REPORTAGE. Il campo tossico dove l’Europa scorda i migranti

Il Manifesto – 24 settembre 2019

REPORTAGE. Muri e migrazioni. A Vucjak, in Bosnia, si sopravvive senza assistenza, tra rifiuti e mine anti-uomo: il campo si trova sopra una vecchia discarica, l’acqua non è potabile e la terra, mai bonificata, è intrisa di veleni. E chi tenta la fuga in Croazia trova la polizia e il suo ‘gioco’: cibo confiscato e zaini dati alle fiamme

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Bosnia-Herzegovina – Vučjak refugees camp (photo credit Renato Ferrantini per One Life ONLUS)

di Federica Iezzi

Sarajevo – Nascosto tra le cime boscose del monte Plješevica e circondato da zone ancora minate delle guerre jugoslave, il campo rifugiati di Vucjak, nella Bosnia nord-occidentale, è una prova scioccante della crisi che si è abbattuta contro la porta di servizio dell’Unione europea. Le Nazioni unite hanno recentemente descritto questo campo, a pochi chilometri dal confine spinato croato, come del tutto inadeguato ad accogliere civili.

UNICO CAMPO in cui non sono presenti le grandi organizzazioni non-governative internazionali, è ufficialmente gestito dalla municipalità della cittadina di Bihac. E sotto-affidata, non ufficialmente, ai volontari della Croce Rossa locale di Bihac.

È sorto dopo che le autorità della Bosnia e i governi municipali del Cantone di Una-Sana, hanno deciso che i migranti non potevano più rimanere negli spazi pubblici o negli edifici abbandonati, entro i limiti della città.
Plastica, vetro, vecchi vestiti ormai diventati stracci, copertoni di gomme usate giacciono sul terreno contaminato.

Si tratta di resti tossici del passato. Il campo si trova sul sito di una vecchia discarica, in attività solo fino a qualche anno fa. Le condizioni sono terribilmente preoccupanti. La sopravvivenza è legata all’acqua non potabile, alla terra intrisa di anni di veleni, al solo lavoro dei volontari.

ALMENO UN MIGLIAIO di migranti sono ammassati in questo inferno. Provengono da Afghanistan, Iraq, Iran, Siria, Pakistan. L’accesso all’acqua è ridotto a dieci ore al giorno, non esiste un approvvigionamento idrico permanente.

Vucjak fa eco all’inumanità del campo profughi di Calais in Francia del nord e all’abietta inazione dei governi europei. La mancanza di infrastrutture di base e servizi igienico-sanitari a Vucjak viola profondamente le norme minime stabilite dai canoni delle Nazioni unite.

Nel bel mezzo del campo, un’enorme mappa mostra la posizione dei campi minati locali. Ogni giorno, più volte al giorno, camionette della polizia bosniaca riversano su Vucjak migranti che sono fuori dai circuiti dei centri di accoglienza temporanei, quelli dell’Organizzazione internazionale per le Migrazioni.

Come cani randagi, vengono scaricati in mezzo al campo, dopo aver aperto il portellone posteriore del furgone, sigillato da uno sfolgorante lucchetto. È strettamente proibito riprendere queste scene, non ci sono fotografie, video o materiali propagandistici, ma è una pratica che va avanti indisturbatamente.

Nonostante l’ingiustizia umanitaria, non sono le mine antiuomo, le condizioni precarie di salute o la mancanza di servizi igienico-sanitari che i migranti raccontano. Raccontano le violenze «passive» della polizia di confine. Nelle ultime settimane c’è un nuovo gioco che usa la polizia croata: rastrellare e bruciare cibo, vestiti, scarpe, zaini, telefoni dei ragazzi che tentano il game.

Nella programmazione dell’attraversamento del confine croato-bosniaco, si spendono circa 100 marchi (poco più di 50 euro) in generi alimentari, per lo più pane e derivati. Spesso quei 100 marchi rappresentano i risparmi di mesi, così bruciare il cibo diventa un segnale di terribile spietatezza.

Emad è fuggito dalla Siria, con la moglie e il figlioletto di appena due anni. Ha tentato il game ma l’hanno rispedito nel Borici temporary reception center della città di Bihac, derubandolo di tutto. Mentre lo staff medico dell’associazione italiana One Life Onlus visita il figlio, Emad ci porge una busta di plastica con un telefono all’interno. Ci chiede se lo vogliamo comprare, così con quei soldi può provare di nuovo ad attraversare il confine con la Croazia. È straziante. Non ci sono parole.

DAL GENNAIO 2018, quasi 36mila migranti sono entrati in Bosnia, rimanendo intrappolati tra le politiche europee, progettate per ridurre gli attraversamenti irregolari, e la situazione di stallo politico in Bosnia, che di fatto impedisce alle autorità locali di fornire protezione.

Dalla Turchia e dalla Grecia, sono due le principali vie di passaggio per la Bosnia: una attraversa la Macedonia del nord e la Serbia, l’altra attraversa l’Albania e il Montenegro.

In piedi nel campo di Vucjak, tra una folla di corpi maltrattati e ossa rotte, ci si trova di fronte alle feroci conseguenze della geopolitica europea. Nel cinico sforzo del governo croato di dimostrare di avere le carte in regola per aderire all’area Schengen di libera circolazione, il Paese respinge i migranti senza seguire le adeguate procedure di asilo.

IL VIAGGIO DI GULRAIZ inizia a Kunduz, in Afghanistan. Facciamo fatica a guadagnare la sua fiducia. La solitudine che accompagna i migranti è invalicabile. Sorridono, ma gli occhi sono vuoti. Mese dopo mese camminano senza alcun riposo e senza alcun appoggio. Si viaggia insieme ad amici di circostanza, a meri compagni di percorso.

Per un marco ha ricaricato il suo prezioso e vecchio telefono a Vucjak. Dopo qualche racconto, ci mostra sul telefono la mappa che userà per tentare il game partendo dal monte Plješevica, addentrandosi nel fitto bosco bosniaco, passando per la cittadina bosniaca di Šturlic, fino ad arrivare agli anelati cartelli del granicni prelaz, il valico di frontiera. Un firmamento di punti rossi, di luoghi, di coordinate, di passi compaiono sulla funzione ‘satellite’ di Google Maps.

Ci ferma un biondo poliziotto bosniaco. Camicia chiusa fino all’ultimo bottone, aria spavalda e bieche gambe di piombo. Ci prende i documenti. Cerca di intimorirci segnando i nostri nomi su un taccuino spiegazzato, senza darci alcuna spiegazione.

Il favoreggiamento all’immigrazione clandestina ha un confine sottile. Siamo costretti ad allontanarci. Lo facciamo con l’immagine negli occhi della mappa satellitare di Gulraiz, con le mani segnate da un viaggio inumano di Abdurahman che con ago e filo riparava il suo zaino, con gli occhi sgranati dall’incertezza dei ragazzi che non hanno un badge per il ’5 stelle’ dei centri di accoglienza temporanei.

Lasciamo la Bosnia con l’immagine di Ibrahim, poco più di tre anni, che segue camminando il suo papà, imitandolo con le braccia piegate all’indietro.

Il Manifesto ‘Il campo tossico dove l’Europa scorda i migranti’ di Federica Iezzi

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REPORTAGE. Nei Balcani la guerra dopo la guerra

Il Manifesto – 09 aprile 2019

La “nuova rotta”. Reportage dal confine croato-bosniaco, dove migranti, rifugiati e richiedenti asilo sono vittime dei respingimenti illegali e spesso violenti messi in atto con la complicità dell’Unione europea. Che all’assistenza umanitaria preferisce le frontiere blindate

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Bihać (Bosnia & Erzegovina) – Bira refugees centre One Life ONLUS/Renato Ferrantini

di Federica Iezzi

Velika Kladuša – Il viaggio di Nazim parte dal campo di Zeralda, a circa 30 chilometri da Algeri. È questo il punto di ritrovo per i trafficanti, ormai padroni indiscussi dei grandi deserti africani. Caricato come un numero su vecchi camion, con l’inconfondibile vessillo della Mercedes, viene trasferito a Tamanrasset, città dell’estremo sud algerino. «Lì arriva il biglietto per Agadez» ci dice Nazim con gli occhi di chi ricorda un momento di speranza. Il potente hub nigerino è la porta d’ingresso per la Libia. Abbiamo incontrato Nazim al Bira Refugees Centre di Bihac, nel nord-ovest della Bosnia. È qui che adesso vive.

