Gente di Idomeni

Il Manifesto – 01 aprile 2016

EUROPA. Il fronte greco-macedone. Tra i 14 mila rifugiati intrappolati nel fango alle porte d’Europa. E tra chi li sorveglia, che non è meno prigioniero di loro

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di Federica Iezzi

Idomeni (Grecia) – Chi è la gente di Idomeni? Non basta dire afghani, pakistani, siriani e iracheni. La gente di Idomeni è Jalil, un giovane con vecchie scarpe da trekking che cammina nel fango contro pioggia e freddo. Si lascia alle spalle bombe che piovono dal cielo, mine che esplodono sotto i piedi, proiettili che rompono il silenzio dell’aria. È Afshan, con i piccoli Sitarah, Tanaz e Jamshid al seguito, che cerca disperatamente una coperta. È Burhan un bambino di poco più di cinque anni che beve dalle pozzanghere che ancora non diventano marroni. Vicino a quell’acqua le mosche rabbiose lo invadono.

La distesa di piccole tende colorate punteggia i binari che attraversano Idomeni, parte della lunga ferrovia Salonicco-Skopje-Belgrado. Più che un punto di accoglienza sembra un ammasso informe di squallidi rifugi frettolosamente eretti, circondati da palizzate e folli rotoli di filo spinato che definiscono il confine con la Macedonia.

Gli accampamenti sprofondano nel fango e nell’acqua durante le violenti piogge che sembrano inghiottire ogni oggetto. Si vedono solo corti canali scavati con le mani o con un bastone di legno davanti all’ingresso di ogni tenda «Così si evita all’acqua di entrare dentro», ci dice Afshan in dari. «Sono in cerca di una coperta perché la scorsa notte l’unica che avevo si è bagnata con l’acqua che è entrata nella tenda. E con la pioggia non c’è nessuna speranza che oggi si asciughi».

E aggiunge: «Le tende non sono impermeabili». Poi inizia a raccontarci la sua storia. Una storia tra tante. Un nome, un viso, posti sconosciuti di vecchie rotte che sembravano abbandonate. Nella tenda si toglie il velo, ha lunghi capelli neri, la sua carnagione è scura e le sue mani spaccate dal freddo. «Arrivo da Khash Rod, si trova a sud-ovest dell’Afghanistan. Ho iniziato il mio viaggio tre mesi fa. Si entra illegalmente in Iran dalle sezioni delle frontiere meno custodite delle province meridionali e si viaggia spesso a piedi fino alla città sciita di Qom. A circa cinque chilometri dal confine tra Iran e Turchia, ti fanno scendere dal camion e ti lasciano lì. Si continua a piedi e si aspetta la notte per attraversare il confine, perché gli iraniani sparano. E i corpi senza vita rimangono lì. Senza preghiere, né notizie. Se si riesce ad entrare in Turchia, nella disperazione più totale, si hanno un paio di minuti per decidere se si vuole rischiare la propria vita su un gommone. Ci si imbarca per le isole greche di Kos o Lesbo, ormai quasi più senza pensare. Io sono arrivata a Lesbo, partendo dal porto turco di Izmir». Afshan si ferma e in quel momento sembra sentirsi solo il tintinnio del suo tasbeeh in mano. «Pensavo fossi arrivata. Non so come sono finita qui».

Dopo settimane di cammino e 7.000 dollari spesi, si ritrova intrappolata con i suoi tre figli in un posto che non le permette né di andare avanti, né di tornare indietro. «Nel distretto di Nimruz a dettare legge sono ancora i talebani, nonostante le forze armate dispiegate sulla terra. Mia figlia non può andare a scuola», cerca di farci capire.

E sì, c’è chi lascia casa, famiglia e vita perché la propria figlia non è libera di andare a scuola.

Al di là di un fossato disseminato di coperte, bottiglie di plastica e vestiti c’è la Macedonia, il piccolo stato balcanico glorificato a via di transito. Solo cinque minuti di treno e da Idomeni si è a Gevgelija, in Macedonia. Ma adesso è tutto proibito. Uomini in divisa, armati di lacrimogeni e proiettili di gomma sono diventati i custodi del perimetro dei Balcani, accanto agli Humvee scintillanti.
La rotta dei Balcani è ormai bloccata a Evzonoi, in Grecia, al confine meridionale della Macedonia, a Preševo in Serbia e a Šid alle porte della Croazia. Bloccata perfino prima di iniziare a Polykastro, a 25 km dal valico ufficiale di Idomeni.

Senza documenti si ritorna al punto uno. Cioè in Grecia. Sono 30 mila i rifugiati ora bloccati nel Paese. A Idomeni 14 mila rifugiati aspettano in uno scenario da incubo un segno dall’Europa, mentre i funzionari in preda al panico, con l’appoggio dell’esercito, lavorano ogni giorno per dar da bere e da mangiare a chi fugge da guerra, povertà, disoccupazione, morte, dolore.

