualche raggio di sole che faccia asciugare sabbia e terra.

Sul pavimento della tenda di Nuzhah c’è un enorme tappeto, un paio di materassi e bicchieri di vetro. All’entrata un fuoco circondato da grosse pietre bianche, ormai annerite dalla cenere, e un pentolino con l’acqua presa nel fiume vicino. Ci togliamo le scarpe, entriamo nella tenda e beviamo un tè bollente. Mi racconta che sua figlia è nata due anni fa nel campo, in una mattinata fredda. Sconfitta, mi dice che Mayada, come migliaia di altri bimbi, non vedrà mai la sua casa, non ci tornerà più. La sua più grande preoccupazione è come poter sfamare i figli. I suoi figli chiedono sempre più cibo, proprio come i bambini normali, ma mi dice, con quegli occhi azzurri pieni di lacrime che non vogliono scendere, che lei non può offrire loro qualcosa di più. Così mangiano i limoni.

Tawhid, il fratello maggiore di Mayada, non va più a scuola da quando aveva 11 anni, dal giorno in cui le forze governative bombardarono la sua scuola alla periferia di Hama. Ora ha 13 anni e aiuta sua madre. Fa lavori saltuari nel campo. Si occupa di capre e galline. Mi dice che per lui ormai non c’è più speranza, è sufficiente che il suo fratellino più piccolo vada a scuola.

La tenda “madrasa” (scuola) come la chiamano qui è una collezione di sei tende fatiscenti che ospitano 500-600 bambini al giorno. Ogni tenda sembra incollata all’altra, i rumori si fondono insieme in un vociare continuo. Ci sono troppo pochi posti. Cercare fogli per fare i compiti a casa diventa una sfida. Hanno un libro in comune in ogni classe. Gli insegnanti non hanno la capacità di educare gli studenti delle scuole secondarie.

In alcune zone della provincia di Idlib, dove non ci sono campi profughi ufficiali, i rifugiati siriani devono pagare l’affitto per la terra dove le loro tende sono appoggiate. Si tratta di 1.300 dollari all’anno. Come si guadagnano questi soldi? Le donne vanno a raccogliere nei campi olive e verdure. Gli uomini lavorano per due lire e in nero costruendo dove è stato demolito o vendendo sigarette di contrabbando al confine turco. I bambini raccolgono plastica dai rifiuti e la rivendono.

Non ci sono convogli di aiuti delle Nazioni Unite. Né acqua corrente. Niente elettricità, nessun modo per riscaldarsi. Nessun sistema fognario, nessuna tenda medica. Eppure questi campi spesso sono la patria di 13.000 anime. Nena News

Nena News Agency “FOTO. Vita nel villaggio siriano di Atmeh” – di Federica Iezzi

 

 

Standard