I NUMERI UFFICIALI parlano di 2250 posti letto e 3914 persone registrate. Per l’81% si tratta di ragazzi soli provenienti per lo più da Siria, Afghanistan, Pakistan, Iraq, Iran. Dal gennaio 2018, oltre 23.000 migranti e richiedenti asilo sono arrivati in Bosnia. L’anno prima erano meno di 1.000.

Da Algeri sembra partire un filo diretto anche per la Turchia. Racconta Nazim: «In 24 ore e 80 euro si ottiene un visto online per la Turchia valido 180 giorni». Una volta a Istanbul la tappa successiva è la città portuale di Izmir. Da qui il passaggio nelle isole greche di Agathonisi prima e Samos poi, aprono la strada verso Atene.

DALLA GRECIA inizia la “nuova rotta balcanica” attraverso Albania, Montenegro e Serbia. «Dopo aver attraversato il confine serbo-bosniaco e passate le città di Bijeljina, Zvornik, Sapna, Kalesija, ci hanno trascinato nella città di Tuzla». Nella città nord-orientale bosniaca di Tuzla non si rimane per più di 24 ore. «Si parte presto per Sarajevo prima, e per Bihac poi».
Ufficialmente mediante una facile registrazione si ottiene il diritto legale di soggiornare in Bosnia per 14 giorni. Spesso questi documenti temporanei vengono distrutti per evitare la riammissione nel Paese e si chiede una protezione internazionale, in modo da avere almeno libertà di movimento dentro il territorio bosniaco.

«Stasera provo a prendere un autobus che da Bihac arriva direttamente a Zagabria – dice ancora Nazim -. Ho pagato il biglietto 13 euro. Spero solo che nell’autobus non ci siano controlli alla frontiera croata».

ANCHE AMNESTY International accusa l’Unione europea di essere complice dei respingimenti sistematici, illegali e spesso violenti e delle espulsioni collettive verso migranti, rifugiati e richiedenti asilo, sul confine croato-bosniaco.

Per capire le priorità dei governi europei, basta seguire il flusso di denaro. Il contributo finanziario all’assistenza umanitaria è marginale rispetto ai fondi forniti per la sicurezza delle frontiere, che includono equipaggiamenti “da guerra” per la polizia croata, aggiuntivi di generose retribuzioni.

E.B. è di nazionalità afghana. È di etnia pasthun. È un perseguitato politico. Il suo racconto è ricco di dettagli e particolari e parte da Helmand nel profondo sud dell’Afghanistan. Inizia con un’affermazione estremamente consapevole: «La distanza più breve tra l’Afghanistan e la Turchia, in linea d’aria, è di 2.947 chilometri e passa attraverso l’Iran».

E. B. RACCONTA come la rotta terrestre dall’Afghanistan attraverso l’Iran e la Turchia sia tradizionalmente usata anche per il contrabbando di oppiacei verso l’Europa». Gli chiediamo come mai in Afghanistan scelgono di passare attraverso l’Iran. La risposta è rapida e precisa: «L’Iran è la strada che tutti gli altri prendono». Le opzioni sono solo due. La prima, la meno quotata, è quella di avere un passaporto afgano e un visto iraniano valido. La seconda è quella invece di raggiungere l’Iran attraverso il Pakistan. E.B. mostra una mappa con una serie ordinata di punti rossi: Peshawar, Quetta, valico di frontiera Taftan-Mirjaveh (sul confine tra Pakistan e Iran), Taft, Tehran, Maku (nella stretta gola tra le montagne al confine con la Turchia), Dogubayazid e Istanbul. «Nell’area tra il confine pakistano e quello iraniano – racconta -, abbiamo dovuto camminare per 10 ore al giorno, senza acqua per 15 giorni. Al mattino, i contrabbandieri ci consegnavano pane e una bottiglia d’acqua che dovevano bastare per tutto il giorno. Seppur in 40 dentro lo stesso pick-up ci siamo mossi rapidamente attraverso l’Iran, ma in Turchia ci è sembrato di vivere in una moviola. Siamo arrivati a Istanbul dopo più di un mese. Da lì, i contrabbandieri ci hanno portato a Izmir».

LA TAPPA SUCCESSIVA, ci racconta, è stata la città della Turchia occidentale di Edirne, per arrivare sulla costa greca, evitando la Bulgaria.

La porta di ingresso nei Balcani è diventata la Macedonia. Qui i migranti ricevono documenti di transito ufficiali e aspettano un treno che li porti a nord verso il confine serbo. In alternativa attraversano frastagliate montagne e fitti boschi per raggiungere l’Albania prima, il Montenegro poi, solo per ritrovarsi bloccati nel collo di bottiglia bosniaco.

E.B. conferma che per molti, è stato necessario prendere in prestito denaro da parenti e amici e addirittura ipotecare le proprie case. Le modalità di pagamento, così come il costo del viaggio in Europa, variano molto: da 1.500 a oltre 8 mila dollari a persona. Il costo iniziale è di circa 500 dollari. I successivi 1.500 dollari vengono pagati all’uscita dall’Iran. Il contrabbandiere, spesso definito come un vero e proprio agente, riceve il pagamento concordato solo se il cliente arriva a destinazione.

LA TRATTA IN AFGHANISTAN funziona per lo più in comunità o in gruppi etnici. Se provieni da una determinata provincia, il tuo contrabbandiere sarà probabilmente della stessa area, percepita come più affidabile.

E.B. racconta che ha provato ad attraversare il confine tra Bosnia e Croazia per due volte. Lo chiamano the game, «il gioco». E sembra di essere all’interno di un malsano videogioco che parte intorno al monte Plješevica, ai piedi dell’abbandonata base aerea militare di Željava, utilizzata intensamente durante la guerra d’indipendenza croata nel 1991, prima dall’armata popolare jugoslava e in seguito dai serbi fino al 1995.

I cartelli rossi con le echeggianti scritte Pazi mine («Attenzione mine») e Zabranjen prolaz («Passaggio vietato»), eredità del conflitto degli anni ’90, disegnano il cammino di una guerra dopo la guerra.

E.B. la prima volta è stato trattenuto nella stazione di polizia di Slunj in Croazia, sul confine croato-bosniaco, senza avere accesso alle procedure di asilo. Rimandato indietro, se l’è cavata con qualche livido sulla schiena. E il ministro degli Interni croato Davor Božinovic continua a dichiarare con fermezza che la Croazia sta soltanto mettendo in atto azioni per impedire l’immigrazione illegale, in conformità con le sue responsabilità verso l’Unione europea.

E.B. MOSTRA UNA CARTINA in cui sono cerchiati i nomi di città e villaggi. «Quando andrà via la neve, voglio provare a camminare a piedi lungo la strada tra Plitvice e Korenica, per arrivare a Vrhovine, una città a metà strada tra i laghi di Plitvice e la città croata di Otocac. Poi attraverso Fiume raggiungere l’Italia settentrionale. Voglio arrivare in Francia o in Belgio».

Il Manifesto “REPORTAGE. Nei Balcani la guerra dopo la guerra” di Federica Iezzi

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Voices from Bosnia

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Bihać – Bira refugees centre

On Oslobođenje 21/01/2019

di Federica Iezzi

Bihać – The answers also come from the broken spirits and the bruised bodies of people like Maned.

A jacket of some size larger, a bag on the shoulders, an hand always stretched towards those who are more in difficulty.

Maned has traveled for miles to reach with his family Bihać.

