Perchè Kabul non è Saigon


15/08/2021 – Dalla Casa Bianca al Pentagono, dalla NATO alle cancellerie europee è gara a mascherare la sconfitta del ritiro delle truppe alleate dall’Afghanistan, annunciato dal presidente degli Stati Uniti, Joe Biden.
Del resto l’accordo firmato in Qatar dall’amministrazione Trump e dai talebani nel febbraio 2020, con l’esclusione del governo Ghani, aveva l’obiettivo di offrire a Washington l’alibi per il ritiro, non certo di conseguire la stabilità dell’Afghanistan con improbabili intese tra governo e insorti jihadisti.

Gravissimo quanto affermato dal Segretario di Stato USA, Antony John Blinken, in seguito all’insediamento del regime talebano a Kabul, ‘We went to Afghanistan 20 years ago, with one mission in mind, and that was to deal with the people who attacked us on 9/11. And that mission has been successful’.


WIKILEAKS https://wardiaries.wikileaks.org/


Mentre il piano di risposta umanitaria delle Nazioni Unite per l’Afghanistan rimane poco chiaro, milioni di civili rischiano di perdere spazi sicuri e supporto. La fornitura di assistenza umanitaria rimane limitata e difficile, sulla maggiorparte del territorio afghano.

Mesi di violenza hanno provocato frequenti interruzioni nei servizi sanitari. Almeno 14,5 milioni di persone (circa il 33% della popolazione totale) necessitava di assistenza sanitaria prima della recente escalation. Secondo il World Food Programme almeno 14 milioni di civili sono oggi obbligati ad affrontare una crisi alimentare già in atto (fase 3 IPC – Integrated Food Security Phase Classification). La metà della popolazione afghana, ovvero 18 milioni di persone, dipende da aiuti umanitari e il 97% di questa potrebbe presto sprofondare al di sotto della soglia di povertà.

Al Jazeera ‘Afghanistan – Visualising the impact of 20 years of war’


#analisi

di Federica Iezzi

La Turchia, unico Paese a maggioranza musulmana nella NATO, è stato a lungo diplomaticamente e politicamente influente in Afghanistan. Eppure ha profondi legami storici, culturali, religiosi ed etnici sia con l’Afghanistan, sia con il vicino Pakistan, il principale sostenitore del regime talebano.
Durante gli ultimi vent’anni, la Turchia ha mantenuto stretti legami con varie fazioni etniche e politiche in competizione nel Paese, con la capacità di influenzare voti, milizie e coalizioni di governo – compresi i talebani. I legami turchi sono particolarmente forti con le comunità di etnia uzbeka e turkmena dell’Afghanistan settentrionale.
La Turchia conta attualmente oltre 500 soldati in Afghanistan, impegnati prima nella missione ISAF (Forza Internazionale di Assistenza per la Sicurezza) poi nella Resolute Support Mission, truppe che non hanno mai partecipato attivamente ai combattimenti. Le loro attività si sono limitate a fornire sicurezza nella sezione militare dell’aeroporto di Kabul e ad addestrare le forze di sicurezza afghane.
A causa del suo ruolo ‘non attivo’ in Afghanistan, oggi la Turchia ha migliori relazioni con i talebani rispetto a qualsiasi altro Paese della NATO.
Sebbene i talebani abbiano già intimato alla Turchia di evacuare le sue truppe, Ankara sta facendo pressioni sul gruppo di combattenti affinché abbandoni le sue obiezioni anche attraverso i suoi preziosi alleati, Pakistan e Qatar. Indubbiamente, Turchia e Pakistan vantano forti legami strategici e hanno una visione politica sempre più allineata sulla scena globale. Entra nel quadro anche l’Ungheria di Orbán, che ha gestito la sicurezza nell’aeroporto di Kabul nel periodo 2010-2013. Gli ungheresi dunque potrebbero essere riconosciuti come partner esperti e affidabili.
L’attuale vuoto strategico in Afghanistan e il rapido peggioramento della sicurezza nel Paese, ha spinto la Turchia a chiedere sempre maggiori responsabilità nella gestione e nella protezione del cruciale aeroporto Hamid Karzai di Kabul, la principale porta d’accesso in Afghanistan.
E’ evidente che l’aeroporto di Kabul continuerà ad avere un’importanza strategica per i Paesi della NATO, per il mantenimento di una presenza diplomatica nei prossimi mesi e anni.
Il presidente turco non ha mai nascosto il suo desiderio di aumentare il peso politico della Turchia nel mondo musulmano. Sotto il suo governo, la Turchia ha notevolmente aumentato la sua influenza nell’Asia meridionale musulmana. Ankara è impegnata militarmente e diplomaticamente in molti teatri contemporanei – Libia, Siria e Iraq direttamente, Ucraina e Caucaso nella cooperazione in materia di sicurezza, Africa come progetti di sviluppo. E nell’era post-USA, Ankara ha molto da guadagnare rimanendo un attore chiave in Afghanistan.
Negli ultimi anni, il governo Erdogan ha compiuto diverse mosse di politica estera volte a mettere da parte l’Arabia Saudita e collocare la Turchia come il nuovo leader del mondo musulmano sunnita. Ha partecipato attivamente ai conflitti regionali, come la guerra in Siria, contro l’Arabia Saudita e i suoi alleati, ed è stata esplicita nelle sue critiche a Riyadh su varie questioni, dall’embargo contro il Qatar all’assassinio del giornalista saudita Jamal Khashoggi.
Mantenere un ruolo attivo in Afghanistan, dopo il ritiro degli Stati Uniti, aiuterebbe la Turchia ad aumentare la sua importanza all’interno della NATO e a sanare le relazioni tese con gli stessi Stati Uniti.
A Bruxelles, il segretario generale della NATO Jens Stoltenberg ha sottolineato l’importanza della Turchia e il ruolo chiave che potrebbe svolgere in futuro in Afghanistan. Nessun piano di spiegamento è stato ancora deciso ufficialmente, anche se i negoziati tra Ankara e Washington potrebbero attualmente essere in corso dietro le quinte. Gli storici avversari NATO, Russia e Iran, così come l’Arabia Saudita, combattono contro la presenza turca in Afghanistan.