Più di un milione di rifugiati hanno attraversato l’Europa nel 2015 e già 153.500 si sono riversati in Grecia via mare da inizio anno. Da Idomeni, trasferiti in questi giorni i primi mille rifugiati in campi nel nord della Grecia.

Dovuti alle scadenti condizioni igieniche a Idomeni, i primi casi di epatite A non sono tardati ad arrivare. La malattia si è diffusa nel campo, dove c’è poca acqua e dove ci sono lunghe code per usufruire delle poche strutture igieniche temporanee.

Nella tenda medica debordante di pazienti, donne in gravidanza, bambini con tosse, febbre e disidratazione riempiono l’aria. Fuori nel fango la gente si ripara con i lunghi impermeabili verdi, distribuiti nel campo ai più fortunati. Aspettano tutti davanti ai cancelli. E chi sorveglia i rifugiati non è meno prigioniero di loro.

Donne e bambini rimangono seduti su cassette di plastica davanti a una pentola da 500 litri di riso e lenticchie preparate dai volontari ai margini dei binari.

Il Manifesto 01/04/2016 “Gente di Idomeni” – di Federica Iezzi

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Macedonia di disperazione

Il Manifesto – 28 agosto 2015

Il racconto. A Gevgelija in attesa del treno che porta verso il nord

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di Federica Iezzi

Gevgelija (Macedonia) – Folle di rifu­giati siriani tra le mon­ta­gne mace­doni di Kouf e Pajak. Campi saturi di piog­gia, notti fredde e umide tra­scorse all’aperto. Niente riparo. Poco cibo e poca acqua. Die­tro il filo spi­nato, entrate razio­nate dalla poli­zia mace­done. Gra­nate e lacri­mo­geni. È il qua­dro alla irri­co­no­sci­bile sta­zione fer­ro­via­ria di Gev­ge­lija, a due chi­lo­me­tri dal con­fine greco-macedone.

Da giu­gno almeno 44.000 migranti, soprat­tutto siriani, sono entrati in Mace­do­nia. I dati dell’Alto com­mis­sa­riato delle Nazioni Unite per i rifu­giati, in que­sta set­ti­mana, hanno con­tato 1.500–2.000 ingressi ogni giorno. Il primo obiet­tivo è salire nel treno che da Gev­ge­lija porta a Sko­pje o Taba­no­v­tse, nel nord della Mace­do­nia. Punto di con­tatto con le città serbe e quindi con l’Ungheria. E poi pro­se­guire per la Black Road attra­verso l’Europa.

Rag­giun­gere l’Ungheria — nono­stante l’accoglienza dall’incalzante con­trollo di 2.100 poli­ziotti, dispie­gati sui 175 chi­lo­me­tri di con­fine con la Ser­bia — signi­fica entrare nei Paesi della zona Schen­gen. Dun­que, viag­giare in tutta l’Unione euro­pea senza essere bloc­cati ai vali­chi di fron­tiera e avere la pos­si­bi­lità di chie­dere asilo poli­tico.
Dichia­rato lo stato di emer­genza, le auto­rità, per giorni, hanno lasciato migliaia di rifu­giati nella pol­ve­rosa no man’s land tra Mace­do­nia e Gre­cia. Non sono immi­grati. Non sono qui per ragioni eco­no­mi­che. Sono rifugiati.

Robar, Amira, 23 anni e incinta del secondo figlio, e il pic­colo Elyas, di soli due anni, hanno cam­mi­nato a piedi da al-Hasakah, nel nord-est della Siria, a al-Derbasya, al con­fine con la Tur­chia. Robar nella sua città, pro­vata dall’assalto durato mesi da parte dello Stato Isla­mico, ha incon­trato il suo «con­tatto». Rasheed, un traf­fi­cante siriano, che ha per­messo loro di attra­ver­sare il con­fine turco-siriano, nell’area di al-Qamishli. Robar dice: «I traf­fi­canti cono­scono le vie. Ogni vil­lag­gio siriano ha la sua via per acce­dere alla Tur­chia. Noi abbiamo cam­mi­nato un chi­lo­me­tro attra­verso una pic­cola strada tra i campi». Con­ti­nua: «Io e mia moglie abbiamo pagato 300 dol­lari a testa solo per pas­sare il con­fine. Elyas non ha pagato nulla».

È invece Nesli­han il traf­fi­cante turco a cui Robar e Amira hanno dato 1.200 euro, per un viag­gio di tre ore in mare dal porto turco di Bodrum all’isola greca di Leros. Amira rac­conta: «Siamo arri­vati ad Atene, in un tra­ghetto insieme ad altri 2.500 migranti», e sospira «Due set­ti­mane da al-Hasakah alla Gre­cia, nasco­sti per ore nei boschi del con­fine turco-siriano, aspet­tando di attra­ver­sarlo di notte, ran­nic­chiati e con­trab­ban­dati in gom­moni e mer­can­tili, implo­rando acqua». Poi il viag­gio è con­ti­nuato a piedi. Dieci giorni, 500 chi­lo­me­tri. Fino a Gev­ge­lija, son­no­lenta cit­ta­della macedone.