“We walked for 15 hours a day, every day. Our journey started in 2015 in Herat “, he tells us. With a bus from Kabul they reached the city of Zaranj, in the southwestern afghan province of Nimroz, on the border with Iran and Pakistan. “We traveled with 20 other people, we passed the iranian border at Pul-e-Abrisham and then the border with Turkey, to reach the eastern turkish Van province”. The journey continues on foot, following traffickers, to the western turkish city of Edirne, on the border with Greece. “We spent a year trapped in Idomeni, in wet tents and unofficial camps. Then the transition to the Macedonian town of Lojane, a receptacle of traffickers and corruption, on the northeastern border with Serbia. For another year we were rebounded from one refugees camp to another in Serbia”. From Serbia to Bosnia the last obstacle is the city of Zvornik, on the Drina river. Defeated by fatigue and pain, stripped of his last savings, he says “I’m an engineer and I’m not working since 2015”.

How do smugglers get paid? This is one of the most interesting of the findings.

Migrant families don’t pay the money directly to smugglers, they pay the money to a third party, usually a money handler, normally in one of the main bazaars in Kabul. The money is only released by that third party to the smuggler once the migrant has arrived safely in his or her country of destination. So think about this, there is a money-back guarantee on smuggling. If you don’t make it to your destination safely the smuggler gets nothing. The money taken from the third party, from the money handler, goes back to the family and the whole deal is called off. This is how it works in Afghanistan.

Oslobodjenje ‘Migrantske rute su i rute trgovaca ljudima’


On Oslobođenje 14/01/2019

di Federica Iezzi

Bihać –  Usman can’t walk for more than half an hour without stopping. It is the sad result of croatian police violence on the refugees. “I walked tirelessly from Lashkar Gah”.

In the last weeks the italian NGO One Life ONLUS, in Bosnia and Herzegovina, has regularly treated patients, sometimes even women and small children, with wounds allegedly inflicted by state authorities when attempting to cross into Croatia, where, according to their testimonies, their claims for asylum and protection are regularly ignored.

Painful arms and legs, with visible bruises under the clothes and under the covers, are the news masks of the harsh Bosnian winter.

“I left Bira refugees centre, in Bihać, in the afternoon. It is an open camp”, Usman tells us. At the entrance to the field there is an almost frenetic coming and going of people.

“I stayed out all afternoon, I had my backpack with me, so maybe someone understood that I wanted to try to play – The Game -. I walked until Velika Kladuša”. From the north-western city of Bosnia, the border with Croatia is two kilometers away.

“At the border I was beaten by policemen”. Usman has extensive bruises on his leg, back and face.

The staff of Bira refugees center in Bihać know the stories like Usman one. They keep the bed for 48 hours for people who try to cross the border: it is sufficient time to understand if they can pass or if they are sent back.

After repeatedly being pushed back or forced to return to Bosnia on their own, asylum seekers find themselves in settlements such as open fields and squats while formal government camps are full.

“The use of violence is clearly not acceptable. It’s not acceptable under European human rights law, it’s not acceptable under international human rights law and it is to my mind also, not necessary.  It is possible to control borders in a strict matter without violence”, tell us dr Federica Iezzi, president of italian NGO One Life ONLUS.

Oslobođenje ‘Čemu nasilje policije nad izbjeglicama?’

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I manganelli croati sui sogni dei migranti

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Il Manifesto – 29 dicembre 2019

REPORTAGE. Arrestiamo umani. Braccia e gambe doloranti, con lividi visibili sotto vestiti e coperte: preda dei populismi, la fallimentare politica europea in tema di accoglienza sta affondando nelle fredde colline boscose del confine nord-occidentale della Bosnia con la Croazia

di Federica Iezzi

Sarajevo – Usman non riesce a camminare per più di mezz’ora senza doversi fermare. «E pensare che ho camminato senza sosta da Lashkar Gah». È il triste risultato dei manganelli della polizia croata sulle ossa dei rifugiati, già segnate dal freddo, dopo l’ennesimo sforzo infruttuoso di attraversare il confine croato-bosniaco.
Braccia e gambe doloranti, con visibili lividi sotto i vestiti e sotto le coperte: nuove maschere del rigido inverno bosniaco.

«SONO USCITO DAL CENTRO di accoglienza di Bira, a Bihac, di pomeriggio. Lì sei libero di farlo», ci racconta Usman. In effetti all’accesso al campo si assiste a un via vai quasi frenetico di ragazzi poco più che sedicenni, che arrivano al bar accanto e che tornano con burek e coca cola. «Sono rimasto fuori tutto il pomeriggio, avevo portato con me lo zaino, quindi forse qualcuno ha capito che volevo provare ad attraversare il confine. Ho camminato fino a Velika Kladuša». Dalla città nord-occidentale della Bosnia, la granica, il confine come lo chiamano i bosniaci, è a circa due chilometri.

Poco lontano dalla fila di auto regolari, popolate da famiglie regolari, che entrano in una Croazia pronta a difendere con ogni mezzo lecito e illecito il suo posto in Unione europea, spuntano le distese di reti e filo spinato, provviste di schieramenti di polizia, pronti a mandare indietro chi cerca irregolarmente di metter piede in terra croata.

LA CROAZIA È DAL 2015 governata dall’Unione Democratica Croata, partito nazionalista che onora i criminali di guerra, condannati per la pulizia etnica durante il conflitto degli anni ’90 nell’ex Jugoslavia, e che ha represso i molteplici crimini del regime fantoccio nazista croato, durante la seconda guerra mondiale. Il Paese sta attualmente spingendo per l’ammissione nella zona Schengen dell’Unione europea, e cerca di dimostrare di poter mantenere le sue frontiere sicure. Per cui il corredo dell’ingresso illegale è la violenza.

«Al confine sono stato picchiato dai poliziotti». Usman ha estesi ematomi su una gamba, sulla schiena e sul viso. Difficile non credergli. Difficile pensare che quel segno profondo sulla coscia non sia opera di un manganello.
Il personale del Bira refugees centre di Bihac conosce ormai a memoria le storie come quella di Usman. Mantengono il posto letto per 48 ore ai ragazzi che tentano di attraversare il confine: è un tempo sufficiente per capire se riescono a passare o se vengono mandati indietro. Se i ragazzi tornano dopo le fatidiche 48 ore, è vero che avranno perso il loro posto letto nella loro tenda, ma passeranno comunque le notti in brandine. Nessuno viene lasciato fuori. In realtà nessuno sente «proprio» quel luogo.

SONO SEMPRE PIÙ NUMEROSE le denunce per violenze e furti da parte delle forze dell’ordine croate, durante le espulsioni sommarie dal Paese.
Il Ministero dell’Interno croato respinge con fermezza ogni accusa, dichiarando semplicemente che l’Unione europea ha incaricato gli Stati membri di adottare tutte le necessarie misure legislative e amministrative interne, per contrastare i movimenti migratori. I funzionari dell’Unione europea, pur richiedendo controlli di frontiera più rigorosi, enfatizzano un approccio internazionale riguardo il trattamento umanitario verso migranti e rifugiati.

Nel frattempo, in questa spirale di dispute, senza vincitori né vinti, migliaia di migranti rimangono imbottigliati dentro e intorno alla cittadina nord-occidentale bosniaca di Bihac, prima di quest’anno conosciuta solo dagli amanti del rafting sul fiume Una.

FINO A 200 MIGRANTI continuano ad arrivare ogni giorno nell’area di Bihac. Nel Bira refugees centre ogni giorno inizia con la lotta per le scarpe e con la fila infinita per la colazione.

Secondo i dati diffusi dal Movimento Internazionale della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa, nel 2018 la sola Bosnia ha registrato l’ingresso di oltre 27.000 rifugiati e migranti, molti dei quali provenienti da Afghanistan, Iraq, Iran, Siria, Pakistan, Yemen, Africa del nord.
FARIDEH ARRIVA DALLA CITTÀ curda di Hamadan, in Iran. È rimasta per due anni in Serbia, principale punto di partenza verso gli stati dell’Unione europea, per chi attraversava la rotta balcanica, senza visto d’ingresso. Dal 2015 il confine settentrionale della Serbia con l’Ungheria è stato sigillato da una recinzione, per cui il flusso migratorio ha virato verso la Bosnia. I volontari medici dell’italiana One Life Onlus, che opera in Bosnia-Erzegovina a fianco dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, stanno visitando sua figlia Asma al Sedra refugees camp, uno dei due centri di accoglienza allestiti a Bihac, insieme al Bira refugees centre.