26/08/2021 – Almeno 175 civili uccisi e centinaia di feriti sono il risultato dell’attacco suicida nell’aeroporto Hamid Karzai di Kabul, rivendicato dall’Islamic State in Khorasan Province (ISKP). L’ISKP è una diretta appendice dello Stato Islamico. Khorasan si riferisce alla regione storica, sotto un antico califfato, che includeva aree in Afghanistan, Iran, Pakistan e Turkmenistan.

La banale risposta del presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ad un copione già scritto, non tarda ad arrivare ‘We will hunt you down and make you pay’.

Come atto politico dovuto, gli Stati Uniti, usando un drone reaper, hanno compiuto un gesto di rappresaglia nell’area di Nangharar, provincia afghana nord-orientale, storica base ISKP.


06/09/2021 – Mentre i talebani rivendicano la loro vittoria sulle forze di opposizione nell’ultima provincia del Panjshir, l’anti-Taliban National Resistance Front (NRF), afferma di essere ancora presente in posizioni strategiche nella valle del Panjshir, per continuare la lotta. Proprio il Panjshir, un’aspra valle tra le montagne a nord di Kabul, ha resistito al controllo sia dell’esercito sovietico durante la lunga guerra negli anni ’80 sia del governo talebano dal 1996 al 2001.


07/09/2021 – Annunciato governo ad interim in Afghanistan. Il premier si conferma il mullah Mohammad Hassan, già capo del Consiglio direttivo dei talebani, la Rahbari Shura – inoltre figura nella lista dell’ONU di persone designate come ‘terroristi o associati a terroristi’. Il suo vice sarà il mullah Abdul Ghani Baradar, co-fondatore dei talebani, negoziatore con gli USA a Doha. Mawlawi Mohammad Yaqub, figlio del mullah Omar, guiderà il Ministero della Difesa e Sirajuddin Haqqani, figlio del celebre comandante della jihad anti-sovietica Jalaluddin Haqqani, quello dell’Interno.

A nessuna donna, di alcun gruppo etnico o movimento politico, è stato assegnato un incarico. Così come alla minoranza hazara, il terzo gruppo etnico più numeroso dell’Afghanistan. Nella nuova amministrazione i pashtun rappresentano oltre il 90% del quadro governativo.


