Chapati e chai

On the way to Oldonyiro - Kenya

On the way to Oldonyiro – Kenya

 

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KENYA 2012

 

Ed eccomi ancora di fronte all’alba della mia Africa. L’ombrosa notte in cui si intravede ancora la via Lattea viene allontanata dalle prime vernici del giorno. L’arancione e il giallo ocra sfiorano le sagome scure e pigre degli altipiani. Vicino al tiepido chiarore di un sole ancora nascosto, nuvole violacee lasciano spazio allo sconfinato celeste del cielo.

Le acacie con i loro germogli, protetti da lunghe spine, pronti per essere divorati e per nutrire decine di creature, le inavvicinabili euforbie spinose, imprigionate in quella rigida e impervia terra, gli animali stanchi dopo la fertile notte, aspettano soltanto quei raggi caldi e essenziali dello scandito ripetersi del giorno e della notte.

Il prezioso giallo oro arriva e con esso sembra che tutte le cose rimaste congelate durante la notte, prendano nuova vita. I profili della savana si tingono delle varie tonalità di verde e di giallo sabbia. Le vette montuose e le vallate assorbono assetate e avide la luce di un nuovo giorno, simile a tutti gli altri ma profondamente discrepante in migliaia di ignoti e sconcertanti dettagli.

D’improvviso, come un interruttore che viene abbassato, la notte impavida ruba il posto alla luce e alle ombre che accarezzano gentilmente le assolate colline.

La notte africana si lascia permeare da uno sconcertante silenzio apparente. In questo illustre silenzio, le minuscole creature della notte danno voce al buio. Allora, il frinire delle cicale e il canto notturno dei grilli, i suoni striduli degli uccelli che riempiono le notti, il vento che si infiltra con maestria tra le foglie di banano, si mescolano ai lontani belati e muggiti, plasmando una melodia armoniosa e un sacro equilibrio.

Lo stentato viaggiare durante le notti africane tinteggia i brulli altipiani, gli scorci raggianti che di giorno catturano l’attenzione degli uomini e degli animali, gli alberi solenni che spuntano dalla compatta terra rossa. Un insieme di ombre riempie un gravoso scuro. Tra le radure spuntano brillanti luccichii. La prospettiva sparisce. La profondità si perde. E quegli scintillii diventano occhi di dik-dik sui lati delle strade o occhi di leone che da lontano osservano attenti il passaggio di intrusi.

Puntualmente la stella polare segue l’intero cammino. E’ la prima a comparire quando le luci si affievoliscono. Poi con ritmo lento e cadenzato, inizia a comparire un turbinio di stelle che si incontra magicamente, dando vita alla via Lattea. Ed ecco che parallelamente alle strade di fango e di pietre, corre la via Lattea.

Niente corrente elettrica. E’ possibile vedere le ombre della notte solo quando c’è la luna piena e solo quando le pupille imparano a seguire diligentemente i ritmi della savana e diventano lentamente e totalmente dilatate. Si accompagna alla soffocata luce della luna, riso e chapati con una bollente tazza di chai.

Dalla caotica Nairobi con i suoi citi hoppa, carichi di persone dirette chissà dove, con il Daily Nation a ogni semaforo, con i vestiti inglesi e i lussuosi palazzi di un’Africa spersonalizzata, il cammino verso la savana si porta dietro le gocce battenti e aggressive, di una stagione delle piogge arrivata con un po’ di ritardo.

Sfreccianti Isuzu sfiorano gli edicolanti della strada e i giovani, con in mano una bottiglia di Tusker, rannicchiati sui distrutti marciapiedi.

Così ci si lascia alle spalle le enormi discrepanze che dilaniano la capitale, per percorrere le strade di terra rosso sangue della savana. Dall’enkare nai-robi, il “luogo dell’acqua fredda”, e di fronte alle piantagioni di caffè, perpetuamente descritte con rabbia e passione, chilometri e chilometri di terreni ben irrigati, mostrano i frutti di un mondo delizioso.

Ananas, banane, manghi, papaye colorano i margini pietrosi delle strade con il verde delle foglie, il giallo dei frutti, l’arancione dell’essenza, il marrone dei semi. Una miscela di odori asprigni nasce e cresce, avvolge il cielo, segna la polvere rossa degli ultimi giorni della stagione secca, riempie la vita dei passanti e rende beata quella degli abitanti.

Eucalipti e palme, euforbie e acacie si appoggiano sugli altipiani. Le tonalità di verde diventano più chiare dove corrono i selvaggi corsi d’acqua e un suggestivo verde muschio appare sulle più alte vette.

Le nyumba costruite con legno, fango e paglia, si immergono e si mimetizzano naturalmente nel verde delle foglie e nel marrone dei tronchi di alberi dalle contorte forme.

Le estranee lamiere delle prime costruzioni dei wusungu, invece, lampeggiano sotto i raggi dell’ardente sole di mezzogiorno.

Ciuffi di nuvole bianche basse, sembrano sorrette da invisibili fili al cielo indaco, impegnato ad allontanarsi dalla terra, come nelle trame di una macchinosa ragnatela.