«NON C’È SPERANZA di passare» ci dice Farideh, con lacrime di disperazione e vergogna negli occhi. La fallimentare politica europea incapace di riconciliare la realtà populista anti-immigrati con la lotta umana per una dignità di sopravvivenza, è affondata nelle fredde colline boscose, lungo il confine nord-occidentale della Bosnia con la Croazia.

Le risposte arrivano anche dagli spiriti spezzati e dai corpi contusi di persone come Maned. Un giaccone di qualche misura più grande, una grossa busta sulle spalle, una mano sempre tesa verso chi è più in difficoltà.

In queste ultime settimane una coltre spessa di neve nasconde case, strade e montagne. La Bosnia appare così impervia, eppure nei -9 gradi del nord, gruppi di migranti e rifugiati si fanno largo tra i banchi di nebbia e le tormente di neve.

Maned ha percorso chilometri di manti ghiacciati all’alba, su tratti desolati, fuori dai centri abitati e dalle mappe stradali, per giungere con la sua famiglia a Bihac, teatro di orrendi combattimenti durante la guerra che ha travolto l’ex Jugoslavia nei primi anni ’90.

«ABBIAMO CAMMINATO per 15 ore al giorno, ogni giorno. Il nostro viaggio è iniziato nel 2015 da Herat» ci racconta.
Con un autobus da Kabul hanno raggiunto la città di Zaranj, nella provincia sudoccidentale afgana di Nimroz, al confine con Iran e Pakistan. «Abbiamo attraversato insieme ad altre 20 persone prima il confine con l’Iran a Pul-e-Abrisham e poi il confine con la Turchia, per entrare nella provincia orientale turca di Van».
Il viaggio continua a piedi, al seguito di trafficanti, fino alla città occidentale turca di Edirne, al confine con la Grecia. «Abbiamo trascorso un anno intrappolati a Idomeni, in tende umide e campi non ufficiali. Poi il passaggio in Macedonia, fino alla cittadina macedone di Lojane, ricettacolo di trafficanti e corruzione, al confine nordorientale con la Serbia. Per un altro anno siamo stati rimbalzati da un campo rifugiati all’altro in Serbia».

DALLA SERBIA ALLA BOSNIA l’ultimo ostacolo è la città di Zvornik, sulle rive del fiume Drina. Sconfitto dalla stanchezza e dal dolore, spogliato dei suoi ultimi risparmi, ci dice «Sono un ingegnere e dal 2015 non lavoro».

Chiediamo a Maned come vengono pagati i contrabbandieri. Il sistema è totalmente differente rispetto a quello usato dai migranti africani, per esempio. In Afghanistan il denaro per il viaggio viene affidato ad un cambiavalute, spesso nei bazar di Kabul.

«Il pacchetto di denaro viene consegnato al contrabbandiere solo se il migrante arriva in sicurezza nel Paese di destinazione prescelto, altrimenti l’accordo viene annullato e il denaro torna nelle tasche del migrante».

C’è dunque una sorta di garanzia di rimborso sul contrabbando. Continua «Come si sta in Italia? Mi hanno chiesto 4.000 euro per raggiungere Trieste o Milano».

Il Manifesto “REPORTAGE. I manganelli croati sui sogni dei migranti” di Federica Iezzi

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Crossing the border is the beginning of the story

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On Oslobođenje 27.11.2018
Interview to Federica Iezzi by Edin Salčinović

 

Why you joined the humanitarian mission?

I’m following the balkan route from august 2015, when I worked in sanitarian field in Gevgelija, Macedonia.
Despite declarations by governments that improvements need to be made to peoples’ immediate conditions, this is far from happening today.
Between March and August 2015 transit countries try to adapt to the unexpected and significant increase in arrivals with reactive policies. For example, due to the influx of people, Macedonia changed its ‘Law on Asylum and Temporary Protection’. Migrants now must obtain a document that allows them to legally transit through and leave the country within a period of 72 hours.
These policies represent cynical complicity in the organised business of reducing human beings to merchandise in human traffickers’ hands.
The recent rise in people using Albania, Montenegro, Bosnia and partly Serbia as a new transit route to reach Western Europe, re-opening the European migration policies dilemma.
That’s why with the italian NGO ‘One Life ONLUS’ we are supporting in sanitarian aspect the migrant needs.

 

With what you’ve been facing since coming to Bosnia?

Last october, with One Life ONLUS, I start an official collaboration with IOM (International Organization for Migration), already present in Bihać and Velika Kladuša refugees camps.
From the 2016 EU-Turkey deal, what we have seen in Greece, in France, in the Balkans and beyond, are a growing trend of border closures and push backs.
This agreement created in March 2016 meant to ensure the deportation of almost all asylum seekers arriving in Europe, and has seen thousands of people stranded in legal limbo in squalid conditions.
Blinded by the single-minded goal of keeping people outside of Europe, European funding is helping to stop the migration flows, but this policy is also feeding a criminal system of abuse.
All people need access to protection, asylum and increased voluntary repatriation procedures. They need an escape to safety via safe and legal passage, but to date, only a tiny fraction of people have been able to access this.

 

Infectious diseases still represent an important cause of morbidity and mortality. Are migrants at risk of infectious diseases?

The most frequent health problems of newly arrived refugees and migrants include infectious diseases, accidental injuries, hypothermia, burns, gastrointestinal illnesses, cardiovascular events, pregnancy and delivery related complications.
Vulnerable individuals, especially children, are prone to respiratory infections and gastrointestinal illnesses because of poor living conditions, suboptimal hygiene and deprivation during migration, and they require access to proper health care. Poor hygienic conditions can also lead to skin infections.
In spite of the common perception of an association between migration and the importation of infectious diseases, there is no systematic association. Communicable diseases are associated primarily with poverty. Migrants often come from communities affected by war, conflict or economic crisis and undertake long, exhausting journeys that increase their risks for diseases that include communicable diseases, particularly measles, and food and waterborne diseases.

 

How do economic crises affect migrants’ risk of infectious disease?

When people are on the move and reach geographical areas different from those of their home country, they are more likely to experience disrupted or uncertain supplies of safe food and water, especially under difficult and sometimes desperate circumstances. In addition, basic public services, such as electricity and transport, can break down. In these conditions, people may be more prone to use inedible or contaminated food ingredients, cook food improperly or eat spoilt food. Refugees and migrants typically become ill during their journey, especially in overcrowded settlements. Living conditions can lead to unsanitary conditions for obtaining, storing or preparing food, and overcrowding increases the likelihood of outbreaks of food- and waterborne diseases.

 

Could act of migration be viewed as an opportunity for improving health – for example, through ensuring immunisation for people from countries with disrupted services.

Basic water, sanitation and hygiene standards are frequently not met during the journeys of refugees and migrants. Border or arrival points frequently lack sufficient numbers of sanitation facilities and washrooms; drinking-water is often not available in sufficient amounts, and the origin is unknown or water is untreated; hand-washing with soap and personal hygiene, including laundry, is often compromised. Waste bins and regular removal of waste in reception centres are insufficient, posing additional health threats for migrants, as flies, mosquitoes and rodents readily find breeding places.
It is important to prevent the development and spread of foodborne and waterborne diseases among refugees and migrants, especially during their stay in camps, where these diseases can easily attain epidemic proportions, especially in spontaneous settlements.
Access to sanitary facilities, including hand-washing, and sufficient amounts of safe drinking-water is critical for the prevention of food- and waterborne diseases, and water, sanitation and hygiene facilities at border points and reception centres should be thoroughly assessed.
Despite the widespread availability of vaccines in all countries of the Region, many people are opting not to avail themselves of the benefits of immunization due to misconceptions about vaccines. For others, access to vaccination services may be problematic.

 

Winter comes. Do the refugees in the camps in Bihać and Velika Kladuša have adequate living conditions?

The needs of refugees and the internally displaced are significantly higher during winter.
With One Life ONLUS, I’m deeply worried at the situation of refugees and migrants faced with harsh winter conditions across Europe. We have stepped up our assistance in several countries, including Bosnia.
Saving lives must be a priority and we urge States authorities across Europe to do more to assist and protect refugees and migrants.
Thousand refugees, asylum-seekers and migrants living in Bosnia, are now accommodated in heated government shelters. However, we are concerned at the situation of refugees who still stay rough in inadequate informal sites on the borders.