17/09/2021 – Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha deciso all’unanimità di rinnovare il mandato UNAMA – United Nations Assistance Mission in Afghanistan, per ulteriori sei mesi. Stabilita nel 2002, la missione continuerà la sua funzione di state building.

Quaranta milioni di afghani vivono nel timore di un disastroso crollo del sistema sanitario. Farmaci, forniture mediche e carburante rasentano già la carenza cronica. Mancano strutture ospedaliere e programmi di prevenzione. Difficile è l’accesso all’assistenza sanitaria di base. I professionisti sono stati costretti a lasciare il Paese e sono assenti programmi di formazione medica.

Da quando i Talebani hanno ripreso il controllo del Paese, Il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, hanno bruscamente frenato il flusso di assistenza in Afghanistan. I finanziamenti internazionali permettono di finanziare circa l’80% del bilancio statale e nel 2020 i flussi di aiuti esteri hanno rappresentato circa il 43% dell’economia del Paese.

Cresce il numero di sfollati interni secondo l’Internal Displacement Monitoring Centre. Maggiormente colpite le province di Kandahar, Helmand e Uruzgan, con un totale di 35.000 sfollati interni. E quelle nordorientali di Takhar, Kunduz, Baghlan e Badakhshan con almeno 49.000 sfollati interni.


In Afghanistan scuole medie e superiori restano chiuse alle ragazze. Per ora alle studentesse afghane sarà permesso l’accesso all’educazione primaria. E’ l’unico Paese al mondo a vietare, di fatto, l’istruzione femminile. Mahbouba Saraj, attivista afghana e presidente della NGO Afghanistan’s women network afferma che i talebani non avranno altra scelta, se non quella di rispettare i diritti delle donne afghane se vogliono sfuggire al collasso economico, all’isolamento diplomatico e restare al potere. Tuttavia, nonostante il discorso apparentemente pacato e assecondante dei rappresentanti del movimento islamista al potere, Seraj non crede alle promesse dei talebani quando assicurano che le donne afghane potranno, molto presto, tornare a lavorare e studiare.

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Grida il nome di Allah

Cortile interno della moschea di Abu Fazal a Kabul

Cortile interno della moschea di Abu Fazal a Kabul

 

LiberArt – 20 aprile 2014

 

Kabul (Afghanistan) Era il 6 dicembre di poco più di due anni fa. Nella rigida Kabul come per gli sciiti di Iraq, di Iran e Yemen era la festa dell’Ashura.
L’Ashura commemora la battaglia di Karbala in Iraq e il martirio dell’Imam sciita al-Husayn ibn Ali, con un periodo di digiuno di due giorni, il 9 e il 10 del mese lunare di muharram, primo mese del calendario islamico.
Azem-Gul ha sette anni, ha una cardiopatia congenita. E’ stato operato appena nato in India, grazie ai risparmi di una vita della famiglia. Fa parte dell’esigua minoranza sciita afghana, storicamente prevaricata e tormentata dai sunniti talebani.
Con suo nonno ricordava la sofferenza e il sacrificio di al-Husayn ibn Ali, tramite preghiere, pianti, racconti e flagellazioni, nella moschea sciita che ospita la tomba dell’imam Abu Fazal Wali.
Il gesto violento eseguito in massa dell’autoflagellazione con spade e catene è il cuore vibrante della commemorazione dell’Ashura. E’ il simbolo del rimpianto che si ripete anno dopo anno, di non aver potuto aiutare al-Husayn ibn Ali e i suoi seguaci nella battaglia, in cui prese vita la separazione tra sciiti e sunniti.

Nelle prime ore di luce un prepotente fragore ha riempito l’aria sporca di Kabul. Quel giorno, la moschea sciita è stata l’obiettivo di un brutale attacco dei terroristi pakistani.
Un kamikaze si è fatto esplodere investendo i fedeli in processione. E non si è fatta differenza tra bambini, anziani, malati o sani.
Sconvolgenti le scene di dolore e disperazione mostrate da tutte le televisioni. Parole in arabo riempivano confusamente radio e giornali.
Si cercava il numero di morti, il numero di feriti, i nomi, i figli, le madri, i padri. Feriti a terra inermi con rivoli di sangue rosso vivo che coloravano i marciapiedi, brandelli di cadaveri sulle strade dove le auto continuavano quasi non curanti a calpestare.
I passanti che diventano soccorritori. I soccorritori che diventano vittime. Tutti aiutano tutti. Ognuno di loro lotta per la vita e, nella più rovinosa disperazione, trova il tempo per aiutare chi gli è accanto in quel momento, non importa se è sciita o sunnita, pashtun o hazara.
Nell’eco dell’esplosione grida di centinaia di bambini. Il risultato di alleanze, tradimenti e massacri. Tra quei bimbi c’è anche Azem-Gul.