Qui nes­sun cen­tro di acco­glienza li attende. Arri­vano da Aleppo, Homs, Kobane, Tar­tus, Hama e Dama­sco. Gli ultimi passi sui binari che por­tano dal vil­lag­gio greco di Ido­meni ai treni di Gev­ge­lija. Pre­sto i rifu­giati incon­trano la poli­zia mace­done. Li obbli­gano ad aspet­tare senza motivo e per un tempo non defi­nito. Dor­mono su sca­tole di car­tone per le strade, men­tre atten­dono l’arrivo dei docu­menti e il per­messo di rima­nere in Mace­do­nia o Ser­bia per 72 ore.

Spesso non esi­ste una mèta. «La mag­gior parte vuole andare in Ger­ma­nia o in Sve­zia» con­fer­mano le auto­rità macedoni.

Samer è arri­vato in treno a Taba­no­v­tse, vicino al con­fine con la Ser­bia. Per tre volte ha cer­cato di attra­ver­sare il con­fine tra Mace­do­nia e Ser­bia e per tre volte è stato respinto dai sol­dati serbi.

Sa del muro che con­ti­nuano a costruire tra Ser­bia e Unghe­ria? «È una rete, si può pas­sare sotto…». Il fra­tello ha attra­ver­sato il con­fine serbo-ungherese, nei pressi di Asot­tha­lom. Lui farà lo stesso.

Da Gev­ge­lija par­tono solo tre treni al giorno per Sko­pje. Il biglietto (che prima costava 6,50 euro) adesso costa 10 euro. Nes­suna restri­zione sul numero di biglietti ven­duti: signi­fica che i colo­rati treni rossi e gialli mace­doni diven­tano vagoni merci. La scena è la stessa per ogni par­tenza. Spin­toni, grida e ammassi di per­sone sulle ban­chine. Tutti i vagoni si riem­piono troppo rapi­da­mente, lasciando a terra donne e bam­bini in lacrime.

Le ban­chine della pic­cola sta­zione fer­ro­via­ria di Gev­ge­lija degli anni ’70, hanno spa­zio suf­fi­ciente per una ven­tina di pas­seg­geri. Fino a poche set­ti­mane fa si aspet­ta­vano i treni aran­cioni che por­ta­vano verso il nord. Ora si lotta per un posto. Esau­sti si dorme ovun­que: basta tro­vare un posto, sotto una stri­scia di luce tre­mo­lante. È il risul­tato della rotta dei Bal­cani occi­den­tali: mare, giorni di cam­mino e con­trolli. Spie­tata quanto la tra­ver­sata in mare dalla Libia.

Ci sono due rotte attra­verso i Bal­cani dalla Tur­chia. Quella dei Bal­cani orien­tali, diretta in Bul­ga­ria, via terra, com­pli­cata dalla recin­zione di reti metal­li­che e filo spi­nato, costruita lungo i 160 chi­lo­me­tri del con­fine turco-bulgaro. E quella dei Bal­cani occi­den­tali, diretta in Unghe­ria, attra­verso Gre­cia o Alba­nia, Mace­do­nia e Serbia.

Coloro che soprav­vi­vono rischiano di essere pic­chiati dai traf­fi­canti o dalla poli­zia locale. O peg­gio, arre­stati e inse­riti nella lista dei richie­denti asilo poli­tico in paesi come l’Ungheria, di fatto negando ogni pos­si­bi­lità di otte­nere asilo invece in Ger­ma­nia, Sve­zia o Regno Unito.

Secondo l’UNHCR, negli ultimi giorni, più di 10 mila per­sone hanno rag­giunto la sta­zione di Pre­sevo, in Ser­bia.
Hisham, pale­sti­nese rifu­giato nel campo di Yar­mouk a sud di Dama­sco, è arri­vato nella città unghe­rese di Sze­ged, ma è rima­sto fermo per giorni in uno dei pic­coli campi dis­se­mi­nati sulla strada prin­ci­pale tra Sko­pje e Bel­grado, prima di rag­giun­gere il cen­tro di regi­stra­zione dei rifu­giati a Pre­sevo in Serbia.

Nella sta­zione di Pre­sevo, gio­vani serbi con­trat­tano con i rifu­giati i prezzi degli auto­bus. Hisham spiega: «Sono 25 euro per Bel­grado, 32 per Subo­tica. I bam­bini pic­coli viag­giano gra­tis. Dopo 400 chi­lo­me­tri fino a Bel­grado, ne riman­gono solo 200 per l’Ungheria».

Il Manifesto, 28/08/2015 “Macedonia di disperazione” di Federica Iezzi

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