 

Who is responsible for this situation?

Three years since the start of the European refugee crisis, the continent’s politics are still convulsed by disagreements over migration.
The European Union’s immigration policy is a failure and was the greatest mistake made and will only pave the way for a humanitarian catastrophe.
We strongly reiterate our call to increase safe pathways for the admission of people in need of protection, including via resettlement, family reunification, private sponsorship and other mechanisms to provide a viable alternative to irregular movement and reliance on human smugglers.
The last EU-Turkey deal threatens the right of all people to seek asylum and violates your obligation to assist them.
Pushing people back to their country of last transit transforms asylum into nothing but a political bargaining chip to keep refugees as far away from European borders and the eyes of the European voting public as possible. Today, there is virtually no option left for people to safely reach European shores to claim asylum.
This deal is sending a troubling signal to the rest of the world: countries can buy their way out of providing asylum. If replicated by many nations, the concept of refugee will cease to exist. People will be trapped in warzones unable to flee for their lives, with no choice but to stay and die.

 

Do you think that Bosnian politicians could do more for refugees?

Last year, there were fewer than 1.000 migrant arrivals to Bosnia, but this year the Balkan country has seen at least 14.000.
In Velika Kladuša, a makeshift field camp on the outskirts of the town is home to about 800 people. Basic tents made from wooden sticks and tarpaulin provide temporary shelter for those planning a crossing, and those arriving back from violent returns.
In nearby Bihać, about 2.000 people are living, 30 to a room, in the concrete shell of a half-built building, left uncompleted by the bosnian war.
And other refugees camp are under construction.
The numbers heading north from Greece via Albania, Montenegro and Bosnia have considerably increased since last year, with Bosnia now struggling to provide accommodation and food to around 14.000.
It has put a particular strain on Bosnia, still in the long process of recovery from a 1992-95 war that killed 100.000 people and left the country divided along ethnic lines.
Bosnians memories of war and deprivation are still fresh, some residents have been quick to help, organising volunteers and donating food and clothes. But the situation has stirred fear and prejudice in others.
Dozens of local councillors and mayors from northwestern Bosnia staged a protest over the state’s handling of the situation. They are not against migrants, but they ask the Council of Ministers to find adequate accommodation and to get them off the streets.

 

While I was with migrants, they was constantly asking: “Will border be open?”. What do you think about that?

Croatia’s border with Bosnia stretches for several hundred miles and is porous, but getting across the border is just the start of the game.
Those, with the 2.500 dollars smugglers charge for the trip to Italy, spend a week or more walking, sleeping in the day and moving by night, attempting to stay inside forested areas and avoiding roads and villages. Often, they are found by Croatian police close to the border with Slovenia, driven to the Bosnian border and unceremoniously shoved back.
Croatia is not part of the Schengen zone of free movement inside the EU, but hopes to accede to it soon, and as such is keen to prove it can police the EU’s external border. Croatia, governed by the alliance HDZ-Most since January 2016, thus began to protect the EU’s external borders, frequently resorting to illegal rejection and violence.
Amnesty International, as well as a number of Croatian non-governmental organisations and media, have documented cases of police using disproportionate force. The use of violence is not an exception, but a consolidated practice.
Minister of the Interior Davor Božinović has declined all responsibility, emphasising the need to control the borders and fulfill the technical conditions set by the European Union to enter the Schengen area, which Croatia hopes to access in 2019. The insistence on respect for the law in stopping the flow of what are now called ‘illegal migrants’ contrasts with the behaviour of the police, which uses violence and sabotages the right to asylum outside any form of legal legitimacy.

 

Many migrants want to come to Italy. Is Italy a good country for them?

UN was alarmed by recent anti-migrant violence in European countries like Germany, Austria and Italy.
Italians of all political persuasions are irritated by the way immigration has been mismanaged.
Italy’s interior minister, the leader of the hardline anti-immigration policy, has been accused of fomenting intolerance and hatred towards migrants with his uncompromising rhetoric. As head of the hard-right Lega Nord party, he made bold promises during Italy’s election campaign earlier this year to kick out half a million migrants. But rhetoric has fallen far short of reality.
A lack of bilateral agreements with source countries, making it hard to send some nationalities back home, as well as the time it takes to process migrants’ requests for asylum and the appeals they are entitled to lodge if rejected.
The insane decision to close Italian ports to NGO rescue vessels had had devastating consequences for vulnerable people.
Salvini’s rise to power has heightened concerns in Italy about the escalation of racist and xenophobic violence in the country.

 

Right-wing politics are in expansion in Europe. Is that dangerous?

Across Europe, nationalist and far-right parties have made significant electoral gains.
The joint programme for italian government includes plans for migrants mass deportations, in line with the strong anti-immigration stance.
From its beginnings, as an anti-euro party, the far-right Alternative for Germany has pushed for strict anti-immigrant policies.
A far-right party in neighbouring Austria has vowed a hard-line on immigration.
The anti-immigration Sweden Democrats made significant gains in the last general election. The party has its roots in neo-Nazism.
The french far-right National Front is opposed to EU and blames Brussels for mass immigration.
Last april, Hungary’s Prime Minister Viktor Orbán secured a third term in office with a landslide victory in an election dominated by immigration.
Although it fell a long way short of a majority, the anti-immigrant Slovenian Democratic Party was the largest party in 2018 general election.
Here the disastrous european landscape.

Oslobodenje “Prelazak granice je početak priče”

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Migranti sulla rotta balcanica

Mentinfuga – 08/11/2018

INTERVISTA a Federica Iezzi a cura di Pasquale Esposito

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Campi rifugiati a Bihać, nel nord della Bosnia-Erzegovina

Gli esseri umani, per sfuggire alle loro sofferenze causate da guerre, regimi dittatoriali, dalla povertà e dai cataclismi climatici, continuano a migrare. Quasi tutti i paesi oramai non provano nemmeno a trovare soluzioni, si adoperano solo per respingerli. Con Federica Iezzi, cardiochirurgo pediatrico e curatrice di un sito web di informazione (federicaiezzi.wordpress.com), parliamo della rotta balcanica e della situazione in alcuni campi al confine bosniaco-croato.

 

Prima di entrare nel vivo della nostra intervista vorrei chiederle di riepilogare, a beneficio di tutti, e per comprendere meglio il livello di chiusura che stiamo adottando, la collocazione dei muri anti-migranti in Europa

Mentre i governi europei sono riusciti ad arginare il flusso migratorio attraverso il Mediterraneo verso l’Europa, esiste purtroppo una vergognosa mappa di muri eretti sui confini di ciascun Paese della comunità europea.
Si inizia nell’agosto 2015 con la Bulgaria di Plevneliev e del muro lungo 269 chilometri che corre lungo il confine con la Turchia. Solo un mese dopo si continua con le immagini strazianti del muro di cemento e filo spinato e delle violenze nell’Ungheria di Orbán.
Nel 2016 è stata la volta della Slovenia che ha iniziato ad innalzare i suoi pannelli anti-migranti a Gruškovje e Obrezje. In tutto sono stati complessivamente dispiegati più di 180 chilometri di filo spinato dal valico di Gibina fino alla valle del fiume Dragogna in Istria, a difesa del confine esterno di Schengen.
Nell’aprile del 2016 l’Austria ha presentato ufficialmente il suo muro contro i migranti. E nel novembre dello stesso anno anche la Macedonia ha completato il suo muro, accuratamente sormontato da filo spinato, con il confine greco.
A questi si sono uniti Francia e Gran Bretagna con il grande muro di Calais, voluto dal governo di Londra per impedire ai migranti il passaggio dalla Francia.
Il quadro si completa con la Norvegia che ha aumentato i controlli alle frontiere e agli arrivi dei traghetti da Germania, Svezia e Danimarca. Rinforzo delle ispezioni e imposizione di misure severe anche in Belgio e Slovacchia.