Impotente il nonno, coperto di polvere, con schegge scure che gli feriscono profondamente le mani, con una miserabile e malferma corsa lo porta in braccio, dentro l’enorme ospedale pediatrico francese. Grida il nome di Allah. Lo grida inconsolabilmente, furiosamente.
Ma in quelle stanze non c’è Dio, ci sono solo poveri uomini che cercano di fare tutto quello in loro possesso, nel disastro più estremo, per strappare anche un bimbo in più da una morte sleale.
Il rumore del tritolo ha percosso rabbiosamente le orecchie di Azem-Gul, per giorni, mesi, anni. Ha ricevuto tutte le cure, ma l’anima è ormai malata.
Quelle schegge sulle mani di suo nonno non sono andate più via. Sono un segno di quel giorno maledetto. Quelle cicatrici di Azem-Gul oggi sono ancora lì. Sotto alla cicatrice una voragine.

 

LiberArt “Grida il nome di Allah” – di Federica Iezzi

 

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I meno due gradi delle notti afghane

Missione di cardiochirurgia – French Medical Institute for Children – Kabul (Afghanistan)

 

Soraya 5yy - Atrial septal defect - In ward after surgery with her mum

 

Soraya arriva dal sud dell’Afghanistan, terreno incontrastato dei talebani. Hanno scelto questo nome dal plurale di “talib”, che significa: colui che cerca la conoscenza. Sono apparsi come i primi difensori disinteressati dei più deboli, contro i rapaci signori della guerra, per poi finire ad applicare la più rigida e inumana interpretazione della shari’a.

L’abbiamo chiamata un tardo pomeriggio sul telefono per andarla a prendere nella sua casa vicino Kandahar e per portarla in ospedale. Ma il telefono non squillava, non sembrava nemmeno spento. Poi mi hanno spiegato che nella terra dei talebani tutte le comunicazioni, per cui anche le linee telefoniche, vengono interrotte ogni giorno dalle cinque del pomeriggio alle sette del mattino successivo.

Con la sua mamma ha dovuto camminare per tre giorni, prima di arrivare a Kabul, nei meno due gradi della maggior parte delle notti afghane. La mamma ha perso un braccio durante la guerra, quando i frutteti di melograni afghani sono improvvisamente diventati pesanti e aridi campi, disseminati di mine antiuomo.

La mamma di Soraya mi racconta in pashtu che mentre si esce dagli ultimi sobborghi dei centri abitati, negli spogli e devastati altipiani, non è raro incontrare cimiteri, anche non lontani dalle abitazioni. Le tombe sono indicate con pezzi di lamiera o spuntoni di sassi piatti e c’è una netta separazione tra quelle pashtun e quelle hazara. Non c’è più un fiore e raramente si intravede un nome. Quando era ancora una ragazza, amava raggiungere quella Kabul dai soli 600.000 abitanti, con case semplici e pulite, al massimo costruite su due piani. Adesso fa fatica a riconoscere la Kabul dai sei milioni di abitanti, con palazzi alti quanto le montagne brulle e con un traffico disorganizzato e disarmonico. I talebani hanno proibito le immagini del mondo dei sogni di Bollywood o di Hollywood, che una volta erano disseminate sui muri della città, perchè non è consentito guardare una immagine senza anima, per preservare l’integrità e il carattere islamico dell’Afghanistan.

A Soraya abbiamo tolto il tubo che l’aiutava a respirare solo dopo due ore dall’intervento al cuore. Una cosa che può risultare naturale nei paesi facoltosi, dai grandi sprechi, qui diventa un grande successo. Viste le spese altissime, contro cui una famiglia deve combattere per raggiungere un ospedale, almeno per chi ha la fortuna di avere uno stipendio che oscilla tra uno e tre dollari al mese. Visti i nemmeno 10 chili che i bambini pesano a 5 anni. Visto che invece di usare le bruciature sulla pelle all’altezza del cuore, una madre può vedere correre la propria figlia, senza il terrore di trovarla ferma ai bordi delle strade polverose, con la schiena curva per la mancanza d’aria.