Mentre uomini preparano e accatastano sacchetti, color avorio, di carbone, ai lati delle strade, donne e bambini camminano, con addosso contenitori di plastica o di latta, nell’eterna ricerca dell’acqua.

Aprile. Le piogge tardano ad arrivare. Tutto è dorato. Piccoli scorci di verde sulle euforbie. Il verde sui rami più alti delle acacie sembra protetto dalle lunghe e acuminate spine.

Macchie confuse di colori ardenti, aggrappate al verde scuro, circoscrivono i lodge.Bouganville fucsia e rosso scuro, con le bianche corolle in miniatura, abitate dalle candide farfalle, danno luce all’arida savana. Il nobile frangipane sfida l’aria rovente, con le sue rotondità color crema, concedendo alla leggera brezza il suo fine aroma. Lo stesso vento traina la fresca fragranza di salvia selvatica.

Un’enorme varietà di magre piante verdi, ai lati delle strade di fango aspro e sulla secolare pietra, riesce miracolosamente a sopravvivere alla mancanza di acqua.

Sulle calde pietre, immobili dall’inizio dei tempi, i gechi hanno l’aspetto di piccoli coccodrilli. Primitivi polmoni che fanno alzare e abbassare la ruvida pelle, appena sotto le zampe anteriori. Alcuni dalla testa gialla, il corpo colorato dalle varie sfumature del blu, zampe anteriori azzurro scuro, zampe posteriori verde mare, coda lunghissima e una sottile linea bianca che solca longitudinalmente l’intero corpicino. Altri più banali, con scarabocchi disegnati grigi e verde scuro. Animali a sangue freddo che scaldano la pelle sulle pietre roventi del mezzogiorno africano. Immoti aspettano la loro preda: una mosca, un moscerino, uno dei milioni di insetti volanti che popolano l’aria africana. Come un antico rituale magico, con agilità, alzandosi sulle zampe anteriori, per ispezionare il loro orizzonte, e con movimenti ritmici della testa, catturano il loro pasto quotidiano.

Alberi maestosi seguono attentamente stradine che si snodano dolcemente su un terreno rosso fuoco. Quieti movimenti di fronde possono significare spostamenti di interi branchi di babbuini, richiami di uccelli dalle mille gradazioni e dai mille disegni, piccoli gruppi di antilopi incessantemente all’erta.

Dalla malandata pista di terra battuta, un flebile rumore di rami spezzati. E inaspettatamente, al di là della curva, un branco di elefanti, attenti a proteggere i più piccoli, cammina indisturbato, sotto gli occhi immobili di antilopi, zebre, impala e giraffe. E’ raro vederli dove corrono i robusti fuoristrada. Le zanne colorano incantevolmente di avorio, il verde scuro della boscaglia. La grinzosa pelle grigia si maschera tra i rami e i tronchi secchi e grigi di acacia. Non hanno voce ma sono loro i padroni del sentiero che percorrono. Gli altri si possono solo adeguare.

Dopo un lungo attimo di incredulità, le palpitanti antilopi riprendono la loro marcia. Le zebre si puliscono il manto con piacevoli capovolte sull’erba umida. Le giraffe continuano incuranti a gustare, come succulenti bocconcini, i germogli più alti delle acacie. La vita dei mille piccoli animali della savana riprende laboriosa. Tutti sembrano rispettare e venerare la saggezza e la costanza di questo imponente essere, capace di bloccare lo sguardo con naturale magnificenza.

Nelle strade polverose e scarne, camminano instancabilmente bambini con in spalla una piccola zappa, accompagnati da donne con carichi smisurati dietro la schiena, sorretti da una corda sistemata accuratamente sulla fronte.

Sembra che tutti ti aspettino da anni. L’Africa guarda avida ogni movimento con occhi vigili e premurosi.

Esattamente sull’equatore. L’austero sole e le morbide nuvole bianche riempiono piccoli spazi di un cielo che si perde con l’orizzonte.

Gli abitanti di questa terra fulva sono i samburu. Un popolo che vive di allevamento, che si sposta continuamente alla ricerca dell’acqua per le onnipresenti capre.

La manyatta è il provvisorio accampamento. Circondata da rami spinosi e secchi di acacia. La boma. Nel recinto, le capanne sono circolari, di vaga forma allungata. Fango, paglia, foglie e legno si fondono per resistere alle notti africane e al sole penetrante del giorno. L’entrata alla capanna è stretta e bassa e dopo un oppresso corridoio, ecco il fuoco e qualche pietra che lo delimita. Pochi suppellettili per raccogliere il latte di capra e un angolino per dormire.