La rotta balcanica che avrebbe aperto le porte all’Europa ancora nel 2015 vedeva transitare centinaia di migliaia di donne, bambini e uomini in fuga da guerre e miseria. Nel 2016 quando l’Unione europea ha chiuso un accordo miliardario con la Turchia si è teoricamente chiusa, ma di fatto il flusso migratorio non si è arrestato del tutto. Ora che gli ultimi governi italiani e l’Ue bloccano i migranti del Mediterraneo, i flussi migratori hanno ripreso pesantemente la strada della Spagna ed è nuovamente tornata alle cronache la rotta balcanica. È dì questi giorni la tensione al confine tra Bosnia e Croazia. Lei attualmente in quale area sta portando il suo aiuto?

Il flusso migratorio non si è mai arrestato. Alla chiusura di vecchi itinerari, è seguita l’apertura di nuove rotte.
L’Unione Europea versò nel 2016 tre miliardi di euro di aiuti nelle casse turche, per la sola gestione dei campi profughi. Per completezza di informazione la maggior parte di questi campi è non ufficiale, quindi tuttora i profughi al loro interno non hanno diritto a ricevere nessun sostegno da parte del governo Erdoğan. Inoltre l’Unione Europea ha mobilitato fino a un massimo di altri tre miliardi di euro entro fine 2018.
Continuano ad esserci forti difficoltà nel valutare l’impatto dei fondi investiti. Basti pensare che fra i canali di finanziamento sono finite anche forniture militari.
Attualmente, con l’organizzazione non governativa, One Life ONLUS, stiamo affiancando negli interventi sanitari, l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), nel cantone di Una-Sana, nell’area nord-occidentale della Bosnia-Erzegovina, al confine con la Croazia.
Le stime formali parlano di circa 3.000-3.500 migranti nell’area compresa tra le due città di confine bosniaco-croato di Bihać e Velika Kladuša.
Gli arrivi e le partenze cambiano repentinamente ogni giorno, per cui la più grande sfida rimane la sistemazione ufficiale. Abbiamo attraversamenti irregolari di confine e altrettanti violenti respingimenti in Croazia ogni giorno.

Vuole raccontarci quale atmosfera c’è tra i migranti, come dialogano tra di loro viste le culture e le lingue diverse, come sopravvivono? E le forze dell’ordine e i militari come si comportano?

I migranti in Bosnia sono per lo più provenienti da Afghanistan, Pakistan, Siria e Iraq, qualcuno dal Sahel dopo aver attraversato la rotta di Agadez. Di questi, la metà sono bambini tra i due mesi e i 16 anni. Alcuni con le mamme, altri sono soli, altri ancora sono accompagnati da amici di famiglia.
La sopravvivenza è legata al rispetto delle loro tradizioni. Ciascuna vita si interseca con l’altra. Non si avvertono distinzioni di etnia e religione.
I racconti sono amaramente comuni. Il viaggio spesso è fatto in silenzio, così nessuno può capire dall’accento la provenienza. Non si hanno notizie riguardo la propria famiglia per giorni, mesi. Né i propri parenti conoscono i luoghi dove sei. E questo è già sufficientemente inumano. Nonostante ciò ognuno di loro cerca di rendere normale la quotidianità. E io stessa mi chiedo come si fa a non essere esasperati.
I campi a Bihać e Velika Kladuša sono presidiati dalla polizia bosniaca. Piccole unità all’ingresso di ogni campo, come controllori dei movimenti.
A causa della mancanza di alloggi ufficiali, la protezione e la sicurezza diventano una preoccupazione. La vulnerabilità delle persone spesso sfocia in vere e proprie frodi da parte di contrabbandieri e trafficanti senza scrupoli
Altra storia sono le cruente testimonianze sui respingimenti violenti al confine con la Croazia. In nessun caso le forze dell’ordine avrebbero il diritto di usare la violenza, anche quando i migranti cercano di attraversare i confini in modo irregolare. È vero che ciascuno Stato ha il diritto di decidere se accettare o meno il migrante nel proprio territorio, ma i maltrattamenti non dovrebbero essere permessi. La nostra posizione ufficiale è molto chiara, nel rispetto delle leggi internazionali sui diritti umani, nel rispetto del diritto internazionale umanitario e nel rispetto del diritto di accesso all’asilo.

Quale situazione registra tra i migranti e la popolazione locale? È reale la solidarietà legata al richiamo del trauma della vicina guerra bosniaca?

Un aumento del 600-700% degli arrivi in Bosnia ha messo in crisi una struttura amministrativa già particolarmente complessa, risultato di un ‘patto di carta’, quello di Dayton del 1995.
Tutti gli abitanti della Bosnia, per interposti e contrapposti crimini, sono stati trasformati in profughi e la rotta balcanica occidentale, che solo due anni fa, sorprendentemente, non sfiorava il Paese, oggi riapre lacerazioni non ancora cicatrizzate.
Il primo obiettivo dei migranti, dall’ingresso in Bosnia, è Sarajevo, dove possono presentare una richiesta di asilo all’ufficio immigrazione locale. Mancando totalmente di strutture di accoglienza, solo fino a qualche mese fa nascevano accampamenti di fortuna nel centro storico della capitale, in condizioni disastrose. E a Sarajevo tutti gli abitanti hanno tragici ricordi della guerra, sanno con esattezza il significato dell’essere rifugiati, dunque il supporto è stato immediato e senza alcun compenso.
Malgrado ciò, tra gli abitanti del Paese si è creata una bipartizione ben chiara: c’è chi ha visioni nazionalistiche e addita i migranti come pericolo, e chi invece ci si rispecchia e li aiuta.
L’esempio più eclatante di questa bipartizione è stato il trasferimento dei migranti dal parco di Sarajevo al centro di Salakovac, vicino Mostar, nel Cantone dell’Erzegovina-Neretva, dove la popolazione principale, dall’enorme atteggiamento di ospitalità, è quella croata e bosniaca.
D’altra parte, la Repubblica Srpska, a maggioranza serba, ha categoricamente rifiutato di accettare qualsiasi migrante sul suo territorio.

La scorsa primavera il primo ministro bosniaco Denis Zvizdić annuncio che avrebbe rinforzato la polizia di frontiera per bloccare migranti illegali. Le politiche anti-migranti, in Bosnia, subiranno degli inasprimenti in considerazione della conferma dei due grandi partiti nazionalisti vincitori delle elezioni del 7 ottobre scorso, i nazionalisti bosgnacchi (SDA) e quelli serbi (SNSD)?

Nel corso dell’anno, pur essendo consapevoli dell’arrivo inevitabile di un numero sempre maggiore di rifugiati, le autorità bosniache non sono riuscite a rispondere adeguatamente alla crisi umanitaria. La risposta è arrivata, come spesso succede, dai semplici cittadini e da alcune organizzazione non governative internazionale.
Zvizdić, spalleggiato dalla Turchia, ha dichiarato in più incontri ufficiali che il Paese non ha alcuna capacità di accettare migliaia di rifugiati. La Bosnia conta ancora oggi circa 85.000 sfollati interni, triste risultato della guerra degli anni ’90, il che diminuisce necessariamente la capacità delle autorità di accettare e sostenere un numero, destinato ad allargarsi a macchia d’olio, di migranti. A questo purtroppo si aggiunge una chiara mancanza di volontà politica.
In un certo senso, non sorprende che il flusso migratorio sia stato trascinato nelle dispute politiche della Bosnia, come elemento di modifica dei dati demografici nel Paese e come elemento di minaccia alla sicurezza.
In un Paese disfunzionale e ancora profondamente diviso tra bosniaci musulmani, serbi ortodossi e croati cattolici, i migranti sono stati impugnati come arma politica.
Il leader separatista serbo (SNSD) Milorad Dodik ha chiuso i confini della Repubblica Srpska ai migranti, considerando una cospirazione politica l’arrivo e l’inserimento, nella trama territoriale bosniaca, di popolazione di religione musulmana.
Dunque, il successo delle due principali forze politiche della destra nazionalista, per niente disponibili a una società multietnica, potrebbe portare a debilitare le istituzioni statali stesse e per questo accodarsi alle incoerenti politiche sull’accoglienza ai migranti che imperano nell’Unione Europea.