Spesso Soraya dimenticava di indossare il suo velo, quando correva su e giù per il corridoio del reparto, sempre inseguita dagli occhi vigili della mamma, così i suoi capelli corvini sembravano trasportati dal vento. Quando era stanca si aggrappava al lungo abito di velluto della mamma, alzava la sua innocente manina per salutare tutti e tornava nel suo letto. La madre stendeva un tappetino per terra e insieme alla figlia iniziava la ṣalāt al-ʿaṣr,la preghiera del pomeriggio.

 

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Racconti dall’Afghanistan

 

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Missione cardiochirurgica French Medical Institute for Children – Kabul (Afghanistan)

 

 

Afghan child

Afghan child

Una distesa di montagne impenetrabile, dipinta del colore candido della neve, con un labirinto di vie sfumate che sembravano essere state tracciate solo con la matita, capaci di sparire nel nulla da un momento all’altro.

Sulle montagne che circondavano come una poderosa cintura Kabul, irrompevano grossi massi bianchi. Le traiettorie rettilinee tra questi massi indicavano le zone prive di mine antiuomo, per cui le zone sopra le quali era possibile camminare.

Non è stato difficile capire che ero atterrata in un Paese che portava ancora profonde e insabbiate ferite di una estenuante guerra. Quello che si respirava nelle strade di Kabul era l’aria fredda e secca della montagna e la polvere in grado di permeare ogni cosa, perfino quell’aria che sembrava immacolata. Il fragile sole riscaldava la terra arida ma era poco per coprire la rigidità dell’inverno. Ogni angolo era occupato da militari e polizia locale con in braccio le loro armi e con le cartucciere a tracolla. Apparivano repentinamente quasi scolpiti nel paesaggio. Sfrecciavano invisibili mezzi e personale dell’UN e della NATO con tutti quei nomi strani delle varie “missioni di imposizione della pace” che si sono susseguite.

Ai lati delle strade caotiche, in continuo mutamento, vive e vissute, vecchi uomini dai lineamenti scolpiti vendevano legna. Avevano una lunga barba curata, erano vestiti con i loro shalwar, larghi e cascanti pantaloni a mezza gamba, e lunghe casacche chiare con sopra una specie di gilet scuro ed erano coperti da ispidi mantelli di lana. Il loro capo era coperto dai chapans, dalle kefiah o dai pakul. E rispetto alla posizione del copricapo, si poteva percepire se erano sciiti o sunniti.

Una donna per stare fuori di casa doveva mettere il velo. Le anziane donne portavano ilburqa afghano blu, con una retina posta all’altezza degli occhi che permette solo una visione parziale, si vede solo ciò che è davanti a te e non lateralmente. Le donne adulte invece indossavano il chadar, simile al burqa completo, con la differenza che sul davanti questi abiti coprivano solo il petto, le braccia rimanevano scoperte. Le origini di questi indumenti risalgono ai primi anni del ‘900, con la motivazione di proteggere la bellezza delle donne, la profondità degli occhi e il colore della pelle. Il Corano infatti parla della sola copertura del capo, non accenna invece alla copertura del viso o del corpo. Le ragazze portavano solo la hijab. Le bimbe erano autorizzate a tenere il capo scoperto, anche se tutte, incredibilmente, sceglievano di mettere un sottile velo sulla testa, forse più per ripararsi dal freddo.

Le case erano costruite con mattoni di fango, intonacate dallo stesso fango, e apparivano, agli occhi ingenui, protette da alte mura di cinta. Attraverso le fessure nei muri, passavano indisturbati i raggi di quel fragile sole.