Le donne, snelle e dall’andatura elegante, sono avvolte da variopinti kanga e adornate con vistose file di collane di perline, dai colori caldi, e braccialetti di ottone sui sottili polsi e caviglie. Ingenti orecchini dagli svariati materiali appesantiscono i lobi allungati. Sulla cartilagine dei padiglioni delle giovani fanciulle, irrompono tinteggiati orecchini a forma di cono, con piccoli ciondoli pendenti alla fine. Capelli lanuginosi e cortissimi. Sulla schiena portano diligentemente legna da bruciare o per cucinare. Ai piedi sandali neri, ricavati da vecchi copertoni di automobili, abbandonati lungo le strade.

Sulle rive dell’Ewaso Nyiro, tra le pietre di quarzo incastonate nella povera terra, la prima autentica responsabilità. Ragazzini di meno di 10 anni, con in mano una piccola lancia, portano le caprette della famiglia a bere e mangiare.

Dopo la circoncisione, i ragazzi diventano murran. Gli aristocratici guerrieri samburu rimangono lo spettacolare panorama dell’arsa savana. I capelli, che si allungano lentamente, sono coperti di ocra rossa. La testa guarnita con lunghe piume. Torso nudo decorato con stringhe di perline colorate, incrociate tra loro. Kikoi rossi a quadri avvolti sui fianchi. Braccialetti con arabeschi di perline su polsi e caviglie. Ottone lavorato sui polpacci. E poi il viso rigoroso, fregiato da catenine di rame e alluminio. Portano con loro mperekissu e rungu come protezione nella lussureggiante boscaglia. Tutto è celato dai raffinatishuka.

Il martedì, ogni quindici giorni, su un verdeggiante altopiano, padroneggia il mercato di Oldonyiro. Dopo due ore dal sorgere del sole, quando l’orologio biologico segna le due per la popolazione locale, iniziano i fermenti per la preparazione delle merci sugli spazi sconfinati della savana.

Dai camion, ricordando un’antica armoniosa aria, saltano fuori persone dalla pelle come carbone e bisacce color avorio traboccanti di mercanzia.

Sacchi vecchi, che un tempo avevano contenuto legumi, vengono tagliati, aperti e stesi per terra in modo da tenere separate la solida terra rossa, le pietre grigie e i prodotti esposti. Giovani donne e qualche anziano uomo, preparano le assortite e variopinte bancarelle. Come in un puzzle per bambini, appare inaspettatamente un ordine nel grande disordine. Vestiti con scarpe. Bicchieri, tazze e teiere. Torce, detersivi e coltellini. Banane, pomodori e cavoli. Sacchi di fagioli, riso e zucchero. Piccoli sacchettini di sale. E poi le donne samburu con i loro magistrali lavori. Braccialetti e collanine di migliaia di colorate perline, preparate alla luce del fuoco dentro le loro manyatte, durante quelle due settimane senza mercato. Monili di ottone da mettere sulle caviglie. Gioielli di perline e ciondoli di alluminio e rame con i quali donne e uomini decorano la fronte e il viso. Lunghe corde riempite di perline più grandi che i guerrieri samburu indossano, incrociandole in modo accurato e raffinato sul torace.

La parte scoscesa dell’altipiano, coperta di erba da mordicchiare e di germogli di acacie da assalire, è occupata dal bestiame in vendita. In libertà caprette e galline, dentro un imponente recinto buoi. A vegliare sulle proprietà, i guerrieri samburu con lance appuntite, bastoni dritti e sottili di legno e pesanti rungu.

L’attenta e esperta osservazione dei buoi e delle capre, da parte dei compratori, e la successiva contrattazione hanno bisogno dell’intera giornata. Questo per arrivare a portare a casa una capra per 12 dollari. Subito rimpiazzata dalla nascita in diretta di una nuova capretta, dall’attenzione della mamma e dal primo latte. Le galline sono in mostra in braccio alle donne samburu.

Il momento della contrattazione è il più spiritoso e curioso.

L’interazione con i venditori può durare anche mezza mattinata per un piccolo gioiello di perline, per un semplice kikoi o per un sacchetto di the. Naturalmente il prezzo iniziale è sproporzionatamente alto, proprio per permettere la concessione di ingenti sconti. Distante dai gretti prezzi del “Made in China”. Non è raro trovare venditori che parlino un inglese decente, sufficiente a chiederti da dove arrivi e chi sei per farsi una idea iniziale del prezzo da spuntare.

Ognuno dei due sa che l’altro mente ma i ruoli durante la commedia sono recitati con rispetto reciproco e con febbrile divertimento. Alla fine, pagare la metà di quanto chiesto all’inizio dal venditore è un risultato soddisfacente per un “senza pelle” occidentale. Rimangono le donne quelle che riescono, in ogni occasione, a spuntare il prezzo migliore. Accovacciate vicino ai venditori contrattano ogni centesimo in maniera esasperante e competente. Poi finalmente l’accordo e la fiera esibizione del sacchetto nero di plastica.

 

LiberArt “Nairobi: luogo dell’acqua fredda” – di Federica Iezzi

LiberArt “Laikipia: terreno rosso fuoco” – di Federica Iezzi

LiberArt “Oldonyiro: comunità rurale” – di Federica Iezzi

LiberArt “Oldonyiro: il mercato” – di Federica Iezzi

 

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