Mentinfuga “Migranti sulla rotta balcanica”

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REPORTAGE “In fuga sulla ferita balcanica”

Il Manifesto – 27/10/2018

Reportage dalla Valle di Bihać. La rotta balcanica è ‘chiusa’ dal marzo 2016, ma nel 2018 sono stati migliaia i passaggi. Al confine croato-bosniaco 400 profughi da Siria, Iraq, Afghanistan e Sahel sono bloccati dalla polizia. Dietro c’è il Muro di Orbán. Camminano con una sola certezza ‘La guerra ci guarda da ogni direzione’

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Bosnia – Campo rifugiati di Velika Kladuša

di Federica Iezzi

Sarajevo – La rotta balcanica è stata calpestata da milioni di passi fino al 2016. Da Turchia e Grecia si addentrava per arrivare in Europa occidentale, attraversando Bulgaria e Macedonia prima, Serbia e Ungheria poi. Sebbene la rotta sia stata ufficialmente chiusa da quando il criminale accordo tra UE e Turchia è entrato in vigore nel marzo 2016, ci sono stati almeno 4.000 attraversamenti non documentati in Bosnia nei primi mesi del 2018. Spesso la provenienza è dai centri per richiedenti asilo e di accoglienza-migranti nelle regioni balcaniche meridionali, dove i rifugiati permangono ai limiti della sopravvivenza per mesi.

«LA POLIZIA di frontiera croata è l’ennesimo incubo» ci dice Faisal con visibili segni di percosse sul viso. Violenze, aggressioni e abusi sono i protagonisti dei racconti dei rifugiati. Il Ministero degli Interni croato nega tutte le accuse, insistendo sul fatto che la polizia ha sempre osservato la legge. «I rapporti della polizia croata sui cosiddetti pushback illegali non sono corretti», raccontano le dichiarazioni ufficiali.

LA POLITICA violenta di Orbán in Ungheria, la dura sorveglianza dei confini e la brutalità della polizia ungherese contro i migranti hanno spalancato le porte ad una nuova rotta attraverso i Balcani, che attraversa Albania, Montenegro e Bosnia. E così il commercio clandestino di essere umani, dal Sahel ha raggiunto anche la Bosnia. Qui i rifugiati pagano i contrabbandieri fino a 1200 dollari per il passaggio in Croazia o Slovenia. Altri tentano di attraversare il confine su camion o treni. La maggior parte ancora cerca di entrare in territorio croato a piedi.

DALLA GRECIA il passaggio in Albania è relativamente semplice sulla città di confine di Kakavia. A Tirana i taxi collettivi traghettano illecitamente i rifugiati fino al confine nord con il Montenegro. Nonostante il governo Rama conosca esattamente l’entità dei movimenti del passaggio non legale dei rifugiati, lo permette senza osservazioni. «In fondo in Albania rimangono solo per qualche giorno», sono le affermazioni dei funzionari, secondo i racconti raccolti tra i rifugiati.

UNA VOLTA giunti a Bozaj, sul confine montenegrino, la via continua seguendo a piedi la rete ferroviaria fino a Podgorica, la capitale montenegrina. È da qui che inizia il tragitto verso la Bosnia-Erzegovina, dove la sopravvivenza è legata spesso a campi non ufficiali e edifici abbandonati. Le strade partono dalle città meridionali di Trebinjie, Višegrad, Foca e Goražde, che attraversano l’intero Paese per arrivare nelle città nord-occidentali di confine di Bihać e Velika Kladuša. L’uso della violenza deliberata e calcolata da parte della polizia croata sul confine bosniaco-croato è l’ostacolo successivo, come accadeva con la brutalità della polizia ungherese sui confini della vecchia rotta balcanica. La Bosnia è sempre stata un rifugio per chi era in fuga. Nel 1400 accoglieva i profughi ebrei perseguitati in Spagna e Portogallo, e non nei ghetti, come fece la maggior parte dei Paesi europei, ma con l’integrazione a Sarajevo. E già dal Medioevo, il Paese accoglieva i catari del sud della Francia e i gli eretici bogomili.

NEI CAMPI profughi il tempo è fermo al giorno in cui ognuno dei rifugiati ha lasciato la propria casa. Per i bambini: lezioni a scuola congelate. Nessun lavoro per gli uomini. Nessuna quotidianità per le donne. Si dipende interamente dalla bontà o dall’indifferenza del vicino. Un crudele esperimento sociale. Nel centro di accoglienza di Bihać, per ora sono presenti almeno 400 rifugiati, per lo più provenienti da Afghanistan, Pakistan, Siria e Iraq, qualcuno dal Sahel dopo aver attraversato la rotta di Agadez. Di questi, la metà sono bambini tra i due mesi e i 16 anni. Alcuni con le mamme, altri sono soli, altri ancora sono accompagnati da amici di famiglia.

LA SITUAZIONE è totalmente diversa nel campo di Borici, tra Bihać e Cazin, dove le presenze cambiano freneticamente ogni giorno. Il ritmo incessante di nuovi arrivi e nuove partenze non permettono un censimento esatto. Ed è la stessa situazione che troviamo nel campo di Velika Kladuša, unico punto di raccolta gestito dalla municipalità della città, dopo la decisione dello stesso sindaco, Fikret Abdić , «originale» figura della crisi bosniaca. Già discusso manager del colosso agroalimentare jugoslavo Agrokomerc, a inizio guerra anni Novanta era il leader musulmano più popolare di Alja Izetbegovic. La rottura tra i due provocò quella con i musulmani di Sarajevo, quando Abdić proclamò la Regione autonoma del Bihać. Ne nacque una guerra feroce tra musulmani. Fu condannato a 20 anni per crimini di guerra in Croazia.

SEGUIAMO con gli occhi la ferrovia che attraversa la terra bosniaca e che si perde ai piedi dei boschi e tra i villaggi. Piccoli gruppi di rifugiati si fanno strada nella fitta nebbia delle montagne. Instancabili camminano verso nord, su strade secondarie, seguendo i binari dei treni o sfidando i boschi, dove non di rado pernottano. Basta guardare quanto fitti siano questi boschi di conifere, faggi e castagni, per capire come mai la scelta dei rifugiati sia caduta su questa via, in cui scemano le percentuali di essere arrestati e rimandati a morire nei propri Paesi. «La guerra ci osserva da ogni direzione. Non sai mai se ti stanno seguendo con un mirino o se sarai tu la prossima vittima», ci dice Saad. Le storie sono comuni e si ripetono in duri corsi e ricorsi storici. Il desiderio di ogni rifugiato è tornare nel proprio Paese di origine, anche se attanagliato e tormentato da migliaia di problemi. La guerra, la fame, la disperazione più profonda impedisce il rientro di questa gente nelle proprie case, nelle proprie vite. «Vedere morti e feriti abbandonati nelle nostre strade è normale», continua Saad. Questa è la grande distorsione dell’anima di quanto vivono. E allora chi è il vero responsabile dei flussi migratori?

«NON SO QUANTI chilometri a piedi ho fatto da Herat. Hai un paio di scarpe che ti devono bastare per tutto. Se è caldo o freddo non ha importanza. Alla fine di ogni giornata di cammino avevo le caviglie gonfie e ferite sulla pelle che non si rimarginavano mai. Si impara a sopportare quel dolore, così come quello delle ferite da freddo sulle mani. Respiri l’aria di chi cammina davanti a te. Il freddo ti entra nelle ossa. Ti scorre nel sangue. Di notte a volte non sai se sei ancora vivo o se sei morto. Se muoio, solo e abbandonato, a 4000 chilometri da casa chi lo dirà alla mia mamma? Quanto tempo ci vorrà per dimenticare tutto questo?». Ascoltiamo, indifesi contro l’indifferenza del mondo, in rispettoso silenzio, le parole e le lacrime di Tawfiq. Non c’è da aggiungere altro. Vengono etichettati come profughi, pensando che avere un permesso di soggiorno rappresenti il fine ultimo, quello che spalancherà loro la porta della felicità. Ma non è così perché quando la gente è costretta a lasciare il proprio Paese, quel Paese smette di vivere. Le poche cose che riescono a crescervi, marciscono in fretta.