L’ospedale era affacciato su uno dei viali più grandi di Kabul, in una zona vecchia della città, dove negli anni ’20 sorgeva il primo ospedale, devastato dalla guerra. Sono rimasti solo la muratura di un vecchio edificio, pieno di buchi di kalashnikov, e un ponte che metteva in comunicazione due ali dell’ospedale. Tutto era circondato da conifere che creavano un vasto giardino interno. Oggi di quegli alberi sono rimasti solo alcuni abeti, del giardino non è rimasto nulla, solo ghiaia polverosa e un’altalena di ferro dove i bimbi giocano senza allegria. La terra è disseminata dai segni della guerra: frammenti di proiettili, alberi sfrondatie spogli, macerie di muri crollati.

Il saluto per queste persone è l’inizio di una conoscenza profonda che non ci si aspetta, ma che invece contro tutto e tutti si arricchisce ogni giorno di piccole cose. Il palmo della mano destra portato sul cuore mentre si scandisce “Salam alaykum” e una tazza dell’asiatico te verde bollente senza zucchero: si inizia così. I pasthun, tra i più conservatori, componente etnica principale dei talebani, raccontavano le loro storie di guerra, come facevano i nostri nonni con la seconda guerra mondiale. Loro non hanno mai lasciato l’Afghanistan per i campi profughi pakistani, per l’Iran, l’India e l’Europa; nei momenti più difficili, loro erano accanto alla loro terra.

Convivono decine di etnie in Afghanistan, quattro sono le principali: pashtun, tagiki, uzbeki, hazara, con le loro rispettive quattro lingue: pashtu, dari, uzbeko, hazaragi. Queste popolazioni sono disposte ai quattro angoli della cartina afghana. Le montagne e la lacuna di comunicazioni, danno oggi il risultato che questi quattro popoli, figli della stessa terra, non si possano comprendere tra di loro.

I pashtun hanno grandi occhi marroni, la carnagione scura e molti di loro hanno la barba curata, segno distintivo di un uomo diventato adulto.

Capelli e occhi scuri disegnati sulla pelle chiara: è la fisionomia dei tagiki.

Gli uzbeki, ruvidi e duri, hanno occhi a mandorla, gote rosse, perchè abitano alte montagne, e capelli corvini.

Il popolo hazara, dai lineamenti marcatamente asiatici, discendono da incroci tra guerrieri mongoli. Hanno visi tondi come bamboline cinesi, pelle chiara con qualche lentiggine, occhi azzurri, capelli ramati.

L’adhan in Afghanistan si infiltra tra le vette elevate delle montagne, attraversa le vallate, punge l’aria fredda per arrivare nelle case di chi aspetta di pregare. Il richiamo lento e scandito accompagna gli uomini e le donne che sopravvivono grazie al ripetersi di questi semplici rituali.

Questo splendido Paese continua a ferire se stesso in uno spaventoso susseguirsi di alleanze, tradimenti e massacri. Non immagini mai il rumore di un’esplosione fino a che il fragore violento non ti entra prepotentemente nelle orecchie e non ti rimbomba in testa per giorni. Perchè la bomba non fa differenza tra bambini, anziani, malati o sani. E dopo pochi minuti, ti ritrovi inerme dentro un enorme ospedale, in compagnia solo delle grida di centinaia di bambini, che invece per natura dovrebbero correre e giocare liberi sulle strade. Tutti aiutano tutti, questa gente è speciale. Ognuno di loro lotta per la vita e, nella più sconvolgente disperazione, trova il tempo per aiutare chi gli è accanto in quel momento, non importa se è sciita o sunnita, pashtun o hazara. Si pensa alla sala operatoria come ad un luogo magico, da cui si ritorna come prima. Ma in quella stanza non c’è Dio, ci sono solo poveri uomini che cercano di fare tutto quello in loro possesso, nel disastro più estremo, per strappare anche un bimbo in più da una morte sleale. Ci sono cose che non si possono raccontare, l’unica maniera di conoscere è sentire e vedere.

Sono affascinanti i minuscoli panifici di Kabul. In Afghanistan molte famiglie dipendono da questa attività e dal consumo del Nan-i-Afghani, il pane non lievitato che mangiano tutti gli afghani.

All’interno dei negozi, ci sono spesso bambini vestiti di bianco, scalzi, nonostante le temperature glaciali, che lanciano mucchietti di pasta ammassata al cuciniere. Questo, dopo averla stesa, la introduce ordinatamente in forni verticali, differenti dai nostri forni dalle forme orizzontali e con due ferri lo fa aderire alle pareti. Dopo pochi secondi lo tira fuori, fragrante e caldo. E sorridono, divertiti per l’intrusione di stranieri buoni.

In alcune zone di Kabul i mujaheddin tagliarono le linee per la conduzione elettrica. Per cui nel bel mezzo di una città, che fa di tutto per mostrarsi moderna e competitiva con la prosperità occidentale, appaiono queste zone prive di luce elettrica e illuminate nella notte solo da flebili fiammelle. In queste zone, il balcone di ogni casa è dotato di un piccolo generatore di corrente. Il rumore che proviene da quell’aggeggio è continuo e penetrante. Dopo il tramonto del sole, Massud e i suoi “combattenti per la fede”, non permettevano quel rumore, così tutti i generatori si spegnevano e nelle case iniziavano a comparire fioche luci, date dal fuoco.

Al tramonto le vie di Kabul sono deserte, solo le ombre non definite di persone senza una casa, si riscaldano ai piedi di piccoli fuochi, ai lati delle strade.

Nell’intenso buio si vedono solo girare i lampeggianti blu delle auto della polizia locale, si intravedono uomini armati ad ogni incrocio, con indosso una sorta di passamontagna nero e con grosse torce in mano. Non è difficile notare che al passare di ogni auto, questi uomini guardano, come prima cosa, se le donne portano il capo coperto. Quando nella notte di Kabul, apparivano come fulmini, lampeggianti verdi, ti dovevi aspettare massicci mezzi blindati che solcavano le strade, con le loro scritte “Army”, e ti dovevi aspettare una perquisizione attenta ed accurata.

Arti artificiali, grucce e sedie a rotelle sono parte integrante del commercio afghano. Enormi gruppi di bambini affollano le riabilitazioni dopo essere saltati su una mina antiuomo, mentre in primavera rincorrevano i loro aquiloni, e dopo aver perso le gambe e le mani. Aspettano la loro protesi e, senza versare una lacrima, iniziano il rito. Indossano una calza di lana marrone, utilizzata per non creare piaghe sullo strato delicato di pelle che risulta dopo un’amputazione, poggiano la protesi a terra e la indossano con un movimento sicuro e veloce. Le lunghe sale li aspettano. Pronti, iniziano a camminare, appoggiati alle sbarre di metallo.

Nel centro della città, quasi tutti i piccoli edifici a un piano che si affacciano sulle strade, ostruite di traffico e di bambini, che corrono tra buche e deviazioni, da un’auto all’altra, elemosinando o vendendo piccoli articoli, sono botteghe in cui si macella carne, si vendono stoffe, pelli o tabacco, si riparano scarpe.

Questi edifici si nascondono tra alti muri in cemento, i cui profili sono disegnati da filo spinato, tra fortini in miniatura, dotati di sacchi di sabbia e poliziotti o militari afghani armati di mitragliatori, con lunghe cartucciere sempre piene e a vista, come accessorio.

Elicotteri sorvegliano il cielo e fanno tremare la terra. La gente cammina indisturbata sui malaticci marciapiedi tra fucili, granate e pistole, tra kalashnikov e veicoli blindati, ognuno con un uomo alla mitragliatrice in torretta. Comprano e vendono davanti ai muri che mostrano ancora i grossi fori dei proiettili sparati durante la guerra, sotto grossi cartelloni pubblicitari di acciaio, vagamente simili a quelli occidentali, che promuovono la Roshan.

Sembra che tutta la violenza di queste immagini quotidiane sia percepita come lontana e non come qualcosa che ti è di fronte e che può perdere il controllo da un momento all’altro.

A me in Afghanistan regalano un pugnetto della prima neve della stagione, segno di grande stima e rispetto, perchè non sono qui per progettare sistemi operativi Pakistani o per prendere notizie dai servizi segreti spagnoli, ma sono in mezzo all’abbandono di pashtun, hazara, tagiki e uzbeki per curare i loro bambini, che un giorno prenderanno il posto di quelle persone che hanno massacrato la vita di questo paese.

 

ViaDelleBelleDonne “Il mio Afghanistan” – di Federica Iezzi

 

https://www.facebook.com/notes/federica-iezzi/racconti-dallafghanistan-di-federica-iezzi-surgical-mission-2011-2012/10150597523120984

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