IN QUELL’INFINITO viaggio porti con te solo un nome e cognome che ti martella la testa, nessun documento, nessun segno del passato. Sai solo come ti chiami e questo è l’unico patrimonio che puoi consegnare. Alla domanda come si continua a vivere in fuga dalla guerra, Taiba ci risponde: «Devi almeno pensare a quello che farai oggi e domani». Ha lasciato l’Iraq quattro mesi fa e spesso durante il viaggio l’unico tetto sopra la sua testa è stato un sottile telo di plastica sostenuto da bastoni. Ha smesso di fare piani per il futuro, ha smesso di sperare che tornerà a lavorare a scuola, ha smesso di credere che tutta la sua famiglia un giorno si riunirà. Ci dice, con una malinconica rassegnazione: «A Mosul non sarà possibile vivere per altri 20 anni».

NELL’ULTIMA campagna elettorale bosniaca, le voci nazionaliste sono state preponderanti. Qui il dopoguerra, in qualche modo, non è ancora concluso. In Bosnia Erzegovina tutti hanno vissuto la condizione di profughi e ora la nuova rotta balcanica occidentale, riapre lacerazioni non ancora cicatrizzate.

Il Manifesto “In fuga sulla ferita balcanica” di Federica Iezzi

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Srebrenica sanguina ancora

Frontiere News – 21 luglio 2015

Dopo vent’anni dal massacro degli oltre 8mila bosniaci, civili ed ex militari raccontano una delle tragedie umanitarie più orrende di tutti i tempi

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di Federica Iezzi

Sarajevo (Bosnia-Erzegovina) – Oltrepassati i venti anni da quell’11 luglio del 1995, quando 8372 uomini bosniaci furono massacrati a Srebrenica, nella Bosnia orientale, da parte delle forze serbo-bosniache, in una città designata dalle Nazioni Unite, come rifugio sicuro.

E così dopo Metz-Yeghern, Shoah, Cambogia e Rwanda, riconosciuti dalla Comunità Internazionale, un altro genocidio si è consumato in una guerra da 100.000 vittime, combattuta tra le linee etnico-religiose di ortodossi serbi cristiani, bosniaci musulmani e croati cattolici.

Nel maggio del 1993 l’ONU istituì come zone protette le città di Sarajevo, Tuzla, Zepa, Goražde, Bihać e Srebrenica. Nel luglio del 1995, l’area di Srebrenica, protetta dai 400 olandesi delle Nazioni Unite, subì un’offensiva dalle truppe della Vojska Republike Srpske, che entrarono definitivamente nella città. Il generale Ratko Mladić, con l’appoggio dei gruppi paramilitari, guidati da Željko Ražnatović, fecero di Srebrenica simbolo e prezzo dell’inazione internazionale.

“La guerra non finirà mai, fino a quando tutte le vittime saranno ritrovate, riconosciute e sepolte”, ci dice Azra, che ha ritrovato i resti di suo padre soltanto lo scorso anno. Ora sono custoditi in una delle centinaia di bare drappeggiate di panno verde, che riposano insieme a 6241 altre vittime. Continua “I combattimenti non ci sono più, ma ritornano rabbia, rancore e lacrime quando una nuova fossa comune viene individuata e il processo ricomincia da capo”.

Fino ad oggi, gli esperti forensi hanno riconosciuto poco meno di 6500 vittime, da 93 fosse comuni e 314 siti superficiali. Secondo l’elenco ufficiale dell’International Commission on Missing Persons sono classificati come “mancanti”,  7789 abitanti di Srebrenica, i quali vengono considerati vittime della strage del 1995, dal Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia.

Il 16 marzo 2006 il Tribunale dichiara che gli incriminati per l’eccidio di Srebrenica sono 161, 124 sono stati già processati. 43 dichiarati colpevoli, otto assolti, 25 scagionati dalle accuse, quattro trasferiti alle rispettive corti statali e sei nel frattempo deceduti. 37 i processi ancora in fase di svolgimento, tra cui quelli su Radovan Karadžić e Ratko Mladić.

“Srebrenica era una prigione, non un’area protetta dai caschi blu” racconta Aleza, oggi una donna di 53 anni. “Eravamo in 9000 a Srebrenica. Siamo diventati 42.000. Sfollati interni da otto paesi circostanti. Rifugiati provenienti dalle montagne che segnano ancora il corso del fiume Drina. Bambini senza cibo ne vestiti. Anziani senza acqua. Anche l’aria puzzava. Ecco cosa era Srebrenica”.

Stringendo la mano di sua figlia Amelia di 24 anni, all’epoca poco meno di una bambina, continua “Con altre 25000 persone, camminammo a piedi verso Potocari. Erano sei chilometri. Eravamo solo donne e bambini. La mia famiglia fu separata e da allora non vidi più Aiden, il papà di Amelia. Ammassati come bestie su vecchi camion a gasolio ci portarono a Kladanj e poi a Tuzla. A più di 100 chilometri dalla mia famiglia, da casa mia, dalle mie cose, dai miei ricordi. Non so ancora dov’è mio marito”.

Il dottor Sejad Mujkanovic, all’epoca parte delle milizie musulmane locali, ha gli occhi induriti dalla vita, come tutti qui. Guarda spazi vuoti che nessuno sa riempire. “Ero costretto ad amputare gambe e braccia senza anestetici, sotto le urla disumane di gente che conoscevo. Arrivarono i gruppi paramilitari serbi, legati all’odio di Mladić. A questi si unirono i miei vicini di casa. Li potevo riconoscere mentre rubavano, devastavano e incendiavano case, profanavano moschee e chiese senza nessun pudore, uccidevano fratelli con cui, fino al giorno prima, pranzavano insieme”.

E’ il mese del Ramadan e all’alba ogni mattina uomini, donne e bambini, iniziano il loro cammino verso la moschea nella città di Zvornik, oggi sotto il controllo serbo. A 50 chilometri da Srebrenica, nei raid del 1992 di polizia, militari e forze paramilitari ultranazionalisti serbe, furono uccisi almeno 750 bosniaci e furono espulse dalla città le rimanenti famiglie musulmane. In quegli anni, in Bosnia due milioni di persone furono costrette a lasciare le proprie case per fuggire da violenze e persecuzioni.

Incontriamo Hana. Ha 42 anni e non ha figli. Indossa il velo in quel modo particolare delle donne bosniache, con un nodo visibile all’esterno, ma con la stessa rigorosità che insegna il Corano. E’ penoso il suo racconto. Sa di amaro e mette a nudo l’ignobile essenza dell’essere umano. “Mi hanno violentata sulle montagne intorno a Srebrenica. Non so il luogo. Ne chi. Il capitano si faceva chiamare Slobodan ma non so se era il suo vero nome. Aveva una mimetica verde scuro, sporca di terra. Ordinava ai suoi uomini di farmi violenza. Hanno usato posizioni e ferocia che una ragazza di 22 anni non poteva capire. Sanguinavo dopo ogni rapporto, non so da dove. Le mie gambe erano sempre sporche di sangue. Mi toccavo ma non sentivo cosa sanguinava. Dopo la prima volta in cui il capitano si scagliò impetuosamente su di me non riuscivo più nemmeno a piangere. Lui si compiaceva mentre i suoi uomini lo guardavano abusare di me e aspettavano agitati il loro turno. Ero così piccola”. Hana si ferma. “Non ho mai potuto avere figli”. 50mila donne subirono violenza sessuale nel corso del conflitto bosniaco. Nessuno fu punito. Nessuna condanna.

E mentre a Sarajevo, nella Snajperska aleja, tuonano ancora le scritte sui muri “Pazi Snajper” (attenzione cecchini) e “Opasna zona” (zona pericolosa), il terreno intorno a Srebrenica continua a inghiottire ossa e resti di uomini mai ritrovati.

“Fucili, granate, bombe artigianali e carri armati serbi seppellivano ogni ora ragazzi, uomini, anziani. Quando oggi trovi un osso non c’è modo di sapere chi si ritrova. Un osso è solo un osso. Tu non sai a chi appartiene. Se a un cane o a un uomo” dice Emir.

Frontiere News “Srebrenica sanguina ancora” di Federica Iezzi

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